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Il mito di Elena: la sua presenza e la sua immagine; la dea bella e terribile

di Maria Barchiesi

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La mitologia, scrive Marcel Detienne, non ha inizio in alcun luogo, e, come pensiero dell’origine, prosegue il suo cammino, fino al momento in cui si trasforma: per superarsi come dicono gli uni, o per morire, come pretendono gli altri. Consolidandosi nell’incontro-scontro con il pensiero razionale, eclissandosi in esso, il mito nasce e muore nel momento in cui si trasforma. Il mito, fin dalle sue origini, è una credenza che presuppone come vero anche ciò che è contraddittorio. In ciò consiste la sua ambivalenza, ovvero nell’essere coerente, pur muovendosi su piani antitetici. Ma l’ambivalenza della mitologia e che è allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza, non oppone il mito al logos, come la menzogna si oppone alla verità. Il mito rappresenta, piuttosto, il sostrato di quelle problematiche relative all’uomo che la tragedia ha portato alla luce, una sorta di linguaggio primitivo che la filosofia e la letteratura hanno epurato da contenuti meramente favolistici. Nell’intima fusione di tragedia e filosofia, la problematica dell’uomo s’innalza dal mito per metterlo in discussione. In atri termini, in un processo dinamico che va dal mito alla tragedia, e da questa alla filosofia, il discorso sull’esistenza umana si sviluppa in tutte le sue articolazioni e rappresentazioni intellettuali.

Perché il mito di Elena? Grazie all’opera congiunta di Stesicoro, Euripide e Gorgia, il personaggio mitologico si presta a mostrare, non solo il punto di intersezione fra tragedia e filosofia, tragedia e retorica, ma anche come il mito possa cambiare, senza determinare con ciò uno sconvolgimento della sua più intima e sostanziale coerenza.
In Stesicoro, poeta ancora misterioso, come mostra il complesso discorso circa le palinodie, Elena viene rivalutata al punto da risultare decisamente antitetica rispetto alla sua immagine tradizionale di donna adultera e seduttrice.  Il poeta d’Imera, inoltre, è il primo ad introdurre l’espediente dell’eidolon, del fantasma, sul quale si radicano le antitesi fra copia e originale, assenza e presenza, immagine e realtà.
Il motivo del simulacro colposo viene ripreso da Euripide nell’Elena: rapita da Ermes e trasportata in Egitto alla reggia di Proteo, Elena, non più causa della terribile guerra, si lamenta per la sua cattiva fama, frutto di una colpa mai commessa.
Il tema dell’eidolon risulta essere un tramite perfetto poiché, partendo dal caso specifico di Elena, permette di sviluppare il discorso sulla genealogia dell’immagine e dell’apparenza. Ma, allo stesso tempo, il tema della nascita dell’immagine, la quale acquista una sua autonomia in seguito alla scissione dalla realtà per opera di Platone, ha permesso di indagare da una prospettiva filosofica, l’eidolon dell’Elena euripidea.

Se il senso tragico della sua condizione rende Elena ambivalente, essa rende, a sua volta, doppia l’intera tragedia; anzi tutto sembra sdoppiarsi in una mimetica simulazione dell’eidolon che contraddistingue la donna. Elena è così perfettamente scissa, da essere presente solo in uno dei due doppi: l’eidolon di Elena, giunta in Egitto con Menelao in seguito ad una tempesta, incontra qui la vera Elena, e sparisce in un paradossale altalenarsi fra tangibile assenza e immaginaria (incorporea) presenza. Come il simulacro è un ponte fra l’opera di Stesicoro e quella di Euripide, così il senso del tragico è un perfetto veicolo di congiunzione fra Euripide e Gorgia. Anche l’Elena del sofista nella sua incapacità di scelta autonoma, vive una situazione che si può definire tragica. L’Encomio di Elena, che si articola in quattro sezioni tematiche, tante quante sono le giustificazioni della condotta della donna, dapprima affronta la problematica relativa all’influenza del potere divino nell’ambito della responsabilità umana. In un secondo momento, passa al tema del logos, sul quale Gorgia insiste maggiormente. Il logos nella sua funzione di parola “magica” e “poetica” o nella sua funzione propriamente persuasiva, come parola in grado di ottenere il consenso e determinare l’azione, oltre che in quella gnoseologica, è apparsa al sofista una valida ragione per scagionare Elena. Per Gorgia, però, Elena merita di essere assolta a prescindere dalla causa che l’ha spinta ad agire come ha agito. Il filosofo di Leontini esamina tutti i possibili moventi del suo comportamento, ponendo l’accento sull’incapacità dell’uomo di agire liberamente di fronte a forze che “necessariamente” lo sovrastano. Tanto nell’Elena di Euripide, quanto in quella di Gorgia, il senso tragico si manifesta anche sulla base di modelli retorici, nell’incapacità di agire autonomamente, cioè senza vincoli o condizionamenti esterni.

 

Alle radici del mito: il nome e la nascita di Elena

Secondo Paul Veyne del mito non si può mai dare un’interpretazione, tanto meno ufficiale, ma solo e sempre molte e diverse interpretazioni. Questo carattere intrinseco del mito, che all’origine è solo una forma di “letteratura orale”, rende difficile, se non impossibile ogni tentativo di imprigionarlo dentro un unico ed esclusivo significato.
A questa difficoltà non sfugge il mito di Elena. Una ipotesi di lettura del mito è quella del chiedersi e di mostrare il perché della sua nascita, prima di affrontare il come. Secondo una diffusa versione del mito, Zeus, preoccupato dell’eccessivo incremento demografico, dopo aver sfoltito la popolazione con metodi durissimi, ascoltò il consiglio di Momos (Biasimo) e, per alimentare il conflitto sulla terra, fece nascere Achille ed Elena. Il primo, frutto dell’unione di Teti con un mortale, divenne il simbolo dell’uomo bellicoso; la seconda, generata dallo stesso Zeus, fu una donna dalla straordinaria bellezza e, proprio in virtù di questa, causa della terribile guerra di Troia.
La tradizione, che attribuisce alla figura di Elena una funzione provvidenziale, l’ha in qualche modo destinata a essere causa però di molte sciagure. Ma in un passo dell’Elena di Euripide, la donna afferma: “l’oggetto della difesa dei Troiani, il trofeo per cui combatterono i Greci, non ero io, era solo il mio nome”. In questi versi, al di là del motivo dell’eidolon, che affronterò più avanti, si scorge da una parte l’opposizione fra nome e realtà, che ricorre incisivamente in tutto il corso del dramma, e, dall’altra, l’intuizione che nel nome stesso di Elena sia celato un misterioso e funesto presagio. Non solo, dunque, il personaggio di Elena, con la sua storia, la sua bellezza, il suo ruolo nel mito, ma già il suo nome è portatore di terribili sventure: essa fu “di navi distruttrice (elenas), di guerrieri distruttrice (elandros), di città distruttrice (elepolis)”. Elena porta con sé fin dalla nascita, o meglio ancor prima, un progetto divino e nel suo nome, un messaggio che preannuncia catastrofe e rivendica distruzione.
Se si passa dal problema della derivazione del nome “Elena” a ciò che da esso può invece derivare, è senza dubbio suggestiva l’associazione con una pianta chiamata elenio. L’elenio, nato forse dalle lacrime versate dall’eroina in circostanze imprecisate, possiede delle proprietà “nepeniche” ed è dunque in perfetta sintonia col personaggio stesso di Elena da cui prende il nome. Non è solo una corrispondenza fonetica quella che unisce Elena a elenio, ma una sorta di identità di messaggio: entrambi, alla stregua del logos gorgiano, possono tanto arrecare sollievo, quanto suscitare dolore.
Sulla base di queste considerazioni risulta decisamente audace l’operazione di coloro che, come Stesicoro, Euripide e Gorgia, hanno tentato di liberare Elena dal peso della sua colpa “originaria”. Qualunque sia l’origine del suo nome e per quanto la sua radice etimologica richiami l’idea della distruzione, permane tuttavia intorno alla figura di Elena un alone di profonda ambiguità, che inoltre si riscontra anche nel problema della sua nascita.
Ad un padre effettivo e divino, quale Zeus (progettatore oltre che creatore di Elena), la tradizione ne annette anche uno putativo e terreno, Tindaro, re di Sparta. Il problema della paternità diventa secondario rispetto a quello più complesso della maternità; infatti, la maternità apre la strada ad un intricato susseguirsi di alternative possibili. In genere le donne che vengono ritenute dalla tradizione ipotetiche madri di Elena sono Nemesi, Leda e, in misura minore, Afrodite. Nemesi è la figlia della notte, dea della giustizia riparatrice, e il suo nome, nell’accezione più comune, significa vendetta. E si può aggiungere un altro aspetto; prima del combattimento fra Paride e Menelao, Elena si reca presso le porte Scee, dove gli anziani di Troia, colpiti dal suo fascino, esclamano: “Non è vergogna che Teucri e Achei, schinieri robusti, soffrano a lungo dolori per una donna simile” Iliade 156-158 vv. E’ senza dubbio interessante che il termine vergogna sia la traduzione del corrispondente greco nemesi, ma tuttavia il fascino di Elena non è illuminante né decisivo nell’indagine sul legame tra Elena e Nemesi, anzi potrebbe esserne la negazione. In un poema successivo a quelli omerici, si viene a sapere che Nemesi fu l’oggetto di un inseguimento da parte di Zeus e che durante la fuga attuò una serie di metamorfosi: divenne un pesce per fuggire nell’acqua a ogni specie di animale sulla terra ferma. Alla fine Nemesi, come risulta dai racconti di Apollodoro e Igino, decise di trasformarsi in oca, ma Zeus, tenace nel suo desiderio,
assunse le sembianze di un cigno e potè finalmente amarla. Dall’uovo che ella depose, e che aveva il colore del giacinto azzurro, come ricorda Saffo, sarebbe poi nata Elena.
Le fonti concordano riguardo alla fanciullezza di Elena che fu cresciuta da Leda come una figlia, nella reggia di Tindaro a Sparta e che ebbe come sorella Clitemnestra e come fratelli i Dioscuri, Castore e Polluce. Ma non sappiamo come l’uovo capitò nelle mani di Leda, perché su questo punto le tesi risultano discordanti. Possiamo credere con Apollodoro che sia stato un pastore ad avere consegnato l’uovo a Leda, oppure, come narra Igino, che sia stato Ermes a gettarglielo sul grembo, o anche che sia stata la stessa regina ad averlo trovato. Tuttavia non si può escludere la possibilità che Leda fosse la madre effettiva di Elena, in quanto secondo una versione del mito piuttosto accreditata, Zeus, anche in questo caso sotto le spoglie di un cigno, si sarebbe congiunto direttamente con lei ( Euripide vv. 17-21). Dunque non si può parlare di una madre effettiva e di una putativa, come nel caso della figura paterna, ma piuttosto di una madre negativa e determinante, Nemesi, e di una positiva e indeterminante (conveniente per chi intenda rivalutare l’immagine di Elena), Leda.
Nemesi presuppone infatti la necessità della reazione, della vendetta stessa che, in un certo modo, Elena si trova ad ereditare.  Nemesi è la vendetta, la reazione all’atto violento di Zeus che, attraverso Elena e la guerra che per lei si scatena, trova il suo compimento, la sua realizzazione. E ci si allontana per un momento dall’immagine di Leda come del castigo personificato da Nemesi, si apre una nuova prospettiva, che introduce un altro binomio: “o Nemesi o Afrodite, queste sono le due possibilità della bellezza femminile” scrive Kereny, a proposito della nascita di Elena, e aggiunge o rimanere figlia di Nemesi e dal fondo del senso di consapevolezza elevarsi a punizione dell’umanità oppure servire l’esigente ed indifferente signora e portare lo splendore immune da colpa di Afrodite, quale destino proprio e destino tragico per gli uomini mortali. Risulterebbe quindi controproducente per chi volesse rivalutare l’immagine di Elena partendo da quella tradizionale, affiancare alla donna devota, fedele e positiva, il fantasma della vendetta e tutto il male che da esso può scaturire.

E’ facile capire perché Euripide nella sua Elena, tra le varie versioni della nascita dell’eroina, scarti proprio quella che la faceva figlia di Nemesi. E non è un caso che anche Gorgia, a proposito dei nobili natali di Elena, non accenni neppure a Nemesi, affermando: “manifesto è infatti che per madre ebbe Leda e per padre di fatto un dio, ma si diceva che fosse un mortale, Tindaro in quest’ultimo caso, Zeus nel primo.”

 

Gorgia: l’encomio di Elena

 

1. Poteri e limiti del divino nell’ambito della responsabilità umana

L’obiettivo dell’Encomio e pertanto dell’articolato discorso che contiene è quello di liberare Elena dalla cattiva fama che la circonda, frutto di un’epopea a lei ostile, esponendo quattro principali e possibili cause della sua condotta: “certo o per volere della sorte o per decisione divina o per decreto della necessità fece quello che ha fatto oppure trascinata con la forza, o persuasa con la parola, o presa d’amore”.  E’ impossibile ostacolare il potere divino e che Elena abbia agito per volere della sorte o degli dei, oppure perché sottomessa dalla violenza fisica o persuasa dalle parole di Paride, o, ancora, perché vinta dalla passione amorosa, essa comunque merita, per Gorgia, di essere assolta. La decisione dell’uomo tragico è sempre secondo ananche (necessità): se mai esistesse nella rappresentazione tragica una volontà, non sarebbe certo una volontà autonoma, ma una volontà legata al timore reverenziale del divino. Nello specifico Elena non ha avuto la possibilità di scegliere fra due o più alternative, ma si è trovata necessariamente e tragicamente costretta a seguire un’unica linea di condotta, quella voluta dagli dei (o dalla sorte). E’ questa una delle ragioni per cui Gorgia sostiene che debba essere scagionata. Come gli uomini, in alcuni casi, nulla possono davanti al volere degli dei, così questi nulla possono davanti alla forza del destino. Però neppure il destino si costituisce come principio organizzatore, ogni potenza può agire in libertà rispetto alle altre, in un circolo che va dagli uomini agli dei, dagli dei al destino impersonale. In alcuni casi sembra che sia Zeus a stabilire il destino, in altri sembra che si sottometta a esso, del tutto impotente.
Tale destino può, nel suo rapportarsi agli dei e agli uomini, esercitare una certa influenza sulla questione della responsabilità e anche di tipo morale. A tale proposito Gorgia afferma: “se dunque sulla sorte o sul dio deve essere rigettata l’accusa, si deve liberare Elena dalla cattiva fama”, sostituendo così Elena nella sfera della colpevolezza non con un eidolon, come accade in Stesicoro e in Euripide, ma con la volontà incontestabile, quasi personificata tanto della sorte quanto del dio. In tal modo Gorgia non utilizza tutti gli espedienti dell’Encomio, ma riesce a sospendere il giudizio di responsabilità che grava sulla figura di Elena.
Con la sofistica la teorizzazione dei rapporti causa effetto si fa più sottile e, non a caso, la sensibilità di Gorgia si fa più acuta riguardo alla distinzione fra “agire e subire”, fra “disgrazia e errore”: Elena non ha agito male, ha bensì subito una disgrazia. Alla stregua di Edipo e degli altri eroi tragici, essa non è colpevole, ma infelice; non è dunque da condannare, ma da biasimare.  Tema centrale di tale Encomio è pertanto l’irresponsabilità etica dell’uomo di fronte a forze incontrastabili, dalle quali viene necessariamente dominato.

 

2. Il logòs e la sua ambivalenza

Gorgia, fondatore della retorica antica, dedica all’analisi del logos e al suo carattere ambivalente circa un terzo dell’intero Encomio. Il logos, termine col quale Gorgia intende tanto il singolo vocabolo dotato di senso, quanto un’intera proposizione ordinata in modo logico, si manifesta non solo nella sua funzione propriamente persuasiva, ma anche in quella estetica e gnoseologica, oltre che nella sua capacità di plasmare gli  animi producendo piacere e dolore.
L’Encomio di Elena è, in sostanza una autoesaltazione, un elogio della retorica stessa che in Gorgia è in grado di dominare una realtà inafferrabile dal punto di vista razionale, per mezzo della magia della parola. Dopo aver condannato la violenza fisica che ha spinto Elena ad agire, Gorgia passa ad analizzare un altro tipo di violenza molto efficace: “se invece fu la parola a persuaderla e ad ingannare la mente.” Sin dal principio di questo passo compaiono due verbi sui quali ci si deve soffermare nell’analisi dell’Encomio: peitho (persuado) e apatao (inganno). Il logos ha dunque la capacità di persuadere e ingannare l’animo umano. La potenza del logos retorico è notevole, non solo può persuadere, ma anche e soprattutto ingannare e l’inganno per Gorgia non è da condannare seppure si avvicina, in modo ambivalente al falso e alla menzogna. Il logos può sconfinare non solo nella parola poetica, bensì nella parola che suggestiona, che incanta. E’ arduo conciliare questi aspetti del logos con la difesa di Elena, in quanto la parola, in tal caso, può assumere un senso contrapposto alla verità. Come è possibile liberare Elena mediante la verità della parola, con un logos meramente retorico ed in contrasto con la dichiarazione iniziale di Gorgia, secondo cui la verità è la principale virtù del logos? Forse bisogna, però, tener presente che l’obiettivo di Gorgia non è quello di ricercare la vera causa del comportamento di Elena, ma di enunciare le verosimili cause che l’hanno spinta ad agire in quel modo.
Nella retorica è frequente il paragone tra l’uso della parola e l’arte medica. Come i farmaci anche le parole hanno il potere tanto di guarire quanto di uccidere. E l’effetto del farmaco-logos non dipende dall’esterno, ma dalla sua costituzione. Le caratteristiche farmaceutiche che Gorgia individua nel logos sono riscontrabili anche nella stessa Elena e nella sua bellezza, più vicina ad una divinità che ad un essere umano, in grado tanto di suscitare piacere alla vista, quanto di causare terribili sciagure.
Gorgia si sofferma molto sull’ambivalenza del logos, in tal modo il problema della responsabilità in generale e soprattutto di Elena viene meno.  Gorgia ha dunque mostrato che se fu la parola a persuadere Elena, essa non è da incolpare, poiché semplicemente sfortunata, e, dicendo questo, si prepara a trattare la quarta possibile causa della sua condotta, ossia l’amore.

 

3. Il tema dell’amore e della bellezza

La quarta causa, l’amore, o, meglio il vedere, di cui l’amore è solo una conseguenza, è, allo stesso modo del logos, uno straordinario catalizzatore di fascino che rende l’anima incerta e passiva. Non può allora stupire che la bellezza, imponente fonte di magnetismo per la vista, abbia indotto Elena a lasciare il marito Menelao e la figlia Ermione per partire alla volta di Troia. L’essere di eros non ha una propria circoscritta autonomia e può tanto identificarsi in una divinità quanto coincidere con l’azione di cui è la raffigurazione simbolica, ovvero con l’atto stesso d’amare. D’altro canto se eros è un dio, e ha degli dei la divina potenza, come avrebbe potuto un essere più debole respingerlo e difendersi? Sia che eros si identifichi con la divinità che con la malattia, la vittima sua è, in ogni caso, priva di responsabilità. E’ stato affrontato pertanto da Gorgia il problema dell’interferenza divina nell’ambito della responsabilità umana, ora va chiarito come l’amore possa determinare i comportamenti umani.
A tale proposito è inevitabile fare riferimento a Saffo e alla sua esaltazione dell’amore come sentimento così totalizzante da far dimenticare i valori, gli affetti, l’oikos.
Per la poetessa di Lesbo l’amore è un sentimento dal quale non solo non si può fuggire, ma dal quale non si deve fuggire. Dunque nell’invitare le giovani del Tiaso a non rifiutare Afrodite, Saffo si schiera dalla parte di Elena contro la tradizione in un modo decisamente peculiare. Rispetto a Stesicoro e ad Euripide, non ricorrendo all’eidolon, il problema della responsabilità viene eliminato alla radice, in Saffo le cose stanno diversamente. Nell’esaltazione dell’amore, Saffo esalta la stessa Elena. Cito il frammento di Saffo: “Chiunque può capirlo facilmente: colei che superava di molto tutti i mortali per bellezza, Elena, abbandonò lo sposo – il più eccellente degli uomini- e fuggì a Troia per mare. Dimenticò la figlia, dimenticò i cari genitori. Fu Afrodite a sviarla”.  L’animo umano è ben predisposto nei confronti della “cosa più bella” e viene manifestato e proclamato “ciò che si ama come la cosa più bella”. In Saffo l’eroina mitologica, nonostante l’impronta negativa della tradizione, diviene portatrice di valori positivi. E forse è la prima volta e unica che la difesa di Elena, pur non ricorrendo a cause esterne e indipendenti rispetto alla volontà della donna, assume la forma della celebrazione di una condotta meritevole di lode.
L’opinione di Saffo, che allontanandosi dalla tradizione, sostiene la donna per aver fatto la scelta migliore, ossia quella dettata dai sentimenti d’amore, è unica e apprezzabile nella affermazione delle sue convinzioni riguardo l’amore.

 

Stesicoro e Euripide: la metamorfosi del mito

Il mito non è un dogma dal contenuto inalterabile, in quanto fondamento di una credenza obbligatoria, ma è piuttosto un canovaccio che viene arricchito e innovato da differenti forme narrative, senza che per questo venga falsato l’equilibrio interno o sconvolta la coscienza religiosa - come scrive Vernant  in “Mito e società”, pag. 213. I miti, anche quelli che comprendono temi divini, poiché non hanno il compito di garantire la devozione da parte dei fedeli, possono pertanto cambiare e essere riscritti.
Ma, nonostante ciò, la rielaborazione dei contenuti mitologici non è del tutto arbitraria né svincolata da regole. Il poeta Stesicoro e il tragediografo Euripide rappresentano due esempi, con la loro rielaborazione del tema di Elena, di come il mito possa essere riformato al punto da risultare diametralmente opposto a quello della tradizione. Le differenti rielaborazioni, a volte fra loro antitetiche, operate da Stesicoro circa il mito di Elena, invece, sono innovazioni contenutistiche, che riguardano la sostanza e non l’aspetto formale del mito stesso. Ma che cosa può aver spinto Stesicoro a reinterpretare il contenuto della vicenda di Elena e a fargli scrivere perfino una palinodia? Non si può sapere quanto i cambiamenti realizzati intorno al mito dipendano dalla volontà individuale del poeta oppure dall’ambiente in cui vive ed opera. Probabilmente Stesicoro riscrive il mito di Elena per venire incontro ad esigenze religiose del mondo dorico, oppure perché il pubblico spartano, che venerava Elena come una divinità, non poteva accettare la versione dell’adulterio tramandata dall’epos omerico.
Non bisogna dunque escludere che le innovazioni stesicoree in materia mitica venissero suggerite, o, meglio imposte dall’esterno. Infatti fattori religiosi, politici e ambientali possono avere indotto il poeta a mutare la sostanza dei suoi miti, anche perché, sembra vero che eterogenei erano i suoi uditori. Ma oltre al contenuto, cambia anche sia in Stesicoro che in Euripide l’interesse nei confronti dei singoli personaggi mitologici, se in Omero Greci e Troiani scompaiono dietro ad Achille o Ettore o Odisseo, in Stesicoro la cornice si rivaluta fin quasi ad offuscare il quadro. E se nei poemi omerici Achille ha una propria definita identità, che non può mai mutare, in Euripide gli stessi personaggi assumono continuamente ruoli e comportamenti diversi.
Gli eroi, anche quelli più cristalizzati, affinchè acquistino una propria originalità vengono da Euripide rinnovati. Così Elena da sempre simbolo di malefica seduzione, diviene nella tragedia un paradigma di virtù coniugale. L’idea paradossale, ma innovativa, della tenace fedeltà di Elena, che Euripide eredita da Stesicoro, compare fin dall’esordio del dramma. Elena è una donna completamente innocente con tutti i tratti di colei che tradizionalmente le è antitetica, Penelope; infatti all’inizio della tragedia sta pazientemente attendendo il marito da ben 17 anni. Non solo come Penelope, donna virtuosa per eccellenza, Elena aspetta il marito da lungo tempo, ma nell’attesa gli resta fedele, rifiutando addirittura il corteggiamento di Teoclimeno, figlio del leggendario re d’Egitto Proteo, proprio come Penelope rifiuta le profferte dei Proci.
La riscrittura del mito non può essere del tutto arbitraria, ma deve attenersi ad alcuni elementi invariabili di cui l’uditorio è a conoscenza: quando Elena propone nel dialogo con Menelao di seguire eventualmente il marito nella morte, pur di non cadere nelle mani di un altro uomo, il pubblico sapeva bene che la minaccia non si sarebbe realizzata in quanto Euripide non avrebbe osato spingersi fino a capovolgere i dati fondamentali del mito. Poiché l’Elena di Euripide è stata definita, e gli elementi ironici in essa contenuti, un’opera più vicina alla commedia che alla tragedia, va comunque sottolineato che mentre Aristofane rispecchia, sebbene deformandola, la realtà del tempo, gli autori delle tragedie e quindi anche Euripide, viceversa, si rivolgono ad un passato, più o meno remoto, ma lo interpretano in sintonia con le aspettative della loro epoca. Il senso del tragico nasce nel momento in cui il problema relativo alla responsabilità suscita nell’uomo un dilemma interiore, una tragica riflessione sui suoi processi comportamentali. Inoltre, come scrive Vernant “perché vi sia azione tragica occorre che si sia già sviluppata in senso proprio, e che di conseguenza i piani umano e divino siano abbastanza distinti per contrapporsi; ma bisogna anche che non cessino di essere inseparabili” (Tensioni e ambiguità nella tragedia greca, pag. 27). La tragedia non si limita a rielaborare semplicemente i miti eroici, essa li mette in dubbio, come sostiene Vernant. Nella prefazione al lavoro sul mito e la tragedia, Vernant e Vidal Naquet si soffermano su come si debba esattamente intendere il rapporto fra queste due categorie e, precisando che le tragedie non sono miti, sostengono, al contrario, che il genere tragico faccia la sua comparsa alla fine del VI secolo, quando il linguaggio del mito cessa di far presa sulla realtà politica della città (cfr. L’etica degli antichi di Mario Vegetti). La critica del mito, che compare soprattutto nelle tragedie di Euripidee nella commedia attica, è pertanto necessaria a porre dilemmi, quesiti, interrogativi, che sono legati alla contingenza del presente. Il peculiare modo di affrontare le tematiche, mettendo in discussione l’intero apparato mitico, oltre che la specifica rivisitazione della vicenda di Elena, accomuna Stesicoro a Euripide.

 

Il complesso problema delle palinodie

Completa e ricca di suggestivi dettagli è la testimonianza contenuta nel Fedro platonico, che riporta, fra l’altro, tre versi della palinodia stessa: per coloro che commettono delle colpe ai danni del mito, vi è un antico rito purificatorio, di cui Omero non fu a conoscenza, ma da amante delle Muse quale era, capì e subito compose questi versi:

Questo discorso non è veritiero
non partisti sulle navi dai bei ponti
non arrivasti alla troiana Pergamo.

E dopo aver composto l’intero carme chiamato Palinodia, gli tornò istantaneamente la vista. Cambiano “Fedro in Dialoghi filosofici”.
Prendendo in considerazione la fonte platonica si raggiunge una prima certezza sul lavoro di Stesicoro intorno alla figura di Elena.
E’ certamente possibile che le Palinodie di Stesicoro fossero due, una riferita a Omero, l’altra a Esiodo. Certamente compare in Stesicoro, per la prima volta forse, il motivo dell’eidolon che, giungendo a Troia al posto della vera Elena, rimase invece presso Proteo, così l’avrebbe scagionata dalla sua colpa di adultera e resa poi immune da ogni accusa. E’ probabile che nella prima Palinodia Elena fosse ancora colpevole di adulterio e la seconda Palinodia è la negazione della prima. Rimane un problema interpretativo, quello relativo alle palinodie di Stesicoro. Innanzitutto quante sono? Dove si iscrivono i versi del Fedro? Fu realmente Stesicoro a introdurre la variante dell’eidolon e a adottare la soluzione dell’Elena in Egitto? Queste domande non hanno una risposta univoca e sono oggetto di discussioni e diverse soluzioni.

 

Il tema dell’eidolon

Stesicoro e Euripide, per discolpare Elena dalle terribili accuse a lei attribuite dalla tradizione, si servono di un espediente: l’eidolon. Se come afferma Stesicoro nella Palinodia e Euripide nell’Elena, la donna non è mai partita sulle navi con Paride e Alessandro per recarsi a Troia, ma al suo posto è andata invece una falsa immagine creata dagli dei, la colpa di aver causato la guerra di Troia non ricade più su Elena ma su un fantasma, sulla stoltezza degli uomini che si lasciano ingannare. Con e dopo Platone, l’immagine, nel suo differenziarsi dall’originale, non presuppone per questo un’assenza, né tanto meno un non essere, ma si concretizza come entità distinta e autonoma. E perché l’immagine possa assumere una sua autonomia, è necessario che essa sia in rapporto al reale, o, meglio, “perché qualcosa possa porsi in rapporto con qualcos’altro bisogna che questo qualcosa sia altro, cioè sia diverso da ciò con cui esso entra in relazione. Di conseguenza, le immagini nascono come altro dal reale, anche se al reale sono costitutivamente legate”.
Il motivo dell’eidolon, inteso come immagine, permette ad Elena di essere contemporaneamente in due luoghi diversi, o, più precisamente, di essere in un luogo e di apparire in un altro.
Fantasma, immagine, simulacro, sono tutti termini, oltre che riconducibili al corrispondente greco eidolon, strettamente connessi al concetto di “apparenza”, ma non per questo denotano qualcosa di meno nitido o tangibile rispetto a ciò che realmente è. Infatti, se così fosse, Stesicoro prima e Euripide poi, non avrebbero potuto affermare che a Troia si combatteva per un fantasma e non per la vera Elena.
L’eidolon è, nel caso di Elena, “apparenza” di chi non è presente, o, perfino “presenza di un assente”.  Tuttavia l’assenza che caratterizza l’eidolon, avendo una propria autonomia d’essere, non è del tutto negativa e non si costituisce necessariamente come l’assenza di ciò che non esiste.  Un esempio è dato dalle stesse parole della Elena di Euripide quando afferma: “al figlio del re Priamo non diedi infatti la mia persona, ma un fantasma dotato di respiro” vv. 3-35.
Platone, come Vernant più volte ricorda, è il primo filosofo che elabori una teoria generale dell’imitazione e dell’immagine o, se si preferisce, dell’immagine come imitazione dell’apparenza. Collocando in netta antitesi il mondo dell’apparire con quello dell’essere, Platone conferisce all’immagine la sua particolare forma di esistenza, le dà uno statuto fenomenico proprio. Pur esistendo in virtù del suo rapporto con il reale e come una sembianza, l’immagine nasce dall’allontanamento, dalla scissione con la realtà stessa. Certamente questa distinzione tra immagine e realtà presente nella filosofia platonica è passata nell’esperienza letteraria, in Stesicoro e Euripide.

La riscrittura del mito di Elena da parte di Euripide, pur non essendo del tutto originale dal punto di vista tematico, manifesta il suo carattere innovativo nel rappresentare la “conflittualità interna di Elena”. Una chiara dimostrazione dell’insistenza di Euripide: “ora lui è morto non c’è più! - il riferimento è a Menelao che Elena crede morto, ma non è tale - mia madre è morta: e sono stata io ad ucciderla; una morte di cui non ho colpa, eppure la colpa ricade su di me”. Al di là del fatto che il suicidio della madre nel dramma può essere un espediente euripideo per aumentare il pathos, Elena pur sapendo che la responsabilità è da attribuire al suo eidolon, sente paradossalmente che la colpa di queste morti ricade su di sé. La struttura stessa del dramma sembra voler rievocare la scissione di Elena e del suo eidolon: ci sono due incontri con Elena, due riconoscimenti. L’intera tragedia sembra sdoppiarsi in ogni momento. Si è voluto insistere sulla tragedia di Euripide   perché in essa il motivo dell’eidolon comporta in tal modo dalla semplice scissione della persona, ad una vera e propria scissione della personalità. L’Elena euripidea, di cui il tema centrale è l’assurdità di una guerra combattuta per un fantasma, è un chiaro esempio di come si possa interpretare e riscrivere un mito in una chiave del tutto originale.

Elena nella tragedia euripidea esprime il suo doppio nel gioco dell’intreccio fra presenza e assenza. Nell’Elena di Euripide ella non manifesta la sua duplicità per mezzo di una maschera, non indossa la maschera dell’assente perché presenza e assenza possono coesistere insieme, ma non trapelare da un unico volto. La maschera, infatti, può nascondere ciò che è visibile, ma è difficile che possa rappresentare ciò che non c’è e che quindi non può essere visto.

 

Il fantasma della tragedia

Barbara Castiglioni ha ben evidenziato nel suo saggio come nel dramma di Euripide,
ogni personaggio e ogni situazione abbiano, come sottolineato sopra, una duplice, ambigua dimensione di vita e morte (presenza e assenza): è morta, in apparenza, la tragedia di cui resta a malapena la forma, sostituita da una vicenda più vicina ad un melodramma o di una tragicommedia; è morto, pur vivendo Menelao, che appare in scena vestito di stracci e mette in ridicolo la sua già precaria fama con velleità belliche inadatte alle situazioni che gli si presentano. Sono morti, in apparenza, gli dei, motori immobili della vicenda; è morta, in apparenza, l’Elena infedele del mito, sostituita da una donna che incarna le perfette virtù della moglie, ma che sarà costretta a sedurre per salvare Menelao, la tragedia, gli dei, gli oracoli e se stessa: quella fedele, l’infedele o entrambe?

Rappresentata nel 412 a C, l’Elena è il più complesso e il più riuscito degli “esperimenti” euripidei. Dramma di intrigo, con spettacolari colpi di scena, riconoscimenti, una progressiva rappresentazione realistica di dei ed eroi e di (apparente) lieto fine; non manca l’ambientazione esotica, da sempre considerata un’espressione di fuga dalla realtà per rifugiarsi nel fiabesco mondo orientale. L’ambientazione esotica, però, è funzionale all’Elena perché la vera Elena deve trovarsi in Egitto per provare di esservi stata realmente celata e di non essere andata a Troia con Paride. Euripide, dunque, non fugge la convulsa realtà degli ultimi anni ateniesi mettendo in scena Elena prigioniera in Egitto; né contrasta questa fiabesca location attraverso la degradazione degli eroi ad umani, come il Menelao vestito di stracci, che simboleggerebbe l’ingresso del reale nel mito. Quello che Euripide fece, nel lungo arco della sua carriera, fu rappresentare una caduta: quella di Atene e del mondo di Atene. L’ultimo periodo della sua poetica è il funereo racconto in tempo reale della caduta: la previsione del crollo imminente frana sull’Elena, investendone la trama e i personaggi e conferendole l’ambiguità tra morte e vita; anche Atene, come ogni cosa, era morta, e pur viva.  In generale, in questa tragedia che procede per guizzi, i personaggi conservano una certa coerenza e non appaiono ancora delle ombre: ad Elena, pur chiamata in causa un numero eccessivo di volte, è riservata l’accoglienza della tradizione spogliata della sua grandezza, (per Elena della tradizione si intende l’Elena dei poemi omerici e di Stesicoro) mentre Menelao, l’eroe negativo, ha le qualità che un eroe negativo deve possedere e, (possibile unicum nel teatro euripideo, certamente per quel che riguarda Menelao) la caratterizzazione odiosa del personaggio non è tanto funzionale all’azione drammatica, bensì ad una polemica antilacedemone: Menelao, prima di essere Menelao, è Sparta, e Sparta era crudele in quanto nemica di Atene; la caduta era lontana, e Euripide si concedeva ancora di poter parteggiare per la sua città detestando l’avversario.

Ma com’è quest’Elena? Euripide non rinuncia a cospargerla di ambiguità, mette in atto un espediente teatrale: mette in risalto l’amore di Elena per il lusso orientale. Euripide era affascinato dalla fama della più grande incarnazione della figura destinata, che deriva la sua grandezza dalla doppia intuizione di essere, allo stesso tempo, innocente e colpevole della propria sorte, cioè della coscienza tragica. Il poeta osservava e lavorava con le opzioni di sempre: il mito, gli dei, gli eroi, il valore della parola; amava ripetersi, amava variarsi e amava, più di ogni altra cosa, l’ambiguità. Lo humour salvò il tragico di Euripide, perché gli consentì di affrontare il mito, gli dei, gli eroi, il valore della parola quando gli apparvero svuotati di significato, e lo condusse a creare una tragedia “implicita”: una tragedia che, per esistere, deve varcare i limiti e vivere di opposizioni. E’ considerata la più divertente delle tragedie, piena di avvenimenti meravigliosi più adatti ad una “commedia”, “mero svago per il pubblico”, “tutto fuorchè una tragedia “, “la più brillante delle tragedie di Euripide”.
Questi sono alcuni tra gli innumerevoli giudizi e tentativi di circoscrivere l’Elena.  
L’Elena è considerata, persino da Schlegel, tra le più brillanti e meglio strutturate tragedie di Euripide: è molto apprezzata la sua leggerezza evocata dall’ambientazione esotica, dalla maestria compositiva che la delinea come una tragedia “sdoppiata”, caratterizzata dai colpi di scena, dalla presentazione di una nuova eroina depurata dalla sua fama negativa.
Dal punto di vista del contenuto, l’Elena è vista come una riabilitazione della fama di una sventurata eroina secondo prospettive etiche, un contrasto tra onoma e pragma, un dramma sofistico costruito sull’opposizione tra apparenza e realtà, un esperimento volto ad esplorare le diverse nature della realtà, una tragedia del doppio. Questa interpretazione sottintende una duplicità, cosicché non è esagerato definire l’Elena “tragedia del doppio”: naturalmente, il doppio più clamoroso è quello rappresentato da Elena e dal suo eidolon; nell’Elena, l’eidolon porta alla ribalta l’ombra, non solo di Elena, ma anche dell’eroe, del mito, della tragedia e del tempo: un vero e proprio regno di ombre. Menelao non ha un fantasma, ma è come se lo fosse.
Nel prologo, Elena è già velata da quella ambigua equivocità che la renderà un enigma per tutta la tragedia, che si apre con la sua palinodia. Ma quale e chi è Elena?
La moglie che promette al marito di morire piuttosto che essere costretta tra le braccia di un altro uomo, o la donna che prima contrappone alle futili velleità belliche del marito, avanza l’idea di affidarsi a Tenoe, e dopo escogita l’ingegnoso piano che permetterà la fuga? La pia moglie sottomessa agli dei, o la donna che si rivolge ad Afrodite per chiedere un espediente e definisce la dea colei che provoca amori, inganni, ma anche la dea più dolce per gli uomini: l’incarnazione, per la tradizione, dell’infedeltà umana può rivolgersi così alla dea protettrice di ogni tradimento?
Infine quale e chi è Elena? Forse la moglie di Menelao, oppure la seduttrice di Teoclimeno, che ingannerà ammaliandolo e facendolo sospirare di poter finalmente condividere il bramato (da lui) letto, sussurrandogli maliziosamente: “Sai che facciamo? dimentichiamo il passato” e “Facciamo pace: riconciliati con me” (vv. 1233-1235). La moglie che si dichiara casta e fedele è costretta a riaffermare la gloria della sua bellezza fatale, contro cui ha lottato l’intera tragedia, per salvarsi: il dramma dell’apologia di Elena si conclude con la resurrezione dell’eidolon. In perfetta simmetria con la presentazione dell’eroina, la “tragedia sdoppiata” introduce, nel cosiddetto secondo prologo, l’eroe, cioè Menelao; il suo ingresso in stracci come si addice ad un naufrago, malinconico, sfibrato, confuso e impotente. Come Elena è un’allegoria dell’eros, così Menelao è un’allegoria del rimpianto.

 

I due volti di Elena. Sopravvivenze della tradizione orale nell’Odissea

La figura è tra le più affascinanti e controverse della letteratura antica. Nell’Iliade è presentata come una donna bellissima, non priva di sensibilità per le sventure della guerra, di cui lei stessa sa di essere causa; tuttavia la sua colpevolezza non è individuata con chiarezza né apertamente stigmatizzata, è guardata anzi con relativa indulgenza, specialmente per la tendenza a ricondurre le vicende umane alla volontà divina: sul suo conto non vi è un giudizio morale oggettivo ed univoco, che è sostituito dai diversi giudizi dei singoli personaggi. Elena si sente colpevole e se ne mostra pentita, definendosi “cagna” e rimpiangendo di non essere morta appena nata; mentre è scagionata da Priamo, che attribuisce la responsabilità agli dei (Il III, v. 164-165). A partire dall’ambiguità che si riscontra nell’Iliade, la storia di Elena sarà materia feconda non solamente di poesia sia lirica che tragica (da Stesicoro ad Euripide) come abbiamo evidenziato, ma anche di esercitazioni retoriche imperniate sulla problematica della responsabilità, come a tal proposito non ricordare Gorgia. Tuttavia l’Odissea costituisce una tappa nell’evoluzione della figura di Elena non ancora adeguatamente studiata. Vale la pena di ricordare Austin, secondo cui l’Odissea più che l’Iliade mette in luce la natura divina di Elena e la considerazione che nell’Odissea la figura di Elena, quale moglie di Menelao e regina di Sparta, pur conservando un legame simbolico col proprio passato, supera l’ambiguità che la caratterizza nell’Iliade.

Un episodio specifico presente nell’Odissea appare alquanto significativo. Al termine dei suoi viaggi alla ricerca del padre, Telemaco giunge a Sparta, accompagnato da Pisistrato figlio di Nestore, per interrogare Menelao. Mentre costui siede a banchetto con gli ospiti, e ha appena riconosciuto in cuor suo Telemaco, giunge Elena, simile ad Artemide, accompagnata dalle sue ancelle. Neppure a lei sfugge la somiglianza di Telemaco col padre: il riconoscimento è confermato dalla testimonianza di Pisistrato; quindi tutti piangono di commozione e nostalgia. Elena per placare gli animi versa nel vino un farmaco egizio dall’effetto rilassante e racconta un episodio il cui protagonista è proprio Odisseo. Elena racconta che Odisseo, malridotto per le ferite e dopo essersi coperto le spalle con un mantello, simile ad uno schiavo, si introdusse nella città dei nemici, mutato a tal punto da sembrare un mendicante. Lei sola lo riconobbe, mentre lo lavava e gli giurò di non tradirlo: e lui si fidò e le espose tutto il piano degli Achei. Infine tornò all’accampamento acheo, dopo aver ucciso molti troiani. Elena racconta un episodio che si è svolto dopo la fine dell’Iliade e che pone in risalto le qualità di Odisseo, il suo coraggio e la sua destrezza; ma allo stesso tempo Elena evidenzia la sua complicità, l’aiuto da lei prestato all’eroe a danno dei Troiani e a vantaggio degli Achei.

La conclusione è ancor più significativa: mentre le donne Troiane piangevano disperatamente, lei sola gioiva in cuor suo, perché ormai desiderava tornare in patria, deplorando la follia a cui Afrodite l’aveva indotta. La sua fuga viene definita follia, causa di successiva sofferenza, imputabile ad Afrodite. D’altra parte la responsabilità della dea nella fuga di Elena è evidente anche nell’Iliade. Elena ammette di non poter rievocare ogni cosa, allora ne sceglie una: Odisseo deve a lei la riuscita della missione e persino la salvezza della vita. Con questo racconto, Elena svolge la propria apologia, mentre Menelao riconosce il merito di Odisseo, ma non si esprime riguardo al comportamento di Elena. Il racconto di Menelao smentisce la rivendicazione di Elena in merito alla sua complicità nei confronti degli Achei: la donna ha tentato invece di sventare l'’inganno del cavallo, sia che lo avesse intuito, sia che ne fosse al corrente.
Al tentativo di Elena di stornare la responsabilità della propria fuga su Afrodite, Menelao risponde con tagliente ironia, dicendo che un dio che voleva dare gloria ai Troiani, l’aveva spinta ad agire a danno degli Achei e a tentare di sventare il loro piano.
A coronamento del ritratto negativo di Elena, Menelao aggiunge un riferimento a Deifobo che stava al fianco della donna in questo tentativo di salvare i Troiani e rovinare i guerrieri achei. Menelao sconfessa la complicità rivendicata da Elena verso gli Achei e la mostra anzi ostile e infida.

 

La bellezza di Elena secondo Euripide: un fascino che trascende l’estetica

Nella sua Storia della Bellezza Umberto Eco osserva:

La Bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile, ma ha assunto volti diversi a seconda del periodo storico e del paese. Un esempio eclatante, un’icona dell’eros, un paradigma ineguagliabile di bellezza femminile che ha attraversato i secoli assumendo via via, nella rappresentazione di filosofi, artisti e scrittori, volti sempre diversi, spesso contrastanti e sconcertanti, è Elena di Sparta, incarnazione suprema di una femminilità universale e transtemporale per designare la quale Goethe coniò la definizione di “eterno femminino”.

Sono innumerevoli i ritratti dedicati alla figlia di Tindaro (o piuttosto Zeus, unitosi a Leda in forma di cigno), elevata da mito a donna più bella del mondo, andata sposa a Menelao, sedotta e rapita da Paride, figlio di Priamo, condotta a Troia dall’amante, qui rimase per la durata decennale del conflitto fra Troiani e Achei, decisi a restituire Elena a Menelao (con la forza? con il suo consenso? dopo quali peripezie?), nel suo ruolo di sposa fedele e madre amorosa. Elena viene effigiata da mille irridescenti profili: creatura dal fascino soave, sensuale incantatrice di uomini, adultera pentita, egocentrica tessitrice di inganni. Il nocciolo della questione, posto in termini teoricamente giudiziari, si riduce a una alternativa precisa, netta: colpevole o innocente? Ma neppure è esclusa una terza soluzione, impregnata di inestricabile ambiguità: colpevole e, nel contempo, innocente.
Come analizzata nella parte precedente, fin dall’origine epica nella vicenda di Elena nel terzo canto dell’Iliade, i vecchi troiani esprimono il desiderio che la donna per la quale si sfidano due civiltà “torni per nave alla sua casa”, ponendo fine alla strage.
Mentre, al contrario, lo stesso Priamo indulge a discolparla e ad accoglierla con paterna tenerezza. E, come esplicitato sopra, l’ambivalenza riaffiora anche nell’Odissea (canto V), che mescola la premurosa ospitalità della regina di Sparta nei confronti di Telemaco con un atteggiamento ironico da parte di Menelao che non fa certo una apologia della moglie.

In un’alternanza di condanne e assoluzioni la tradizione del “processo a Elena” percorre tutta l’antichità, dividendo i poeti nei due opposti schieramenti dei “colpevolisti” (Eschilo nell’Agamennone, Virgilio nel secondo e sesto libro dell’Eneide) e degli “innocentisti” (il lirico Stesicoro, Seneca sia pure con riserve, Ovidio evocatore di una Elena invecchiata e piangente). Elena con l’introduzione dell’eidolon viene discolpata da Euripide che propone nella tragedia uno scavo psicologico profondo. La deprecata impossibilità di coniugare bellezza e felicità sta al centro del lamento dell’Elena euripidea, v.304-305: “Per le altre donne la bellezza è una fortuna/ mentre per me è stata proprio una rovina”. D’emblée la nuova interpretazione della Tindaride mostra in Euripide una rotazione di 180 gradi.
Elena non è più, o perlomeno non vuole più essere un mero oggetto del desiderio maschile. E’ ancora affascinante, certo, ma anche virtuosa, ricca di buoni sentimenti: innamorata dello sposo legittimo, nostalgicamente ancorata al ricordo della figlia Ermione. E’ diventata insomma un modello di kalokagathìa, un connubio di avvenenza e moralità, espressione drammaturgica nutrita di sensibilità, avvedutezza, intelligenza.

La plausibilità di questo rovesciamento di prospettiva poggia su un filone mitico alternativo, la cui fonte è rinvenibile in un frammento del già citato Stesicoro.
Secondo tale versione Elena non sarebbe mai andata a Troia. Ad accompagnare Paride sarebbe stato un eidolon, un simulacro, un fantasma con le sue identiche fattezze, fabbricato da Era per vendicarsi di Afrodite vincitrice della contesa fra le tre dee sul monte Ida.  La vera Elena sarebbe invece stata trasportata segretamente in Egitto da Ermes, e lì affidata alla protezione del monarca locale, Proteo. Assoluta innocenza, quindi di Elena, riabilitata in tal modo anche da Euripide.

Questa “tragicommedia” procede senza sussulti drammatici verso un lieto fine, non senza qualche limitata difficoltà. Elena, infatti, deve difendersi strenuamente dalle avances di Teoclimeno, succeduto al padre Proteo che era intenzionato a sposarla.
Sulla costa egiziana sbarca in seguito ad un naufragio Menelao, il quale dapprima stenta a credere alla spiegazione fornitagli dall’autentica Elena circa la presenza a Troia di un suo eidolon. Avvenuto poi un appassionato riconoscimento all’insaputa del sovrano i due sposi ritrovati concertano un piano per tornare in patria con la benevola complicità della profetessa Teonoe. E la tragedia si conclude dunque con una fuga marittima che, per ironia della sorte, risulta simile al rapimento della stessa Elena da parte di Paride, ma che trae legittimazione dal ricostituito vincolo coniugale e dall’intervento di Castore, fratello di Elena, apparso sulla scena come risolutivo deus ex machina.  

 

La trama di Elena. Conversazioni con Francesca Sensini 

Francesca Sensini, docente di Italianistica all’Università Côte d’Azur dedica il suo libro d’esordio a Elena: “La trama di Elena” 2023: ne propongo una sintesi che scaturisce da un’intervista fatta alla scrittrice.

Un omaggio alla mitologia.

- Il mito è il racconto dei racconti. Questo aspetto originario, il suo collocarsi nella notte dei tempi, mi affascina. In Omero “mito” mythos, designa la parola eloquente, efficace, che vuole essere ripetuta, raccontata ancora e ancora, che cerca incessantemente la sua voce narrante e il suo pubblico. L’unico scopo è il puro piacere della condivisione e dell’ascolto di storie antichissime, che sono come i frammenti dell’aurora del mondo.
Il mito è questo racconto non obbligatorio, che non vuole argomentare, avere ragione, persuadere per uno scopo pratico. E’ non di rado stravagante per la razionalità di noi moderni e ci porta notizie di un tempo primo, di una possibile giovinezza del genere umano, turbolenta, esuberante ed introversa, smisurata nella sofferenza e nella gioia, come è o è stata la giovinezza di tutti. Il mito, sostiene la scrittrice, mi avvince anche perché maneggia i fondativi, intorno cui gravitano tutte le passioni umane….tutte le avventure possibili , i viaggi, le guerre, i mostri e le vicissitudini umane.
Inoltre, il mito offre al suo pubblico un’umanità e con essa una realtà aumentata: non semplici uomini e donne, ma eroi e eroine, a volte discendenti dalle divinità, a volte solo mortali, ma sempre tendenti alla dismisura del coraggio, della bellezza, della follia.

Un’Elena frutto di un apporto narrativo originale.

- La mia Elena parla anche di me, parla anche di tutti noi, di una vicenda culturale che ci coinvolge: gli antichi miti mediterranei sono lo sfondo del nostro ritratto di moderni. La mia Elena ci racconta, raccontandosi. Viaggiando nello spazio e nel tempo riscopre le sue memorie che sono anche le nostre, le memorie di storie di famiglia.

Sembra uscire, la nostra scrittrice, dal binomio colpevole-innocente, per mostrare più ampia e meno rigida la figura di Elena.

- Nei vari racconti, testi teatrali, orazioni, Elena mi è sembrata quasi sempre, suo malgrado, destinata a rimanere rinchiusa nell’aula di un tribunale fino all’emanazione di una sentenza definitiva. In tale prospettiva, però si perde molto di Elena: la sua voce, la sua personalità anche la sua stessa mitica bellezza. Per questa ragione, alla mia Elena non interessa essere scagionata dalle sue responsabilità... Paga in prima persona le sue intemperanze, le sue scelte, gli errori non valutati da lei tali, e desidera farsi conoscere per quello che è, imperfetta ma colpevole, il suo è comunque un invito ad uscire dalla morale tradizionale, per considerare la sua storia da una prospettiva di maggior respiro.

Sull’amore non si giura. Posso affermare, però, che mi sono innamorata, me ne ricordo bene. E mi ricordo di me innamorata quasi fossi un’altra persona; dunque con la giusta distanza. Riconosco la fiamma, ma non corro pericolo di ustioni” In questa citazione, in cui è palese l’omaggio alla Didone virgiliana, Elena rivendica l’importanza di prendere una distanza critica dalle cose, dai sentimenti. Che cosa le permette tale presa di distanza?

- Confesso di non aver pensato ad un confronto con Didone, Elena ha bisogno di osservarsi da una certa distanza e, insieme, di prendere le distanze dal tormento delle passioni, dalla agitazione che comportano, non per anestetizzarle, ma per smontarle, per cogliere il loro funzionamento, per non subirle inconsapevolmente, per non soffrire passivamente. Anche in questa esigenza di consapevolezza della sofferenza, Elena aspira alla conoscenza di sé e delle cose.

Teseo, Menelao, Paride, Deifobo,   Achille... gli uomini insomma che attraversano la vita di Elena sembrano amarla e volerla possedere, ma non provano mai a comprenderla fino in fondo.

- Io credo che in realtà, ci provino ciascuno a suo modo. Forse non hanno sempre gli strumenti giusti, sono condizionati dalle convenzioni, dai giochi di ruolo, sono spaventati dal grande amore, che Elena incarna per ognuno di loro. Forse, non escluderei, che questi eroi siano presi più da se stessi, dai propri scopi, dalle proprie sofferenze, ambizioni, che dal desiderio di comunicare davvero con Elena In ogni caso, Elena ha provato a comprenderli raccontandoli. Vuole bene a ciascuno di loro; Elena celebra una forma di precaria eternità, umanissima eternità quella dell’amore.

Nel suo libro il rapimento e il tradimento non sono sempre visti negativamente. Per quali ragioni?

- Il paradigma del rapimento, ricorrente nel mito, assume nella storia di Elena una valenza specifica. Negli antichi rituali matrimoniali, a Sparta in particolare, si metteva in scena il passaggio dalla libertà fanciullesca alla condizione di donna sposata come un rapimento. Di fatto era però una rappresentazione. Inoltre, nel caso più famoso di rapimento, quello di Elena da parte di Paride, già le fonti antiche ci fanno intendere che si trattasse di un accordo tra i due personaggi, non di un atto di violenza subito. Quanto al tradimento non è oggetto di assoluzione né di condanna definitiva. Elena non si assolve né si macera nel senso di colpa.  La sua è stata una scelta e, come tale, ha ricadute, conseguenze, anche di consapevolezza e di crescita. I suoi desideri, come un’ama tagliente, affinano la sua psiche.

“Avevo altro da fare che di occuparmene”, in riferimento ad Ifigenia, che infatti viene affidata appena nata, a Clitemnestra, sorella di Elena e al marito Agamennone. Pertanto, qual è il rapporto di Elena con la maternità?

- Elena ha avuto una figlia, Ermione da Menelao, Ifigenia prima da Teseo e forse un figlio, Elleno, da uno straniero cretese. Tuttavia le storie di Elena non gravitano intorno alla maternità. Come nel mito, così nel mio romanzo, il personaggio di Elena non si definisce né si realizza nella maternità.
Oggi il mito gioca un ruolo sovversivo in qualche modo, anche perché ci fa uscire dalla triade padre, madre, figli, aprendoci altre configurazioni, anche nelle nostre vite.

 

I dialoghi con Leucò. I volti della passione

Protagonista del dialogo “Schiuma d’onda” sono tre donne, che rappresentano le tre possibili incarnazioni della passione amorosa.

Saffo si sarebbe gettata in mare a causa di un amore non corrisposto per il barcaiolo
Faone. Potremmo definire la passione di Saffo, una passione assoluta e ingovernabile. Questa violenta, tumultuosa passione porta la poetessa a perdere qualsiasi controllo sulla propria vita. Saffo sentendo che tale passione la domina totalmente, per liberarsene è costretta al suicidio. Siamo di fronte a una passione “sadicamente” pura, una passione che vuole solo se stessa, cioè inesorabilmente dominare ed essere appagata, che divora colei che ne è vittima.

Britomarti, ninfa cretese, fu invece l’amante preferita di Minosse, che ad un certo punto volendogli sfuggire vagò per mari e monti, fino a gettarsi in mare ed essere miracolosamente salvata da una rete di pescatori. In Britomarti la passione si connota come fuga. Abbracciare la propria passione vorrebbe dire arrestare la propria vita, vorrebbe dire, restare, ossia, porre il proprio destino in perenne balia della sorte.
Dice Britomarti a Saffo: Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. E 'morire a una forma e rinascere a un’altra. E’ accettare, accettare, se stesse e il destino.

Quindi da un lato abbiamo un godimento, per così dire, fine a se stesso, sul quale l’uomo non ha alcuna forma di controllo, e dall’altro abbiamo la rinuncia volontaria al godimento, in virtù di una naturale ed inevitabile sottomissione al divenire mutevole della natura.

Esistono alternative?

A questo punto il genio di Cesare Pavese si manifesta: riesce a rivalutare la figura mitica più colpevolizzata dell’epica greca: Elena di Troia. Nell’immaginario comune, Elena è considerata la tentatrice, colei per la quale si fece la guerra, colei che fu causa di conflitti e stragi senza precedenti. Elena come sinonimo di contesa implacabile. Eppure non ci si chiede per quale ragione Elena fu la vita e la morte, per quale ragione si combatte e si morì per lei. In realtà il mondo attorno ad Elena crollò perché “ella fu sempre uguale a se stessa”.
Così la descrive Saffo: “Non fuggì, questo è certo. Bastava a se stessa. Non si chiese quale fosse il suo destino. Chi volle, e fu forte abbastanza, la prese con sé. Seguì a dieci anni un eroe, la ritolsero a lui, la sposarono a un altro, anche questo la perse, se la contesero oltre mare in molti, la riprese il secondo, visse in pace con lui fu sepolta, e nell’Ade conobbe altri ancora.  Non mentì con nessuno, non sorrise a nessuno. Forse fu felice”.
Insomma Elena è colei che accetta il mutamento nella passione. Non si lascia dominare da un cieco tumulto, come Saffo, né da un destino tiranno come Britomarti.
Elena asseconda il movimento della passione, il che significa mutare amante quando il desiderio muta, significa evitare di mentire e di sostenere finti sorrisi quando la passione svanisce. Elena non mentì a nessuno e non sorrise a nessuno. In conclusione, Elena fu la più coerente incarnazione della tensione della passione.

 

L’Elena di Ritsos 

Questo poeta greco, amico di un esponente significativo della poesia greca, Kavafis, ha trascorso gran parte della sua vita in prigione, ha lottato contro qualsiasi forma di dittatura, contro la monarchia, gli armatori e i proprietari terrieri, dando luogo ad una poesia civile caratterizzata da nobili ideali. Gli anni dal 1959-1970 rappresentano uno hiatus, uno stacco, un periodo di approfondimento della cultura classica greca. Con gli occhi della contemporaneità “guarda” l’antica struttura della drammaturgia classica.
Questa esigenza nasce da una profonda disillusione e disperazione interna.  I suoi personaggi non sentono più il bisogno di confrontarsi con nessuno. L’antico dialogos che, secondo Aristotele, aveva dato luogo alla tragedia, diventa ora solo monologos, monologo di morte, il personaggio parla solo di sé, dialoga solo con la propria razionalità, monologo asfissiante senza contraddittorio.
Uno di questi monologhi è dedicato ad Elena. Chi è Elena in Omero?  La letteratura su Elena di Troia è cospicua. L’Elena di Ritsos è l’ultimo di 14 poemetti del ciclo di Quarta dimensione, scritto nella prigione di Samo nel 1970.

La dea contesa, la donna più seducente del mondo, è ormai una vecchia imbruttita, abbandonata, amareggiata, disillusa, vive solo riguardando il suo passato, derubata e derisa dalle sue domestiche, ha dimenticato anche il nome di tutti i suoi amanti. Gli altri nomi (Paride, Troia, Sparta hanno solo una valenza semantica, non dicono nulla, flatus vocis: “Forse qualcuno una sera mi ha raccontato gli eventi della mia vita”, dice guardando nel vuoto. Eppure ci sono momenti che lei ricorda benissimo, quando pensa alla sua bellezza divina e l’ammirazione, l’eccitazione che provocava nei vecchi troiani:

salii sola
sulle alte mura e passeggiai, sola, veramente sola,
in mezzo a Troiani ed Achei, sentendo incollarmi addosso
i pepli leggeri, frugarmi i seni, sorreggere il mio corpo intero
vestito e nudo, solo con una larga, argentea cintura
che mi reggeva in alto i seni;
così bella, intatta, esaminata
nel momento in cui i miei due rivali duellavano e si decideva il destino
della lunga guerra

Alla fine, Elena, ormai ingobbita, piega il capo all’indietro e spira.
Improvvisamente appare una luce tranquilla, ingannevole. Finisce così il monologo.

 

Bibliografia

  • Jean- Pierre Vernant, Le origini del pensiero greco
  • Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci
  • Jean-Pierre Vernant, L’universo, gli dei e gli uomini
  • Jen-Pierre Vernant, Mito
  • Jean-Pierre Vernant, Mito e Tragedia
  • Jean-pierre Vernant, L’individuo, la morte e l’amore
  • Pierre Vidal Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia
  • Pierre Vidal-Naquet, Il mondo di Omero
  • Pierre Vidal-Naquet, Tragedia ateniese e politica
  • Karoly Kerenyi, Gli dei e gli eroi della Grecia
  • Stesicoro, Le Palinodie
  • Gorgia, Encomio di Elena
  • Euripide, Elena
  • Castiglioni, Commento ad Elena
  • Saffo, Frammenti riguardo ad Elena
  • Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò Schiuma d’onda
  • Ritsos, Quarta dimensione, monologo su Elena 

 

 

Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.

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