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Sono sempre stato sventurato, ma le mie sventure di allora erano piene di vita.
Fatico ancora un po’ a classificare questo articolo, devo essere onesta. Non so dove mi porterà, sono certa solo di ciò che non presenterò: non è mia intenzione approfondire l’aspetto formale e contenutistico del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, né è mia intenzione proporre l’ennesima arringa contro il presunto pessimismo di Giacomo Leopardi.
Sto scrivendo perché so che capita a molti di avere un momento in cui lo sconforto sembra prevalere, ma ho imparato che leggere una poesia può aiutare ad arginare il buio. Forse questa non è quella giusta per tutti, ma è stata quella giusta per me.
Non è casuale che abbia scelto un canto tra i pisani- recanatesi: il ritorno a Recanati segna il ritorno alla poesia per un animo desolato, che dopo anni di delusioni e dopo la promessa di non comporre più un verso per la scomparsa del bello dal mondo supera infine lo sconforto e la disillusa ironia delle sue stesse Operette Morali.
Ultimo del ciclo pisano- recanatese, la stesura del canto XXIII risulta particolarmente laboriosa per Leopardi: gli estremi cronologici riportati sull’autografo datano 1829, 22 ottobre- 1830, 9 aprile.
È una canzone libera in cui l’unico dato costante è una parola in -ale che chiude ognuna delle sei strofe e rima con un’altra parola in clausula, sempre in penultima o terzultima sede ad eccezione della prima strofa; si tratta di un fonosimbolismo che allude al male, tema chiave insieme al tedio, che avvilisce la condizione mortale di tutte le creature viventi.
Leopardi presta la voce a un pastore dei kirghisi, popolo nomade asiatico. Dobbiamo pensare a un simil alter ego del poeta: sicuramente non è Leopardi nella sua condizione posta al di fuori della civiltà e del progresso europeo, per questo ha dubbi che ignorano la scienza e la filosofia, approfondite da Giacomo ma sconosciute al semplice pastore che non sa spiegarsi il come «Del tacito, infinito andar del tempo». È Leopardi ed è il lettore di ogni epoca, invece, nel suo smarrimento, nella malinconia e nelle domande esistenziali che non possono avere risposta. Il componimento è caratterizzato infatti da un’incalzante sintassi interrogativa, si contano 13 domande su 143 versi. Di memorabile bellezza le prime, che aprono il canto:
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, /Silenziosa luna?
Sottolinea Rolando Damiani: «Nell’uomo del deserto, rivolto all’astro che illumina la notte, Leopardi scorgeva sé stesso e nell’Asia un’immensa metafora della piccola Recanati, remota dalla civiltà».
La poesia leopardiana è senza dubbio malinconica, ma è una malinconia ampiamente fraintesa dai suoi contemporanei, che ha tramandato ai posteri un pregiudizio letterario duro a morire.
Benedetto Croce riconduce quasi l’intera opera leopardiana a desolati sfoghi sulla sua condizione privata, giovane sfiancato da malattie fisiche e bloccato nella minuscola Recanati.
Sembrano dargli ragione i versi nella quinta strofa del Canto notturno, dove Leopardi così descrive l’incessante affanno della vita del pastore: «Cade, risorge, e più e più s’affretta/Senza posa o ristoro,/Lacero, sanguinoso: infin ch’arriva/ […] Abisso orrido, immenso/Ov’ei precipitando il tutto obblia./ Vergine luna, tale/E’ la vita mortale» e, dopo aver ripercorso le fortune sconosciute alla condizione mortale, chiude la strofa con la domanda «Perché […] /Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?».
Sembrerebbe dunque un canto che si arrende al male, non potrebbe essere più eloquente il verso finale «è funesto a chi nasce il dì natale».
Eppure, c’è una labile ma sostanziale differenza tra riconoscere il limite della condizione umana e arrendersi a questo.
La malinconia del poeta di Recanati non ha a che fare con la sua condizione privata, ed egli lotterà tutta la vita perché questo venga compreso. Essa deriva dalla strabiliante intuizione che il cuore dell’essere umano cerca continuamente un oltre a cui aggrapparsi e la malinconia altro non è che l’incapacità di rassegnarsi a non raggiungerlo all’apparir del vero.
In questa chiave di lettura la poesia di Leopardi non è pessimismo, ma risarcimento: per tutta la vita il poeta tenderà, col suo cuore malato e instancabile, a quella fame di infinito che Croce gli riconosce valida solo negli Idilli e che invece è presente in ogni poesia, perché è la poesia stessa lo specchio del suo turbamento; non come mezzo per esprimerlo, ma come via per rifuggirlo.
Cos’è che resta a noi del pastore? Ci restano gli interrogativi, i dubbi, lo smarrimento.
Perché «ove tende/Questo vagar mio breve» è la domanda più dolorosa da porsi mentre si cresce, svela i conti aperti con il mondo e soprattutto con sé stessi. Se Leopardi dà voce al semplice pastore che non si incontra con le sue conquiste filosofiche è forse per noi l’ingenuità e lo smarrimento dell’età che si affaccia al mondo e confonde le acque, mischia le carte.
Sicuramente non dividendoci tra endecasillabi e settenari, ma quello che per Croce era rifiuto del vero è in realtà il turbamento di molti e Leopardi è riuscito a renderlo poesia con estrema dedizione al bello.
Possiamo riconoscerci nello scoraggiato sussurro alla luna «tale/ È lo stato mortale» o negli interrogativi «Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? Che vuol dir questa/ solitudine immensa? Ed io che sono?» ogni volta che le aspettative sono tradite dalla realtà.
Il pensiero che sarebbe più facile avere le ali «Da volar su le nubi/ E noverar le stelle una ad una» ha sfiorato la mente di ognuno di noi, che abbiamo odiato la luna perché era Luna.
Le domande nel canto rivelano un profondo conoscitore e osservatore del mondo, anima complessa: forse Giacomo era e continua ad essere tutti noi nel suo naufragare, nella sua Silvia, nel suo passero solitario, nel suo pastore errante.
Crescere è difficile ma, se arriva al momento giusto, leggere Leopardi può rivelarsi un rapimento. Insegna a porsi le domande, a capire quali diventeranno la bussola del nostro divenire, ché crescere significherà cercare le risposte.
Serve non a nascondere il buio nella realtà, ma a trovare il fuoco che lo margina.
Vedi anche: il nostro Segnalibro dedicato al Canto notturno di un pastore errante
Silvia Rodinò, classe '98, si laurea in Lettere scoprendosi incerta sul da farsi. Da sempre instancabile lettrice, allora, decide di combinare assieme i suoi studi e la sua più grande passione: ottiene un Master in professioni editoriali e continua quel sentiero che le è sempre parso l'unico percorribile. Spera che la fine conduca al Cimitero dei libri dimenticati per vedere, finalmente, com'è fatto.
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