%@>
Nella categoria: HOME | Articoli critici
...finché il sole
Risplenderà su le sciagure umane,
il canto delle Muse
eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceano
I “forti” che hanno vissuto e sofferto, per tessere la storia patria; la poesia
La poesia Trionfa sul duro “sonno della morte” ( Dei Sepolcri)
La forza ammaliatrice di questi versi rende difficile non condividere la professione di fede del Foscolo nella potenza della parola poetica. Ma questa parola, che pur trascende l’individualità del singolo, resta imprigionata in quel “finché”, che smaschera un antropocentrismo mediante il quale l’uomo raggiunge l’eternità tramite il ricordo (familiare, sociale e storico) - e qui, nella storia, che durerà finché il Sole risplenderà -, mediante il quale il poeta fissa la sua eternità.
Un altro poeta ebreo, direi non meno ispirato di Foscolo, molti secoli addietro cantava:
I cieli narrano la gloria di Dio,
e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio
E la notte alla notte ne trasmette notizia.
Non è linguaggio e non sono parole
di cui non si oda il suono .
Per tutta la terra si diffonde la loro voce
e ai confini del mondo la loro parola.
(……)
Ti siano gradite le parole della mia bocca,
davanti a te i pensieri del mio cuore.
Signore, mia rupe e mio redentore ( Salmo19, 2-5-15)
Da queste citazioni emerge il fascino della parola ancor più se poetica, che non nasce però dalla riflessione filosofica sulla storia e neppure da una visione poetica del cosmo, ma dalla contemplazione religiosa dell’universo, dall’esperienza spirituale di un popolo, che incontra Dio nella propria storia. La poesia della Commedia non affronta un destino personale, bensì dell’umanità. In Dante i canoni letterari “non servono a una bella invenzione, ma alla vera realtà”. Per il poeta medioevale, cresciuto alla scuola dell’ordine universale, “è la verità della dottrina razionale che genera l’immagine sensibile e le dà vigore”, ma la poesia “supera la filosofia dottrinale, che non può abbandonare e oltrepassare la ragione; essa sola è all’altezza della rivelazione e può esprimerla; ed essa esce dall’ambito della bella apparenza; (….) “la verità rivelata e la sua forma poetica sono una cosa sola”. Se San Tommaso nella Summa Theologiae costruisce un perfetto sistema, che comincia da Dio, esistente ed immobile (riprendendo la definizione aristotelica di “primo motore immobile”, per trattare poi delle creature), Dante, capovolgendo l’ordine della Summa, parte dall’uomo smarrito, in soccorso del quale interviene Virgilio, in suo aiuto come viator, ostacolato dalla bestia senza pace, Dante grida “Aiutami da lei, famoso saggio”: Virgilio, non altri, lo conduce alla verità della sommità della montagna del Purgatorio.
Dante è il poeta che porta nell’eterno se stesso, l’uomo, il mondo, la storia, l’esistenza tutta, ma senza che la forma finita venga dissolta. La Divina Commedia mostra la verità divina quale sorte umana, l’esistenza di tale verità divina presente anche nell’uomo che erra. A tale proposito il poeta, dopo aver letto le Confessioni di Sant’ Agostino, per esprimere uno stato di peccato reiterato utilizza la stessa espressione-immagine del filosofo: “selva oscura”. In questo sintagma l’attributo fa riferimento all’intelletto ottenebrato dal peccato, pertanto incapace di distinguere il bene dal male (anche San Tommaso sottolinea che qualsiasi conversione o pentimento parte dall’intelletto con il quale individuiamo e distinguiamo il bene dal male e solo successivamente il cuore amerà sempre e solo il bene). La selva è la rappresentazione simbolica di un peccato, talmente perseguito da portare alla morte spirituale.
Ora Dante non conosceva il greco, mentre Sant’Agostino molto bene: perché proprio la selva è il peccato? La filologia classica fornisce il passaggio linguistico che da selva porta alla forma lessicale greca ule che in greco significa materia; selva: evidenziamo la caduta del sigma iniziale, poi il passaggio vocalico da e ad u, la liquida rimane (l), cade la consonante v ed infine il passaggio dalla vocale a all’eta, la e lunga dell'alfabeto greco. Dalla filologia si evince che il concetto di peccato inerisce con la materia, la materia non è neutra rispetto ad esso, lo influenza, per usare un eufemismo, più ancora lo determina.
La scuola americana e in particolare Singleton pone la propria attenzione sulla Epistola inviata da Dante a CanGrande e nella quale il poeta stesso offre la chiave di lettura della sua opera (Ep.XIII, 7). Da tale lettura emerge un primo dato, cioè che l’opera dantesca non possiede un solo senso, anzi può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti il primo significato è quello ricavato da una lettura, per così dire, “alla lettera”, un altro è prodotto da una lettura che si sposta dal primo significato a quello più profondo e celato. Il primo si definisce letterale, il secondo di tipo allegorico. Per una migliore comprensione e chiarezza, secondo Singleton va letto questo passo: “Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio”.
Osserviamo entrambi i significati: il significato letterale storicamente vero fa riferimento all’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto verso la terra promessa, al tempo di Mosè; il secondo significato pur vero, si riferisce alla nostra Redenzione ad opera di Cristo.
Nell’epistola Dante sembra voler assimilare la propria operazione poetica, per quanto possibile, alla genesi della Bibbia stessa. Singleton non riscontra in un autore plasmato di religiosità, nulla di blasfemo in questa operazione dantesca, però pone una domanda: perché Dante che nel Convivio ha ben utilizzato l’allegoria dei poeti dimostrando di conoscerla perfettamente, nell’Epistola, dovendo esemplificare l’allegoria della sua opera, non ricorre a quella dei poeti, bensì a quella scritturale? La risposta di Singleton rovescia l'interpretazione della critica tradizionale dell’opera dantesca: il poeta utilizza l’allegoria scritturale, in quanto il primo come il secondo significato sono veri e di uguale dignità. Pertanto l’opera dantesca non può in modo un poco sbrigativo essere letta come frutto di una grandiosa fantasia dantesca, ma va rispettata, almeno a livello di impianto generale: il primo significato quanto il secondo sono entrambi veri. Singleton ritiene che questa interpretazione sia supportata dalla presenza, al tempo di Dante, di molti mistici che proponevano la loro visione dell’oltretomba, di Dio e dell’empireo, seppure non così ricca ed articolata come quella dantesca. Nel secondo canto dell’Inferno, Dante intimorito dal viaggio proposto da Virgilio, afferma “io non Enea, io non San Paolo” ed invece proprio come sulla via di Damasco San Paolo ha avuto la visione divina, così è, sarà in Paradiso per Dante, collocabile nel misticismo del suo tempo.
E’ pur vero che l’impianto generale prevede la presenza dell’allegoria scritturale e ne rovescia l’interpretazione prevalente sino alle novità introdotte da Singleton, ciò non esclude la presenza di altre categorie poetiche: il simbolismo, l’analogia e l’allegoria dei poeti. Perché - sostiene Singleton - Dante nel Purgatorio dovrebbe richiamare il lettore a modificare la lettura utilizzando l’allegoria dei poeti, se questa fosse stata la struttura portante di tutta l’opera? La risposta è chiara: solo talvolta il poeta usa l’allegoria dei poeti ed in tal caso invita il lettore a stare attento che il “il velo è tanto sottile che il trapassar sarà leggero”, cioè di facile accesso al secondo ed unico significato nella sua veridicità. Ora questa questione non riveste solo un interesse meramente erudito. Importa davvero molto se il primo senso ha un valore storico o fittizio, dal momento che in entrambi i casi dovremo disporre la mente a quella volontaria sospensione dell’incredulità indispensabile nella lettura di qualsiasi poesia?
In verità importa moltissimo, perché in questo poema abbiamo a che fare non con un significato solo, ma con due; e la natura del primo significato determina necessariamente la natura del secondo: ci indica come dobbiamo cercarlo.
Nel caso di un primo significato fittizio, quale si ha nell’allegoria dei poeti, qualsiasi interpretazione parla sicuramente di un significato esterno e di un significato interno – di un secondo significato trasmesso ma anche, in qualche modo, deliberatamente nascosto dall’ “involucro”, dalla “scorza”, dal “velo” di un significato fittizio che lo avvolge. L’allegoria dei poeti, come Dante la presenta nel Convivio, è essenzialmente un’allegoria che consiste nella tecnica poetica “in questa cosa per quella”, “questa rappresentazione al fine di dare (ma anche nascondere) quel significato”.
La specie di allegoria cui ci rinvia l’esempio scritturale nell’Epistola a CanGrande è una allegoria consistente non “in questa cosa per quella”, bensì “in questa cosa e quella”, questo senso più quello. Il versetto della Scrittura che recita “In exitu de Aegypto” ha il suo primo significato in quanto denota un evento storico reale e ha il suo secondo significato perché quello stesso evento storico, essendone Dio l’Autore, può significare un altro evento ancora: la nostra Redenzione per intercessione di Cristo.
Il primo è un significato in verbis; il secondo è un significato in facto (nell’evento), contenuto nell’evento stesso. Le parole hanno un significato reale in quanto indicano un evento reale; l’evento ha, a sua volta, significato perché gli eventi (che sono opera di Dio) hanno anch’essi, come le parole, un significato, un senso superiore e spirituale. Optare tra le due allegorie, individuando in una la struttura portante dell'opera, per Singleton, non dovrebbe essere difficile. E’ così chiaro che quella della Divina Commedia è l’allegoria scritturale (come esemplifica il poeta stesso nell'Epistola a CanGrande), che ci si può solo stupire dei continui sforzi fatti per considerarla un’allegoria dei poeti. Se allora l’allegoria della Divina Commedia è quella scritturale, se è un’allegoria che consiste “in questa cosa e quella”, se in essa si devono scorgere un primo significato in verbis e un altro significato in facto, quale è con certezza nel suo disegno generale la struttura allegorica del poema?
Definita nel modo più semplice, essa è questa: ciò che vien espresso dal significato letterale è il viaggio di un uomo a Dio attraverso il mondo ultraterreno. Il significato letterale si riferisce all’evento (il viaggio). Le parole del poema prendono il loro primo significato nel significare quell’evento, al modo stesso che il versetto dei Salmi prende il suo primo significato nel significare l’evento storico dell’Esodo.
Allora, come l’evento dell’Esodo, per il fatto di essere operazione di Dio, può dare, a sua volta, un altro significato (cioè la nostra Redenzione grazie a Cristo), allo stesso modo, nell’evento di questo viaggio nel mondo ultraterreno (anch’esso operazione di Dio) noi vediamo riflessi altri significati. Nel poema questi sono i vari riflessi del viaggio che l’uomo compie verso il fine che gli è proprio non nella vita post mortem, ma hic et nunc, nel modo in cui tale viaggio era ritenuto possibile al tempo di Dante (e non al tempo di Dante solamente).
L’allegoria scritturale è principale e strutturale nella Divina Commedia e nella sua corretta lettura, è un’allegoria che riguarda un’azione, un evento, un evento reso con parole, il quale a sua volta riflette (in facto) un altro evento. Entrambi gli eventi sono viaggi che portano a Dio.
Nel 1965, in occasione del VIII centenario della nascita di Dante, a Firenze Montale aveva concluso i lavori del convegno internazionale con una lunga e dettagliata esposizione dell'intera opera dantesca, coniugando capacità critiche e sensibilità poetica, fitta di implicazioni con la sua propria poesia.
Due sono gli aspetti del dantismo in Montale: l'influenza linguistica e tematica di Dante sulla sua produzione in versi e l'impegno di interpretazione dell'opera dantesca. I prestiti e i prelievi lessicali danteschi nei versi di Montale sono stati ben individuati dalla critica e non di minor importanza sono gli echi, le suggestioni figurative e le tematiche. Da Ossi di seppia “Meriggiare pallido e assorto”, che risale al 1916: in questi versi il poeta, pur esordiente, oltrepassa la manifestazione soggettiva del sentimento, per proiettarlo in quel paesaggio e mare che egli definisce “universalissimo”.
Meriggiare pallido e assorto/ presso un rovente muro d'orto,/ ascoltare tra i pruni e gli sterpi/schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia/ spiar le file di rosse formiche/ ch'ora si rompono ed ora si intrecciano/ a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare/ mentre si levano tremuli scricchi/ di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia/ sentire con triste meraviglia/ com'è tutta la vita e il suo travaglio/ in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
1 strofa, v. 3 “pruni e sterpi”: la fonetica interagisce ed accentua la valenza semantica, sono accostabili e pertanto di derivazione dantesca; dai v.32-37 del canto XII dell'Inferno ove viene descritta la selva dei suicidi: “e colsi un ramicel da un gran pruno” e “uomini fummo ed or siam fatti sterpi”.
2 strofa v. 5-8: l'immagine delle “file di rosse formiche” ha un riscontro nel Purgatorio, canto XXVI,V34-36, nell'incontro delle due schiere che “si intrecciano”, così... “s'ammussa l'un con l'altra formica”.
3 strofa v. 11: “scricchi” per indicare il frinire delle cicale rimanda al canto XXXII dell'Inferno, dove i traditori di Caina e Antenora “non avea pur dell'orlo fatto cricchi”, per indicare lo spessore della ghiaccia di Cocito. Far cricche nel linguaggio toscano indica il suono di una superficie dura che s'incrina producendo un suono simile al frinire delle cicale.
Dante offre al giovane Montale, come qui proposto, un eccezionale repertorio espressivo e figurativo da utilizzare in situazioni poetiche diverse. Dischiude cioè una prospettiva semantica, un orizzonte di significati entro il quale prende voce e vita la sua espressione poetica. L'antico fornisce al moderno le parole per dire “il male di vivere” e il disagio della civiltà. Non si tratta di mimesi, quanto di un rispecchiarsi della modernità poetica nella testimonianza più elevata del canone poetico della cultura occidentale: dar espressione alla coscienza infelice dell'uomo contemporaneo così come Dante ha “narrato”, a partire dall'inferno del presente, l'itinerario verso una possibile redenzione che, per Montale, è diventata impossibile, nonostante la sua incessante ricerca del “varco”, “dell'anello che non tiene”.
Montale è stato lettore di Dante e all'inizio del suo discorso troviamo l'affermazione che la voce di Dante “può giungere a tutti come mai forse avvenne in altri tempi e come forse non sarà più possibile in futuro, così che il suo messaggio può toccare il profano come l'iniziato, e in modo probabilmente tutto nuovo”. Non sarà il poeta Montale ad affrontare l'arduo tema dell'attualità dantesca nella società tecnico scientifica del nostro tempo, ma l'uomo Montale, consapevole che fra il critico e il suo oggetto (la poesia di Dante) esiste una divaricazione incolmabile. A tratti l'argomentazione di Montale presenta illuminazioni importanti: così, per esempio, trattando della proposta di Isidoro Del Lungo su Beatrice, secondo la quale “la donna miracolosa non solo visse ma fu un effettivo miracolo”, l'agnostico Montale afferma “che i miracoli possono essere sempre in agguato davanti alla nostra porta e che la nostra stessa esistenza è tutta un miracolo”. E allora come non pensare ad un filo che collega Beatrice alle moderne “beatrici” che tanta parte hanno nei versi di Montale e non solo come sembianze gentili, ma come figure simboliche di possibili o mancate epifanie del destino. Montale è convinto che “di fronte al dotto..., sta il letterato che scopre e sfrutta la possibilità del suo nuovo linguaggio, l'uomo che torna su se stesso, arricchisce il suo pensiero, l'esule che spera di essere riammesso in patria e che più tardi, deluso, rincrudisce le espressioni del suo rancore”. Nasce da questo stato d'animo il poema che ha al suo centro il personaggio-poeta, protagonista di un viaggio attraverso l'al di là che prima di lui era stato possibile solo ad Enea e San Paolo, e “la struttura di una visione duplice che da un lato si apre sul paesaggio dell'eternità, dall'altro su vicende terrene che occupano pochi anni di tempo e un luogo determinato, la vita del comune fiorentino e i suoi avvenimenti negli anni dell'impegno civile del poeta e il ruolo che il personaggio Dante ebbe in quelle vicende”. Da un'altra angolazione l'autore della Commedia e la sua opera sono protagonisti di una doppia storia: quella di uno scrittore e del suo libro e quella di un personaggio e della sua esistenza. Anche Montale, come Singleton, chiedendosi che cosa unifica le due storie, propone l'allegoria, il significato allegorico scritturale e accanto quello poetico.
Come spiegare la fortuna della Commedia presso quei lettori “che si accontentano di un primo significato senza cercarne un altro?”. Ebbene a livello di fruizione afferma Montale che “una indiscutibile unità è data dalla concretezza delle immagini e dalla capacità del poeta di rendere corporeo anche l'immateriale”. Un'opera totale, la Commedia, che, per Montale, richiama ai giorni nostri l'esempio dei Cantos di Ezra Pound che “contengono tutto lo scibile di un mondo in disfacimento” e The Waste Land di Eliot, rappresentazione di un “inferno post-simbolista e quasi cubista”. La conclusione del discorso di Montale ritorna sul tema iniziale, sulla resistenza “miracolosa” della poesia:
è vero ch'egli volle esser poeta e nient'altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e farlo conoscere a chi è più cieco di noi.
Inferno XXXIV 28-57: “lo 'imperador del doloroso regno” di contro a “l'imperador che là su regna” cioè Dio: la spaventosa maestà di questo verso afferma Montale e la descrizione di Lucifero sospeso nel vuoto al centro della terra e dell'universo.
L'immagine di Lucifero torna in Piccolo testamento dalla VII e ultima sezione di La bufera e altro (1956) intitolata Conclusioni provvisorie: il poeta fa una professione di fede e di speranza, la possibilità della sopravvivenza è questa: “ una storia non dura che nella cenere/e persistenza è solo l'estinzione”. La “divina Indifferenza” degli Ossi di seppia e delle Occasioni diventa stoica accettazione del destino, fedeltà eroica a se stesso, accettazione del “male di vivere” e testimonianza di quella “decenza quotidiana” che è la dimostrazione di una coerenza morale pienamente consolidata.
Divina Commedia con commento di Maria Corti
Singleton: La poesia della Divina Commedia
Eugenio Montale: Tutte le poesie
Eugenio Montale: Orazione conclusiva del convegno di studi danteschi del 1965
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
Vuoi pubblicare un articolo o una recensione?
Scopri come collaborare con noi
Rosario Frasca
VAI AL BLOG
Rosella Rapa
VAI AL BLOG
Davide Morelli
VAI AL BLOG
Elio Ria
VAI AL BLOG
Anna Stella Scerbo
VAI AL BLOG
Anna Lattanzi
VAI AL BLOG