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La memoria da Platone a Proust, rivisitazioni poetiche e filmiche

di Maria Barchiesi

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Reminiscenza come conoscenza in Platone

La teoria della reminiscenza platonica ha, in generale, una collocazione importante nell’alveo delle dottrine innatiste; in particolare, essa esplicita la modalità con cui la nostra conoscenza avviene. Quest’ultima è, per Platone, il ricordo di quanto l’essere umano avrebbe esperito prima della sua nascita nel mondo delle idee. L’anima, che secondo Platone è immortale, è predisposta al conoscere:

L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata… non c’è nulla che non abbia appreso., cercare ed apprendere sono nel loro complesso reminiscenza.

Prima di approfondire l’anamnesis per richiamare che cosa tale termine denoti specificatamente nel pensiero platonico, è opportuno confrontarlo con un altro termine, ad esso in qualche modo legato, e cioè mnème, “ricordo”. La reminiscenza è una funzione di tipo rimemorativo, per cui avere reminiscenza di x significa ricordare x, ma essa non va confusa con il semplice ricordo, con la parola la greca mnème: Platone, infatti, distingue nettamente e, per certi versi, contrappone anàmnesis e mnème. Il termine anamnesi designa un particolare atto di rimemorazione, di tipo associativo, che può avere per oggetto tanto la realtà sensibile quanto quella intelligibile e che, in quest’ultimo caso, equivale all’apprendimento del vero. L’uso che il nostro filosofo fa del termine mnème, invece, pare sostanzialmente diverso. Il ricordo sembra essere, infatti, in primo luogo la facoltà della memoria, ma anche l’oggetto stesso della memoria. Nella Repubblica la mnème viene elencata in una lista delle virtù che caratterizzano il vero filosofo:

tu ricordi che le abbiamo identificate  nel coraggio, nella generosità, nella facilità ad apprendere, nella memoria.

La mnème è una funzione passiva, in quanto semplice conservazione della sensazione; la reminiscenza, al contrario, è una funzione attiva. Essa infatti si verifica quando l’anima rivive, ripete sensazioni assenti, ovvero quando recupera un’affezione sensibile oppure una conoscenza il cui ricordo era andato perduto. L’anàmnesis sembra essere, dunque, frutto di una cooperazione tra sensi e ragione: la percezione sensoriale è punto di partenza del processo amnestico, ma, essa deve essere seguita dalla riflessione razionale sull’oggetto percepito. Il ricordare ha, quindi, in Platone una duplice valenza, dal momento che può consistere in un mero avere in sé, conservare le tracce delle sensazioni o delle conoscenze acquisite nel corso della vita. In questo caso si connette alla funzione che il nostro filosofo definisce mnème; oppure esso può consistere in un attivo, impegnativo e faticoso recuperare qualcosa di passato, in questo caso essa è frutto della facoltà chiamata anàmnesis. Un’importante differenza tra anamnesi e ricordo riguarda, poi, l’oggetto specifico di queste due facoltà: mentre la mnème, in quanto semplice conservazione delle sensazioni e degli avvenimenti che costituiscono la nostra vita presente, ha per oggetto il solo mondo sensibile, l’anàmnesis ha una sfera d’azione più ampia, che può comprendere  tanto l’universo intellegibile, le idee, quanto quello empirico. Di quest’ultimo, dunque, ci può essere tanto anamnesi quanto ricordo; mentre dell’intellegibile ci può essere solo reminiscenza. Ho iniziato questa argomentazione  sostenendo che la teoria della reminiscenza platonica è uno dei primi esempi di innatismo della storia della filosofia: Cartesio, Leibniz e Kant, molto posteriori a Platone, sono stati sostenitori di questa teoria.

Spostando l’attenzione in ambito letterario, Marcel Proust, nella sua opera Alla ricerca del tempo perduto, ci propone una ampia e dettagliata riflessione circa la correlazione e l’influenza che il tempo presente subisce dalle esperienze passate. Si ricorda solitamente il passo della madeleine in cui il gusto del biscotto richiama l’autore ad un tempo passato, il periodo della fanciullezza, quando era solito mangiare quel biscotto dalla zia Léonie. Dal momento che nel tempo presente viene richiamato un tempo passato, si può affermare che l’azione di richiamo del passato nel presente corrisponde ad una vera e propria fusione tra la prima e la seconda dimensione temporale.
Se applichiamo il concetto di fusione temporale alla teoria della reminiscenza platonica, si potrebbe dire che nel momento in cui l’essere umano viene a conoscenza delle cose sensibili, viene automaticamente richiamata la conoscenza pregressa del mondo delle idee. In tal caso, anziché trattarsi di fusione tra presente e passato, come per Proust, si tratterà di fusione tra metapresente (il contesto  della vita terrena) e metapassato (il tempo infinito passato che precede la vita umana e che corrisponde alla dimensione temporale dell’iperuranio).

Proust e le neuroscienze

Dimenticare è un processo involontario, anche ricordare può esserlo spesso;  il ricordo affiora senza che si faccia niente di consapevole per suscitarlo. Come Proust con le sue madeleines? Non esattamente. Da decenni presso lo IUSS di Pavia dal professore Stefano Cappa, ordinario di neurologia, dal professore Andrea Moro, ordinario di Linguistica generale e dalla professoressa Eleonora Catricalà, associata di Psicologia e da altri studiosi di neuroscienze il capolavoro di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, viene letto in una prospettiva specialistica e vengono tratte conclusioni sull’esperienza che doveva essere alle spalle dell’autore tanto sottili, nell’esaminare la psiche umana e alquanto singolari. Per molti versi, Proust avrebbe tracciato, in un contesto certo esclusivamente letterario, una strada che la scienza avrebbe poi percorso. Questa è almeno la tesi di Jonah Lehrer, autore di “Proust era un neuroscienziato”,  secondo cui vari studi moderni sulla memoria non fanno altro che confermare teorie che già Proust aveva in qualche modo messo in pratica, per così dire, nel suo romanzo. E con Lehrer, vari altri studiosi anche accademici pavesi concordano nel ritenere che lo scrittore diede un vero e proprio contributo alle neuroscienze.
Più precisamente la madeleine di Proust sarebbe legata ad un concetto specifico: una circostanza casuale che fa riemergere improvvisamente un ricordo rimasto a lungo sepolto, un legame talmente evidente da giustificare definizioni come “momento proustiano” o “memoria proustiana”. In psicologia si utilizza l’espressione “memoria involontaria”, e fu lo stesso Proust, in un’intervista del 1913, a coniare quest’espressione:

La mia opera è dominata dalla distinzione fra la memoria involontaria e la memoria volontaria.

Ma questa distinzione così esplicita e netta per l’autore, inizia a vacillare. Emily Troscianko, ricercatrice al John’s College di Oxford su Memory Studies, argomenta che, sulla base della ricerca attuale, la scena delle madeleines non è un buon esempio di memoria involontaria. L’autrice, studiosa anche di lingue, indaga il “realismo cognitivo” in letteratura. Con questa espressione si intende la coerenza di un testo narrativo con le esperienze cognitive reali.

Per alcuni versi, la studiosa afferma che la scena proustiana è verosimile. Le memorie involontarie, infatti, sono tipiche di eventi vissuti ripetutamente nel passato, possono essere facilmente scatenate da un odore, e avvengono in momenti di stanchezza o di bassa concentrazione, tutte condizioni che si verificano nella ricostruzione di Proust.

Il primo punto su cui Troscianko confuta lo scrittore francese è l’idea che gli odori abbiano un potere evocativo maggiore di tutti gli altri stimoli. Spiegava Proust nel 1913:

Per me, la memoria volontaria, che è soprattutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, ci offre del passato soltanto facce prive di verità, ma basta che un odore, un sapore ritrovati in circostanze del tutto diverse, ridestino in noi, senza che lo vogliamo, il passato, e subito sentiamo quanto tale passato fosse diverso da quello che credevamo di ricordarci e che la nostra memoria volontaria dipingeva, come i cattivi pittori, con colori senza verità.

E in effetti, dato che il gusto e l’olfatto non passano attraverso il talamo ma sono elaborati direttamente nell’amigdala, è vero che gli odori provocano suggestioni particolarmente emotive. Ma esperimenti recenti hanno accertato che stimoli astratti come parole o pensieri sono più efficaci. Le memorie suscitate dall’olfatto, inoltre, sono sì molto intense, ma non dettagliate come quelle descritte da Proust.

La seconda discrepanza, la più importante, riguarda il tempo necessario perché le reminiscenze riaffiorino. Una memoria è un riproporsi immediato del ricordo, senza bisogno di alcuno sforzo consapevole. Mentre Proust, con la sua madeleine, si impegna a decifrare i ricordi, secondo alcuni studiosi, per molti secondi, se non alcuni minuti. Insomma la memoria involontaria più famosa della letteratura non sarebbe involontaria.

Naturalmente un secolo fa Proust, per quanto colto ed informato, non poteva essere al corrente delle recenti ricerche delle neuroscienze, e in fondo poco importa se il suo romanzo sia inoppugnabile oppure no. Interessante è che il lettore trova perfettamente credibile il meccanismo di rievocazione descritto da Proust: il processo mentale che narra risulta verosimile a noi come a lui. Gli “errori” di Proust sarebbero quindi da imputare a quella che Troscianko chiama folk psychology, cioè l’insieme delle aspettative che il profano si crea in materia di psicologia sulla base della propria esperienza quotidiana.

Marcel Proust e la memoria

Lo studio delle neuroscienze non annulla la bellezza artistica dell’opera proustiana che, in sé, rimane integra ed elevata e aggiungerei non solo per la presenza della memoria involontaria. Durante l’edizione del Memoria Festival il tema della memoria in Proust è stato affrontato in modo peculiare ed originale: lo scrittore è forse il maggior esponente della letteratura francese per la sua avvincente memoria involontaria e le evocazioni che porta con sé o per quel senso di recuperata felicità, talvolta, o di dolore che il protagonista prova? Non solo madeleine. Il tema della memoria involontaria, inconscia, affiora più volte nelle pagine della Ricerca del tempo perduto, dentro lo scorrere ordinario del tempo, la memoria irrompe inattesa a saturare in modo imprevisto un istante, quasi a isolarlo in una dimensione extratemporale, una sorta di esitazione, di interruzione che sottrae Marcel al movimento altrimenti inarrestabile della vita. Questi eventi, questi varchi aperti dai ricordi involontari non hanno però sempre lo stesso sapore, gli stessi colori. Possono essere esperienze colme di un piacere delizioso e straordinario; talvolta, invece, sono rivelazione del dolore che colma silenzioso la vita.

...un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai ...cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una cappasanta . Oppresso da una giornata uggiosa... domani melanconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che si ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma quando le briciole raggiunsero il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso... mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita... illusoria la sua brevità... agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa... o meglio quell’essenza non era dentro di me , io ero quell’essenza. Da dove poteva giungere una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente... una seconda sorsata nella quale non rovo nulla di più he nella rima, una terza che mi dà un poco meno della seconda. ...la verità che cerco è dentro di me... la bevanda l’ha risvegliata. E ...il ricordo è apparso davanti a me...i giorni di Combray...

Nella casa di campagna dei nonni, a Combray appunto, il narratore ha trascorso tante estati, da bambino e da adolescente; e di Combray è sopravvissuto anche un rito sofferto: il distacco dalla mamma alla sera al momento di andare a dormire. Marcel ha sempre saputo che Combray è stato anche altro, ma lo sapeva perché affiorato dalla memoria volontaria e allora quel Combray era come morto. Il sapore della madeleine porta con sé un ricordo felice di Combray: le sue case, i suoi giardini e le sue persone. La memoria involontaria, secondo Proust, illumina l’istante presente (non è completamente lontana, a mio avviso, dal vero l’asserzione della neuroscienza che definisce di brevissima durata tali ricordi, giusto una illuminazione). Al centro della riflessione del narratore non sta solo la memoria, ma anche la felicità, la deliziosa voluttà. E perché? La risposta giungerà al narratore nel momento in cui prende coscienza che quella felicità si apre a chi nel ricordo involontario viva l’improvvisa e inattesa restituzione di qualcosa che assomiglia al senso della vita. Il senso ritrovato, però, è fragilissimo, qualcosa che ha l’evanescenza di una bolla di sapone. E già lo svelano molti ricordi involontari, che sono solo delle irruzioni di un dolore estremo, insopportabile. Il ricordo di Odette e dei tempi felici con lei riaffiora insopportabile, un amore tutto intessuto di sofferenze, ansie, gelosie, alimentate dalle ambiguità dell’amata, dalla sua inafferrabilità, dal suo crescente distacco. Il lavorio incessante dell’intelligenza non svela la verità, ma mira a nascondere, a mitigare, rendere sopportabile la fine dell’amore. E poi all’improvviso il vero. Ancora una volta un insieme di sensazioni travolge senza avviso la quotidianità, il suo grigiore, la sua confortevole banalità. La memoria involontaria porta anche qui ad una rassicurazione, non di una piccola città, delle sue estati, colme di zie, genitori, biancospini, fanciulle irraggiungibili, ma di un amore e della sua felicità effimera. La promessa di conoscenza insita nel sapore della madeleine trova qui un compimento differente; il contenuto della promessa presente nelle epifanie che costellano l’esperienza di Marcel, è cognizione del dolore, dell’ineliminabile fragilità del senso, di un tempo che è trasformazione lenta ma inarrestabile, un movimento verso la distruzione e la morte.

Proust ha posto al centro della sua opera la memoria involontaria: nel 1913, quando uscì il primo volume della Recherche del tempo perduto Proust scriveva:

Voyez-vous, je crois que ce n’est guère qu’aux souvenirs involontaires que l’artiste devrait demander la matière de son oeuvre.

Nella sua corrispondenza, Proust insiste a più riprese sull’opposizione che domina tutta la sua opera, quella tra memoria volontaria e memoria involontaria: la prima prodotta dall’intelligenza è sbiadita e incapace di risuscitare il passato, mentre l’altra è feconda, veritiera e sconvolgente. Mi permetto di esprimere qualche dubbio sulla veridicità della memoria involontaria, la soggettività del sentire con i nostri sensi e che da tale sentire parta in modo totalmente veritiero un ricordo del passato, può lasciare qualche dubbio. Inoltre, lo scrittore fa subire al tema della memoria un trattamento poetico unico nel suo genere: per unire il tema e la narrazione con un legame che sia necessario, vincolante, per riservare al protagonista un tempo di formazione e di scoperta, al lettore un tempo di suspense e di attesa, Proust divarica quasi sempre il motivo della memoria in due luoghi lontani del romanzo: il racconto dell’impressione originale da una parte, il racconto del suo ricordo dall’altra, così collocati a debita distanza, a sorreggere la narrazione. Un esempio significativo è questo: Francois le Champi di George Sand viene letto dalla madre all’inizio di Du coté de chez Swann, ma la scena viene ricordata soltanto alla fine del Temps Retrouvé, dopo più di 3000 pagine. Mentre altri autori della memoria involontaria tengono unita la narrazione dei due istanti, in quanto il ricordo possa innescare un immediato, contiguo ritorno nel  passato sotto forma di flash back narrativo, di analessi. Inoltre, Proust moltiplica per cento (cento reminiscenze) e tutto ciò costituisce una sorta di appoggi sui quali si fonda la materia narrativa. Proust camuffa, per così dire, l’impressione originale da una parte e dall’altra cerca, e vi riesce, a rendere più luminosa la reminiscenza, aumentando così lo stupore del protagonista ed ancor più del lettore.
Il ricordo involontario deve allearsi ad altri tipi spontanei di ricordo, ad esempio alla memoria organica, a quella del sonno e del sogno, del risveglio e della fantasticheria. Proust evoca reminiscenze del corpo e delle sue membra
.

Nella trama ondulante degli anni e dei giardini. Il Proust di Bertolucci

La visita che Bertolucci fece alla casa di Tante Léonie è un’immersione nel mondo perduto e ritrovato della Recherche, ma anche e soprattutto la deliziosa conferma che

la vraie vie, la vie enfin découverte et eclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature (Le temps retrouvé)

La casa che Attilio Bertolucci visitò nella primavera del 1953 è al contempo piena di percettibili fantasmi e di frasi immortali che aleggiano, sicché non è più un’esperienza ordinaria di visita sulle orme dei luoghi dove uno scrittore è vissuto e ha lavorato, ma la scoperta emozionante di come il mondo creato dalla letteratura possa davvero esistere: Bertolucci visitando Illiers non andava alla ricerca di Marcel Proust ma alla scoperta della Recherche, delle sue immagini, dei suoi profumi, delle sue atmosfere. Quando Bertolucci scoprì per la prima volta la casa di Léonie, la facciata era già stata rifatta, quindi il poeta ricorda che durante la sua prima visita a Illiers gli fu detto che era il primo italiano a visitare la casa. Il racconto del soggiorno di Bertolucci si trova in un testo intitolato “A Illiers con Marcel Proust”, già intitolato con più esplicita partecipazione sentimentale “Pellegrinaggio proustiano”. Infatti come accade ad altri visitatori di questi luoghi non si tratta di un tour per ritrovare alcuni momenti della vita di Marcel Proust, bensì un’immersione quasi rituale nel mondo della letteratura, ossia la ricreazione davanti ai nostri occhi di atmosfere già intraviste e di sentimenti già provati durante la lettura del romanzo. Lo scritto di Bertolucci non descrive proprio la casa, ma si concentra sui dintorni, nella stagione dei “lillà attardati, ciliegi, peri e meli in fiore”. Il poeta evoca la passeggiata lungo il fiume Loir, dopo aver ricordato che la visita, la stessa mattina, della cattedrale di Chartres era stata turbata dall’idea di giungere poche ore dopo nella cittadina che aveva ispirato il mondo di Du coté de chez Swann.

Bertolucci mescola da grande poeta l’emozione provata nel 1953 a un’altra esperienza proustiana fondamentale della sua vita. In effetti, la scoperta inaugurale di Proust avvenne durante un altro momento di turbamento che impedì all’adolescente Attilio di godere le bellezze di Venezia, nel 1925. La lettura dei primi due volumi della Recherche, in francese, impegnò le giornate del ragazzo chiuso nella camera d’albergo, allo stesso modo dell’ansia di scoprire Illiers che impedì all’uomo adulto di ammirare serenamente le vetrate colorate delle navate di Chartres. Bertolucci, nel testo dedicato a Illiers, evoca un’altra immancabile visione, un piccolo parco, probabile modello della fantasticheria proustiana per il giardino di Tansonville, dove avviene il primo incontro con Gilberte, giardino dove fioriscono i biancospini che formano una siepe. Il testo di Bertolucci si sofferma sul piccolo padiglione situato in mezzo al parco, simbolo, secondo lui, delle radici cattoliche e francesi “intrecciate a quelle israelite cosmopolite della famiglia materna”. Improvvisamente, la nostalgica evocazione dei luoghi adatti a meravigliosi nascondigli, a giochi e a letture solitarie slitta verso considerazioni sociologiche in mezzo al discorso lirico, e questo costituisce per l’appunto un’originalità stilistica del poeta, in quanto mescola registri lessicali tradizionalmente incompatibili tra di loro. In seguito, evocando il parco di Illiers, subentra la dolce ironia di Bertolucci che descrive un particolare poco scontato: “un piccolo vespasiano tutto ricoperto di piante rampicanti...”. Il poeta si diletta immaginando la funzionalità di quel luogo di comodità insolito e rivelatore; il giovane Marcel, secondo Bertolucci, quando passeggiava nel parco, si impregnava “non soltanto del profumo dolce e un po’ pepato dei biancospini bianchi e rosa,  ma anche di tutti gli altri sentori, compreso quello del piccolo luogo nascosto”. Il dissacrante realismo di osservazione olfattiva non riesce però a smorzare una profonda emozione insieme letteraria e umana, che il poeta voleva forse difendere dal rischio di un pellegrinaggio sentimentale troppo convenuto. Se Bertolucci amava visitare i luoghi degli autori, la scoperta di Illiiers fu una vera rivelazione:

Ma per tutta la giornata... avevo sentito, come una verità assoluta, da non poter essere messa in dubbio, questa cosa invece priva di senso: che io quei luoghi non soltanto li avevo già visti ma li conoscevo come se vi avessi abitato, goduto e sofferto a lungo.

Intermittenze del cuore

Scritto e diretto da Fabio Carpi

Saul Mortara, un anziano regista, sta preparando un film sulla vita di Proust che gli è stato commissionato da un produttore parigino, conosciuto tra i caldi vapori di un bagno turco, disposto a rischiare tutto in un film destinato ad “essere un fiasco” e appositamente concepito per un pubblico elitario. Il lavoro sembra procedere, ma per una serie di libere associazioni (visibili, tattili, uditive) il passato inizia ad ossessionare il regista, così vecchi ricordi riaffiorano inattesi alla sua mente e lo riportano indietro nel tempo...

Fedele ai consueti temi esistenziali e letterari, Carpi (e con lui il protagonista alter-ego) arpeggia su arie familiari, cerca il senso di quella vita da egoista, divaga, punzecchia i tabù di oggi: il salutismo, la memoria, la televisione. Cita artisti e scrittori amati (Hemingway, Mallarmé, Hockney), affronta doppi e fantasmi in un film colto, elegante, orgogliosamente demodé. Che non sempre sorprende ma talvolta il finale “prende alla gola”. Ai turbamenti della memoria sono legate le intermittenze del cuore, così Proust in Sodoma e Gomorra prospetta quel prolungato, ininterrotto interrogarsi sulla propria esistenza, sulla vita in generale. E da qui prende le mosse appunto Fabio Carpi, proustiano da sempre, per costruire una delle tante storie intrise di ricordi, di sogni via via dipanati, tramite “le persone drammatiche” che affiorano dal tempo perduto e dal tempo ritrovato. In modo acuto Carpi evita quella semplificazione che indurrebbe lo spettatore a riconoscere ne Le intermittenze del cuore e nel regista un film e un personaggio autobiografici, citando una lezione proustiana.

Certi dettagli che caratterizzano le esperienze giovanili maturate da Saul prima, durante e dopo la guerra, si qualificano come intermittenze del cuore, reperti di un passato talvolta doloroso che piccoli eventi localizzati nel presente del protagonista riportano alla luce secondo la memoria involontaria di Proust. Ed è proprio l’idea di un film su Proust quella che l’eccentrico produttore francese propone a Saul Mortara che sin dall’inizio è preso da uno stato di angoscia. Un incipit straordinario che empaticamente coinvolge da subito il pubblico: un sogno in cui Saul, in preda allo sconcerto, assiste dal relitto di una nave all’apparire del suo doppio su un molo, in una splendida sequenza di cui è parte integrante il panorama iniziale teso ad esplorare gli spazi aperti intorno alla nave. Poi il risveglio in una camera d’albergo e quello sguardo proiettato sulla finestra che dà su un vecchio cimitero, a Montmartre.

“Le intermittenze del cuore” sono quelle di cui parla Proust nella Recherche: egli

posa il piede su due pezzi di selciato sconnessi e, improvvisamente, è invaso da una fortissima immagine di azzurro, di sole, da una sensazione di inesprimibile, inespicabile  felicità. Dopo qualche secondo si rende conto che questo incidente, la falsa postura del piede, lo ha rimandato ad una situazione identica, di molti anni prima, ...a Venezia (Raboni).

La stessa identica cosa capita a Saul Mortara.

In effetti il film è tutto costruito secondo procedure tipicamente proustiane: c’è la memoria, “la memoria involontaria”, ci sono “le intermittenze del cuore”, c’è appunto “la ricerca del tempo perduto”, che qui si configura soprattutto come ricerca di se stesso, come tentativo di superamento di un malessere psicologico, di una crisi esistenziale tutta sofferta soggettivamente.

Ci sono due concetti psicoanalitici confermati dalle neuroscienze, che si attagliano molto bene a questo incontro tra Carpi e Proust: uno è quello delle “trascrizioni”, che spiega come nella nostra mente i ricordi non siano conservati in una sorta di archivio, in un unico “documento”, bensì in tante versioni differenti e coesistenti, a seconda del contesto nel quale vengono inscritti e poi rievocati, in una continua dinamica riorganizzazione. Proprio come il continuo leva e metti delle foto di Saul Mortara sullo specchio, crea sempre nuove combinazioni e nuovi nessi. Il secondo concetto strettamente vincolato al primo, è quello di “après coup”, che testimonia di quanto ogni evento incida non solo sul presente, ma paradossalmente anche sul passato, dando nuovo ordine e senso ai nostri ricordi, in un lavorio perenne di risignificazione. E’ proustiana senza dubbio, in questa opera di Carpi, la coesistenza delle varie aree temporali in un eterno presente, così come l’equivalenza emotiva tra reale e letterario, mondo interno e mondo esterno.

Il tema di fondo de Le Intermittenze del cuore è quindi il rapporto tra il tempo e il ricordo, come già sottolineato, una rivisitazione dei temi cari a Proust. La musica, in generale, può essere naturalmente definita come il rapporto tra il suono, metafora plausibile del ricordo, ed il tempo. Ciò significa che la musica di questo film può rappresentare uno strumento dialettico in più... con una sua precisa connotazione, autonoma ma complementare rispetto a quella delle immagini. Lavorare sull’alterazione del tempo musicale ha significato fornire una chiave di lettura in più allo spettatore.

L’estetica del “volto che fugge” in Proust e in Montale

Nel presente articolo E. Lèvinas tenta di ricostruire e erigere una teoria estetica ed etica del volto, in quanto sorta di elemento di valore estetico, ma soprattutto di rilevanza etica. Di fronte al volto altrui l’io comprende l’alterità dell’altra persona e ne ha rispetto in quanto dietro a quel volto si nasconde la vita intera di un essere umano che ha provato sensazioni, emozioni, che possiede ricordi ed aspettative verso il futuro. Ogni giorno alimenta e contribuisce alla formazione di ognuno e ne fa essere una individualità unica ed irripetibile.

Il volto dimostra la sua grande evocatività filosofica e artistico-letteraria, soprattutto perché si tratta della parte del nostro corpo più personale e più differente da individuo ad individuo. Non c’è, quindi, da stupirsi se esso viene scelto quale mediatore tra ciò che sta dentro di noi e ciò che sta fuori il nostro corpo. Nel volto vi possono essere oppure non essere tracce del tempo del nostro vissuto, il volto è colui che ci fa comprendere i valori del rispetto di un’individualità differente dalla nostra, ma che al pari di noi, possiede una vita propria che va riconosciuta ed il cui riconoscimento la rende unica e diversa nella sua identità.

Nell’antropologia filosofica proposta da Max Scheler ogni persona si trova al centro di un proprio universo, che può entrare in comunicazione con gli altri universi nella consapevolezza della loro alterità.

Negli esempi che andrò a proporre tratti dalla letteratura, si individua l’attenzione dei rispettivi autori, Proust e Montale, rivolta alla descrizione dell’emozione dello sguardo della persona amata. Tuttavia, essi ci possono permettere di comprendere l’importanza di questa tematica per la costituzione di una estetica e di un’etica del rispetto a partire dal volto. E’ interessante ricordare come il ruolo salvifico dello sguardo sia un topos letterario già presente nelle opere degli stilnovisti. Dalla lettura di questi brani ci è possibile trarre considerazioni nei confronti del ruolo del percepire un volto di un’altra persona, con il ricordo che abbiamo di lei.

Marcel Proust nell’opera Alla ricerca del tempo perduto, avverte il bisogno di trattenere nella memoria i volti delle fanciulle da lui incontrate casualmente (spesso segue solo l’incontro degli sguardi). Si comprende qui la poeticità del vissuto e del mondo dei ricordi per cui ragazze che probabilmente l’io narrante non incontrerà più nella sua vita, spesso perché il luogo dell’incontro è una cittadina di villeggiatura, vengono considerate come la massima fonte preziosa di sentimenti. Proust si chiede se il mistero di quel volto, dalle abitudini e dai vissuti così lontani dai suoi, verrà mai svelato a lui, se quei frammenti di vita presenti in lei saranno mai conosciuti o compresi da lui.

Proust ne All’ombra delle fanciulle in fiore afferma che noi misuriamo i volti ma “da pittori non da geometri”. L’ambito quantitativo viene perciò abolito, in favore di una squisita e profonda valenza poetica. A volte il volto sparisce poco dopo l’epifanica visione e all’io narrante non resta altro che osservarlo mentre “fugge” dietro un muro di un edificio. L’io narrante rimane relegato in uno spazio reale e simbolico che non gli consente di conoscere una vita altrui, possibilità solo se la vita avesse preso un’altra direzione, un altro bivio, un’altra “ vita parallela” secondo Bodei, una vita che poteva intrecciarsi con la sua. Nell’opera proustiana questa sorta di magia del volto si può riscontrare in diversi punti come questo che ora riporto:

Tutt’a un tratto mi ricordai della giovane bionda….E forse anche non v’è atto più libero, perché è ancora sprovvisto di abitudine, di quella specie di mania mentale che, nell’amore, favorisce il rinascere esclusivo dell’immagine di una data persona.

Risulta chiaramente comprensibile come, pur dopo una dimenticanza, talvolta il volto conserva la sua posizione nella memoria con la possibilità di riemergere alla coscienza. Il contesto della frase di Proust riceve senso nella prospettiva bergsoniana secondo la quale l’atto libero è la manifestazione massima della discesa di parte della memoria pura più profonda al momento della percezione presente. Il volto è salvo come salvi sono potenzialmente tutti i nostri ricordi nella prospettiva proustiana. Nell’atto della rimembranza viene conservata tutta la potente carica evocativa del momento del passato, pronto a inebriarci e a farci provare intense emozioni. Il ruolo esistenziale del volto assume del tutto una dimensione che coinvolge il valore del ricordo caro a Proust.

Ci è possibile instaurare un rapporto tra le considerazioni proustiane e la situazione presente in Non recidere forbice quel volto di Montale. In questa poesia, Montale supplica la memoria affinchè salvi i ricordi, preservando il volto della donna amata dall’indifferente forbice dell’oblio. L’amata è Clizia, una donna angelo venuta in terra per offrire al poeta la possibilità di dare un senso al mondo.
Il timore del poeta sta nella consapevolezza che la memoria si “ sfolla” lasciando dietro di sé “la nebbia di sempre”
Nella concezione proustiana della memoria il ricordo è possibile, mentre in quella montaliana il ricordo dimostra la sua precarietà.

Se è possibile ricordare è possibile anche dimenticare?

Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale! Dimentica del mondo,
dal mondo dimenticata. Infinita letizia della mente candida!
 Accettata ogni preghiera e rinunciato a ogni desiderio.

Sono questi i versi, tratti dall’opera “Eloisa to Abelard” del poeta inglese Alexander Pope e recitati nel film da Kirsten Dunst, ad introdurre lo spettatore al significato ermetico, in parte, certamente profondo di “Eternal sunshine of the spotless mind”, straordinario lungometraggio d’esordio per il regista francese Michel Gondry che, grazie al suo stile ad  intenso ed originale impatto visivo, ha “costruito” una rappresentazione di notevole pregio.

Eternal sunshine of the Spotless mind (2004)

Molto attinente alla tematica del ricordo e contemporaneamente a quella dell’oblio è infatti questo lungometraggio del 2004 di Michel Gondry, con protagonisti Jim Carrey e Kate Winslet, la  cui trama può apparire semplice: Clementine decide di cancellare definitivamente dalla sua memoria ogni ricordo che riguardi Joel, il suo ex fidanzato, con cui ha avuto una relazione di due anni, e quando Joel lo scopre, non riuscendo a sopportare il dolore dell’oblio, decide di rivolgersi alla stessa clinica per sottoporsi al medesimo trattamento.

L’intreccio segue due diversi binari, che finiscono, però, per incrociarsi costantemente durante la narrazione. Da un lato abbiamo la storia d’amore tra Joel e Clementine, durata due anni e finita tragicamente pochi giorni prima di San Valentino, una storia che non viene raccontata linearmente, ma attraverso sequenze che non hanno un filo logico, poiché le sequenze coincidono con i ricordi. Joel rivive i momenti più significativi vissuti con Clementine  in una corsa disperata contro il tempo, mentre i tecnici della clinica Lacuna gli stanno cancellando dalla mente ogni ricordo che ha di lei. Durante tutta la sua permanenza in clinica, Joel compie un vero e proprio viaggio nei meandri della sua memoria: si sovrappongono luoghi, scene, suoni, volti, persino sensazioni di sentimenti tra il reale e il surreale, tra la fantasia onirica e il ricordo della realtà, un intreccio perfetto di memoria evocativa. Joel è il risultato del suo passato e nulla è veramente comprensibile se non attraverso la sua storia con Clementine. Mary, una delle dipendenti del centro Lacuna, amava ripetere:

beati gli smemorati, perché avranno la meglio anche sui loro errori.

Ma ben presto (o forse troppo tardi) Joel si rende conto che non è così: tutto ciò che gli resta sono momenti di assoluta autenticità, momenti eterni e tanto pieni da assaggiare l’infinito, momenti in cui non ha più paura nemmeno di morire, convinto che una memoria di lui rimarrà, momenti che, per la carica emotiva di cui sono rivestiti, sembrano appartenere ad una memoria universale.

Il ruolo della memoria è fondamentale: se per Platone la reminiscenza si fa garante di conoscenza, anzi di una duplice conoscenza, quella dell’intellegibile e del sensibile, se per Proust la memoria involontaria consente che il tempo passato non sia perduto, bensì ritrovato, che cosa accade quando si vuole dimenticare, si cerca l’oblìo? O quando per una malattia pezzi interi della nostra vita scivolano via? Che cosa resta di noi? La memoria affettiva: l’amore.

 

Bibliografia

  • La via verso l’alto di Mario Vegetti
  • Autonomia dell’anima nella Repubblica platonica di Mario Vegetti
  • Lessico platonico di Mario Vegetti
  • La memoria involontaria e il tempo di Umberto Curi
  • La memoria involontaria di N. Mauriac, P. D’Orio, J. Hovasse
  • La memoria olfattiva: effetto Proust di Bianconi
  • Non dimenticarsi di Proust di A. Dolfi
  • Alla ricerca di Proust di A. Bertolucci
  • Le intermittenze del cuore di F. Carpi regista
  • L’estetica del “volto che fugge” in Proust e Montale di Montagna
  • Eternal Sunshine of the Spotless Mind  regista: M. Gondry sceneggiatura C. Kaufman, vincitori dell’ Oscar 2005 Kaufman, Gondry

 

Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.

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