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Alla Luna Testo
Oh graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a ritirarmi:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, ‘ne cangia stili
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor del triste, che l’affanno duri!
Alla Luna Parafrasi
Oh delicata Luna, io mi ricordo
che un anno fa, su questo colle
era mia abitudine venire a contemplarti carico di angoscia:
e tu eri sospesa sul bosco
proprio come fai ora, rischiarandolo tutto.
Ma il tuo volto mi sembrava annebbiato e tremolante
a causa delle lacrime che sgorgavano dai miei occhi,
per colpa della mia vita travagliata:
tutt’ora nulla è cambiato o mia cara luna. Eppure mi reca sollievo
il ricordo dell’età del mio dolore. Oh quanto è prezioso
durante la giovinezza, quando la speranza ha davanti a sé un lungo camino, mentre quello della memoria è ancora breve,
il ricordarsi di ciò che è passato, anche se triste e se crea sofferenza.
Alla Luna Commento
Alla Luna è un idillio di 16 versi in endecasillabi sciolti, scritto da Giacomo Leopardi nel 1819 e inserito nella raccolta Piccoli Idilli. In quest’opera spicca prepotentemente uno dei temi più cari al poeta recanatese: il ricordo. Mentre Leopardi osserva la luna che illumina in tutto il suo splendore il colle Tabor, riaffiorano in lui ricordi legati all’anno precedente, quando le sue lacrime offuscavano le belle immagini della natura. Rimembranze, che se pur tristi, riescono ad addolcire il suo animo e a concedergli un momento di sollievo.
Alla Luna più di ogni altro scritto leopardiano, rispecchia lo stile della poesia classica, con quella punta di romanticismo, non sufficiente per poterla collocare nel bouquet degli scritti più sentimentali.
Il classicismo è, infatti, molto vivo sia nello stile dell’idillio, che nella tematica, che per precisione e limpidezza, non imita, ma richiama la poesia degli antichi.
Sia la forma che la materia di Alla Luna richiamano la perfezione degli antichi poeti, che amano delineare i contorni perfetti della natura, madre di ogni benessere, capace di donare sollievo alle membra. Un pensiero questo, che spesso si ritrova nelle opere leopardiane, inclusi gli idilli, considerati dalla critica, l’espressione più alta dello spirito romantico dello scrittore. Giacomo Leopardi quindi, è un poeta romantico o un poeta classico?
Giacomo Leopardi e la polemica classico-romantica
Estratto del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica
“Se alla difesa delle opinioni de’ nostri padri e de’ nostri avi e di tutti i secoli combattute oggi da molti intorno all’arte dello scrivere e segnatamente alla poetica si fossero levati uomini famosi e grandi, e se agl’ingegni forti e vasti si fosse fatta incontro la forza e la vastità degl’ingegni, e ai pensieri sublimi e profondi, la sublimità e profondità dei pensieri, né ci sarebbe oramai bisogno d’altre discussioni, né quando bene ci fosse stato, avrei però ardito io di farmi avanti.”
Così esordisce Leopardi nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica scritto nel 1818, che insieme alla Lettera ai redattori della biblioteca italiana redatta due anni prima, costituiscono gli strumenti con cui il poeta partecipa alla accesa diatriba tra classicisti e romantici.
Il Discorso vede un Leopardi schierato dalla parte dei classicisti, che condanna fermamente alcuni aspetti della poetica romantica. Lo scrittore esalta la naturalezza e la spontaneità del linguaggio classico, la sua non contaminazione e biasima il romanticismo nella sua prospettiva più rivoluzionaria, che a suo avviso non sarebbe così progressista come si vuol far credere. Il poeta non si risparmia e critica aspramente l’uso improprio che i romantici fanno del patetico, trasformandolo in qualcosa di totalmente differente da quello che hanno consegnato loro gli antichi.
Non meno importante è la Lettera ai redattori della biblioteca italiana, redatta due anni prima, che contiene la risposta del Leopardi alla missiva di Madame de Stael Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni. Nel suo scritto la Madama, così come la chiama Leopardi, punta il dito contro la cultura italiana, colpevolizzandola di arretratezza e impoverimento a causa della continua ripresa dei modelli antichi, che i letterati italiani si limiterebbero solo a imitare. Madame de Stael assume una posizione decisamente dura e critica nei confronti dei dotti del Bel Paese, accusandoli di oziare e di non voler inglobare e far propria la nuova cultura europea attraverso un adeguato utilizzo delle traduzioni. La risposta del poeta non si fa attendere: Leopardi nella sua Lettera difende a spada tratta la cultura classica e quelli che sono i suoi fondamenti, ma non solo. Il filologo si schiera dalla parte di chi imita, perché, sostiene con veemenza, che i grandi poeti e gli scrittori antichi, possono essere solo imitati e mai eguagliati.
Estratto della Lettera ai redattori della biblioteca italiana
“Forse che quanto si è più ricco di suppellettile poetica, tanto si è più atto a crear cose grandi? né sapranno gl'Italiani crear altro che materia già creata? Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori, e disaminamento di gusti stranieri. O noi sentiamo l'ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che ad impedirci di pensare, e di creare di per noi stessi: se no, tutti scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura. Ricordiamoci (e parmi dovessimo pensarvi sempre) che il più grande di tutti i poeti è il più antico, il quale non ha avuto modelli, che Dante sarà sempre imitato, agguagliato non mai, e che noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi (se v'ha chi tenga il contrario getti questa lettera che è di un mero pedante) perché essi quando voleano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle”
Giacomo Leopardi classicista
Abbiamo visto che dal punto di vista teorico, Leopardi si definisce classico e anti-romantico. In realtà anche dal punto di vista pratico abbraccia elementi classici che mai abbandonerà anche in quelli che saranno i suoi scritti più romantici. Come abbiamo sopra accennato, nell’idillio Alla Luna, affiora una caratteristica tipica della poesia leopardiana: la descrizione dettagliata della natura, in ogni sua forma e nei suoi contorni più intimi, derivante da un’attenta osservazione. Tale peculiarità è una nota emblematica del classicismo.
La penna del Leopardi è di grande sentimento e di appassionata meditazione, elementi fortemente presenti nella scrittura classica e molto blandi in quella romantica, che viene in qualche modo “sporcata” da una visione mistica di se stessa. Il descrivere in maniera esponenziale il rapporto uomo-natura, è un’abitudine di pensiero e di scrittura che il poeta non abbandonerà mai.
Giacomo Leopardi romantico
Perché Giacomo Leopardi può comunque essere definito romantico? Nonostante le sue perentorie condanne, il Leopardi condivide molto della corrente romantica, a partire dal linguaggio della sua poetica che esprime attraverso le canzoni e gli idilli, componimenti che rispecchiano in diversi tratti il pensiero e lo stile vigorosamente sentimentale. Abbraccia atteggiamenti dell’animo tipici dei romantici, dall’angoscia, al pensiero malinconico, alla rimembranza. Non è da meno nella guerra contro la mitologia greca e la volgare imitazione della tradizione classica. Il Leopardi può quindi essere definito un poeta classico-romantico?
Giacomo Leopardi e lo stile leopardiano
Alla luce della sua visione classicista e di quella romantica, si può affermare che Giacomo Leopardi è creatore dello “stile leopardiano”, un’espressione di scrittura pregna di precetti classici, addolcita da elementi romantici e con lo sguardo rivolto all’insegnamento illuminista. Non va ignorata, infatti, l’influenza che ha la corrente illuminista sulla formazione del Leopardi, che in gioventù si ispira agli insegnamenti di Vico e di Rosseau e nella maturità a quelli di Holbach e Helvetius. Lo stile leopardiano è un’espressione poetica a sé, padre della poesia profonda e schietta. Quest’ultima è considerata dal poeta uno sfogo immediato dell’anima, proprio come lo è per i seguaci del romanticismo: a differenza di questi ultimi però, Giacomo Leopardi mette al primo posto il bello alla maniera classica. La sua ispirazione poetica sgorga dalla sensibilità dell’anima ed è atta ad esprimere quella inconfondibile totalità creata dal rapporto uomo-natura. Uno stile proprio quindi quello del Leopardi, che vede la natura come fonte di bene nella fase giovanile e poi intesa, in età matura, come la madre di tutti i mali, la causa dell’infelicità dell’uomo. Essa ha donato la voglia di una felicità infinita, ma non ha dato all’umanità i mezzi per poterla soddisfare. Quella natura crudele e immutabile, proprio come è immutabile l’infelicità dell’individuo. La maturazione di questa potente convinzione, permette un ulteriore dietro-front del filosofo recanatese: ad un certo punto si riconosce un Leopardi rassegnato, ironico e distante. Il suo ideale diventa nuovamente ed esclusivamente il saggio antico. Lo stile leopardiano abbraccia anche la visione pessimistica del poeta, che secondo le più comuni convinzioni fa di lui il poeta della morte. In realtà anche questo convincimento sarebbe da rivedere e qualche suggerimento in merito può darlo la lirica A Silvia.
A Silvia testo
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
A Silvia parafrasi
Silvia, ricordi ancora
quegli anni lontani in cui eri ancora viva
quando la bellezza risplendeva
nei tuoi occhi sorridenti e timidi
e tu felice e pensierosa, stavi per oltrepassare la soglia della giovinezza?
La casa e le vie che la circondano risuonavano
del tuo canto,
quando occupata nei lavori femminili sedevi, felice
di quell’avvenire incerto che sognavi.
Era il mese di maggio colmo di profumi: e tu cosi trascorrevi le tue giornate.
Io talvolta interrompendo i piacevoli studi e le fatiche letterarie
sui quali trascorrevo il tempo della mia giovinezza a cui ho dato
la parte migliore di me,
dai balconi della casa paterna
ascoltavo il suono della tua voce e il rumore del telaio che faticosamente veniva mosso dalla tua veloce mano.
Contemplavo il cielo sereno e le strade illuminate dal sole, i giardini, e da una parte il mare in lontananza e dall’altra i monti.
Difficile esprimere quello che provavo dentro di me.
Che dolci pensieri, che speranze,
che sentimenti, o Silvia mia!
Come ci appariva allora la vita umana
e il destino!
Quando mi ricordo di tanta speranza mi sento opprimere da un senso di angoscia
e ritorna il dolore per la mia sventura.
O natura, o natura
Perché non mantieni le promesse che fai in gioventù?
Perché inganni cosi i tuoi figli?
Tu prima dell’inverno, sei morta combattuta e vinta da una malattia o tenera. E non vedevi la giovinezza; il tuo cuore non ha potuto ascoltare le lusinghe rivolte alla bellezza dei tuoi neri capelli, o quelle degli sguardi innamorati e sfuggenti; ne hai potuto prendere parte alle confidenze sentimentali delle coetanee .
Dopo poco veniva meno anche la speranza: alla mia vita il destino ha negato la giovinezza.
Ahi come,
come sei irrevocabilmente svanita,
cara compagnia della mia giovinezza, mia compianta speranza!
Questo è quel mondo? Questi i piaceri, l’amore, il lavoro, gli accadimenti di cui parlammo tanto insieme? Questa è la sorte degli uomini? Appena la vita è apparsa per quello che è veramente, tu povera sei morta: e con la mano mostravi lontano la fredda morte e la tomba disadorna.
A Silvia commento
A Silvia appartiene ai grandi idilli e viene composta da Giacomo Leopardi nel 1828. La poesia è una canzone libera di 34 settenari e 29 endecasillabi e può essere suddivisa in quattro sezioni:
Silvia – Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, che muore di tisi polmonare nel 1818 - canta serena, pensando ad un futuro e un avvenire vago: non è consapevole di quello che le accadrà, ma sente che sarà qualcosa di bello. Il suo canto soave attira l’attenzione del poeta, che ascolta, distraendosi così dai suoi amati studi. Una prima parte è quindi basata sui ricordi e su tutte quelle sensazioni della giovane età. Le emozioni legate alle rievocazioni, rendono ancora più doloroso il presente. Ed ecco che emerge la colpevole di tanto dolore: la natura. Quella natura che tanta speranza di felicità dona, senza offrire la possibilità di vederla realizzata. L’idillio si chiude con la visone della fredda morte e con la figura della speranza che addita una tomba da lontano.
Giacomo Leopardi il poeta della vita
Contrariamente a quanto si possa pensare, Leopardi non è il poeta della morte, bensì è il poeta della vita. Un’affermazione forte, visto che la visone media che si ha della sua poetica è strettamente pessimistica. Nell’ultima strofa di A Silvia è la speranza ad indicare la tomba da lontano: quella speranza che non muore mai, nonostante il pessimismo, nonostante il dolore creato dai ricordi. Quella speranza che è immagine di vita rimane forte e sempre ci sarà. Leopardi accusa la natura di rendere infelice l’uomo, è consapevole della caducità del tutto, creando così la sua visione pessimistica, ma accetta l’idea del nulla inneggiando alla speranza e alla vita. Il filosofo di Recanati non decanta mai la morte. È ferma la sua convinzione: la realtà se pur con tutte le sue negatività merita di essere vissuta.
Un esempio molto forte di tale suo pensiero arriva dalla sua ferma condanna del suicidio nel “Dialogo di Plotino e Porfirio”. Il confronto tra i due filosofi della scuola è molto significativo: la vita se pur sventurata va conservata. È quanto spiega Plotino al suo allievo Porfirio che vorrebbe compiere giustizia contro se stesso e le sofferenze ponendo fine alla sua esistenza. Emerge ancora la natura come madre di tutti i mali, ma Plotino afferma che tale verità va accettata e fatta propria: mai questa consapevolezza deve far pensare che la vita non debba essere vissuta.
Estratto del Dialogo di Plotino e Porfirio
“Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.”
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