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Montale elabora un pensiero dell'esistenza e della realtà pessimista, un pessimismo gnoseologico; il poeta si sente circondato, imprigionato da fenomeni oltre i quali gli è impossibile trovare il "noumeno", l'origine della vita e della realtà.
"Il varco", "l'anello che non tiene", "il giallo dei limoni" sono i correlativi oggettivi per dar corpo poetico a numerosi tentativi onde pervenire al noumeno, tutti vani.
La donna, la presenza femminile è spesso per Montale la possibilità a lei affidata di aiutarlo a giungere all'origine della vita, alla verità, preclusa al poeta.
Le donne fanno parte di una esperienza sentimentalmente molto ricca di Montale; in questo articolo due presenze femminili mi sono sembrate di particolare interesse biografico e poetico: Annette che accompagna i suoi anni giovanili e l'americana Irma Brandeis, studiosa del nostro sommo poeta. La relazione amorosa con Irma/ Clizia è tormentata, passionale e come il poeta, anche anziano, non dimentica, anzi desidera persino qualche mese prima di morire, incontrarsi con Clizia per un addio più denso d'amore e non frettoloso, così Clizia ha sempre pensato a Montale che tanto ha amato come poeta e compagno di vita.
Al centro della poesia di Montale sta la precoce consapevolezza di una totale disarmonia fra l'uomo e la realtà. E' impossible entrare in contatto con le cose, un muro invalicabile ci divide. La "vera" realtà non è quella che si vede, né la ragione è uno strumento adeguato per far luce su un mondo che è essenzialmente irrazionale: non si può dare senso a ciò che senso non ha. E' proprio questa sofferta impotenza che rende incerti i rapporti del poeta con la vita e alimenta il suo sentimento di smarrimento e quasi la sua difficoltà a vivere. Di qui lo stato di sofferenza esistenziale, l'atonia e di fronte al "male di vivere" l 'indifferenza. E' questa la tematica che domina negli "Ossi di seppia" e che fa da sfondo a tutta l'Opera in versi di Montale, seppure con alcuni significativi cambiamenti stilistici e linguistici. Sin dalla prima raccolta Ossi di seppia, scritta a partire dal 1916, l'originalità delle soluzioni formali del poeta scaturiscono non da un rifiuto della tradizione, ma da un'intima rielaborazione. Si potrebbe addirittura parlare di una sorta di compromesso, che corrisponde ad una coscienza poetica nuova. Il mondo fenomenico, della natura e delle cose, nel quale talora sembra possibile trovare uno spiraglio, in realtà continuamente indagato, non dà risposte definitive, forse incetezze. Da qui il valore che assume la parola nella ricerca poetica montaliana. La parola non è in grado di raggiungere l'assoluto, la verità, isolando la sua pronuncia nel silenzio, ma deve sempre confrontarsi con il reale, una barriera nella quale resta inevitabilmente impigliata e che, tuttavia, costituisce il solo banco di prova consentito, la sola speranza (sempre poi vana) di accedere al noumeno che sta oltre il fenomenico. Potremmo anche definire tale noumeno il mistero dell'esistenza. Diventa così impossibile l'uso della analogia nel senso proposto dal simbolismo e recuperato da Dante e portato alle estreme conseguenze da Ungaretti: quello in cui la parola si propone di esprimere sensazioni indefinite e indeterminate, accostando tra loro realtà antitetiche e lontanissime. La parola di Montale, al contrario, non allude o elude, ma indica con precisione oggetti definiti e concreti, stabilendo fra questi una trama di relazioni complesse; essa fa capo, per così dire, materialmente, al soggetto poetante e ne trattiene lo sforzo incessante di penetrare oltre ciò che appare materialmente, per scoprire il senso ultimo della vita.
Le conseguenze di un simile atteggiamento sono essenziali per comprendere l'idea di poesia propria di Montale e le scelte formali da lui compiute. Per un ulteriore chiarimento mi sembra utile la distinzione proposta da Luciano Anceschi, fra una "poetica della parola" e una "poetica delle cose" e la poesia montaliana si ascrive a questa seconda categoria, lungo una linea che ha i suoi maggiori antecedenti in Pascoli e Gozzano (poeti entrambi molto cari a Montale, pur senza voler stabilire con questi ulteriori elementi di parentela, trattandosi di esperienze che obbediscono a motivazioni completamente diverse). Basta leggere la poesia I Limoni che apre gli Ossi di seppia per cogliere quanto forte sia l'atteggiamento polemico nei confronti della tradizione poetica aulica e ufficiale ( quella dei "poeti laureati"), che usa termini astratti e convenzionali per indicare realtà generiche e indeterminate (per ragioni analoghe Pascoli aveva ritenuto insufficiente, inadeguato il linguaggio poetico leopardiano). Ai "bossi, ligustri e acanti" (parole logore, che indicano una flora del tutto improbabile) Montale oppone il colore e la freschezza dei suoi "limoni", che danno luce a un paesaggio arido e brullo, anch'esso precisamente descritto nell'immediatezza della sua configurazione ("erbosi fossi", "pozzanghere"/ mezzo seccate", " qualche sparuta anguilla", "viuzze", "ciglioni", "ciuffi delle canne", " orti"). Anche la scelta di Montale cade quindi sulle "piccole cose", sugli elementi di una realtà povera e comune che l'uomo può in ogni momento trovare intorno a sé, soprattutto nella visione esistenziale, come ho già sottolineato, che non può offrire certezze o illusioni. E' un destino che l'uomo fa fatica ad accettare, ma contro il quale non può nemmeno ribellarsi. In esso si riflette il senso di estraneità dell'uomo contemporaneo, ma in fondo di ogni tempo che, trascorrendo dal piano storico a quello metafisico, entrambi indecifrabili, diventa perplessità esistenziale, quasi in una sorta di paralisi che, proprio per questo, non può più neppure esprimersi in forme tragiche e sublimi. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell'uomo, la natura conserva dentro di sé la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa condizione di aridità, tornando insistentemente sulle cose e sulle relazioni che le uniscono, nell'incessante quanto vana speranza di trovare un "varco" che si apra sul mistero della vita, attribuendole un senso, un qualche significato.
Anche per Montale, quindi, le cose diventano dei simboli, nonostante il suo simbolismo assuma un procedimento diverso da quello tradizionale. Per Montale è più appropriato parlare di "correlativo oggettivo", in quanto le cose, i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione ed espressione (il loro corrispettivo, risultando correlati fra loro) in "oggetti" ben definiti e concreti. Un esempio molto chiaro è offerto dal testo Spesso il male di vivere ho incontrato. La definizione di uno stato d'animo, "il male di vivere", disposizione esistenziale del poeta e dell'uomo contemporaneo in generale, è presentata non in forma concettuale o esplicativa, ma come un incontro diretto, realmente accaduto nel corso dela vita, ciò viene identificato in alcune presenze concrete ("era il rivo strozzato... era l'incattorciarsi della foglia... era il cavallo stramazzato") pertanto il male di vivere viene tangibilmente rappresentato da questi elementi. Anche quando viene meno il riferimento di base (il termine di confronto costituito qui dal male di vivere) restano gli oggetti, le presenze e le cose della vita, a significare le complesse vicende del destino umano, caricandosi di significati nascosti, ulteriori. La "poesia delle cose" in Montale è tutt'altro che semplice e lineare, risulta ardua, difficile, talora oscura, nel tentativo di attribuire agli oggetti il compito da svolgere: il senso indecifrabile dell'esistenza. Un medesimo termine contiene spesso una pluralità di significati, intrattenendo con il contesto molteplici relazioni, che lo rendono di difficile decifrazione sul piano razionale. L'espressione "correlativo oggettivo" è stata usata da Eliot, con cui la ricerca montaliana presenta varie convergenze, a livello tematico e strutturale.
In tale contesto esistenziale e poetico che posto occupa la figura femminile, considerata l'oggettiva ininterrotta presenza nell'universo montaliano? La stessa struttura grammaticale dominante nella sua poesia è il dialogo fra un "io" e un "tu", dove la donna è in assoluto l'interlocutrice privilegiata. Quasi sempe, anche se solitamente non la nomina esplicitamente, è una donna alla quale l'io lirico si rivolge con quel "tu" e non è un'espressione generica, indistinta, come Montale avrebbe voluto far credere ai critici: "Un tu istituzionale, l'antagonista che bisognerebbe inventare, se non esistesse". In realtà non si tratta di una pura convenzione linguistica, ma di una scelta che ha una sua motivazione profonda, perché nel mondo poetico montaliano dagli esordi sino alle ultime raccolte, è sempre l'aspetto della femminilità ad innescare l'ispirazione. Dall'inizio alla fine dei suoi versi, il poeta stabilisce con la donna un dialogo mentale che non si interrompe mai, animato da un'intesa profonda, intima, amorosa: la donna è figura salvifica, luce-in-tenebra, grazie alla sua innata vitalità, al "certo suo fuoco", lei può intuire e percepire verità esistenziali altrimenti inconoscibili e approssimarsi così a superare il varco e quindi al noumeno, alla vita autentica. Significativamente, in una nota scritta ad un amico sulla tematica sviluppata in Ossi di seppia, Montale indica come tema fondamentale, accanto "all'universalissimo mare ligure e al suo paesaggio" proprio "l'amore, sotto forma di fantasmi che frequentano le varie poesie e provocano le solite intermittenze del cuore... e l'evasione, la fuga dalla catena ferrea della necessità (la ricerca dell'anello che non tiene), il miracolo, per così dire, laico". Poche e dense parole, delineanti un rapporto dell'io con la donna, che assume connotazioni esistenziali e metafisiche, in quanto solo la donna è in grado di "riportare l'onda della vita" alla sua non vita, ad offrirgli "un'ora breve di tremore umano", è solo la presenza femminile a propriziare il tanto atteso miracolo, dal poeta auspicato, ma mai realizzatosi almeno per lui. E' vero che negli Ossi di seppia la richiesta d'amore, del poeta assorto nell'ossevare la natura quasi sino ad interrogarla in costanti riflessioni esistenziali, tale richiesta è destinata a rimanere delusa, ma egli trova pur sempre nella donna un'opportunità di incontro, un'interlocutrice ideale. L'amore si farà "pensiero dominante" nelle Occasioni dove il paesaggio permane riducendosi nei versi e lascia spazio all'introspezione del'io, all'ardore del sentimento, alla dimensione memoriale, alla ricerca di una luce pur fioca che illumini per un istante l'oscurità esistenziale. Ed in questo contesto poetico la figura femminile assume una fuzione importante e in essa e con essa l'amore, fondato essenzialmente sul motivo dell'assenza e della privazione della donna amata, diventa "il vero basso continuo del libro" (Contini) e le Occasioni sono come "canzoniere d'amore". E la definizione potrebbe senz'altro essere estesa anche alla Bufera e altro, dove il filo autobiografico continua, ma forse si potrebbe guardare all'opera intera del poeta come ad un "unico canzoniere", perchè il dialogo con la figura femminile emerge in modo continuo anche nelle raccolte successive. Non a caso, infatti, L'Opera in versi di Montale si apre e si chude circolarmente con una poesia dedicata ad una donna, un accorgimento strutturale che non può non caricarsi di un messaggio emblematico. Il lettore del "canzoniere"di Montale non si trova di fronte alla donna e all'amore presenti ad esempio nel Canzoniere petrarchesco, in cui la protagonista è un'ispiratrice unica, una donna unica, Laura "colei che solo a me par donna" sublimizzata e idealizzata. Nell'Opera in versi del poeta le donne che entrano in rapporto potremmo dire d'amore con lui sono più di una: alcune più importanti, altre meno, ma tutte con caratteristiche fra loro differenziate. A volte nella stessa sezione o nella raccolta, sono presenti figure feminili diverse, che si alternano nel loro essere interlocutrici silenziose, mute del poeta, un silenzio funzionale all'ascolto, alla guida e anche alla salvezza del poeta stesso. Spesso queste figure di donna non sono delineate con tratti specifici, pertanto per la critica e per i lettori arduo è il compito di individuare con certezza a quale donna il testo faccia riferimento. Montale, per altro, usa un assoluto riserbo e utilizza nomi fittizi per evocare le sue ispiratrici, nomi che hanno una funzione simile a quella del senhal presente nell'antica poesia cortese. Nella poesia di Montale la donna non è mai descritta fisicamente, del suo corpo femminile si evidenzia metonimicamente solo qualche dettaglio: lo sguardo di cristallo, la frangia dei capelli, i lunghissimi cigli, una ruga sulla fronte, il morbido labbro, le pupille offuscate oppure segni esterni quali giade, orecchini, anelli e grossi occhiali di tartaruga, un elenco non esaustivo, si conferma la "poesia delle cose". Figura evanescente, fisicamente inconsistente o quasi, la donna silenziosa si affianca all'amato, tutta tesa all'ascolto delle sue parole.
La biografia di Annetta procede parallelamente al suo essere ispiratrice della poesia montaliana dai versi, per così dire, iniziali a queli più tardi. La sua presenza è stata uno dei fili più lunghi e resistenti, un filo che, tramato dalle evocazioni più sofferte e ordito tramite i correlativi più luminosi, è stato tessuto a tal punto che la critica ha scritto del costituirsi di un mito vero e proprio. La rilevante presenza di Annetta in tutta l'opera del poeta, si può scrivere e commentare come un "ciclo di Annetta". Con lei, "occasione" di se stessa, la poetica montaliana andrebbe quasi invertita: non le occasioni hanno spinto Annetta sulla pagina poetica, ma, al contrario, Annetta ha generato quelle occasioni in cui è stata "vista"e resuscitata a nuova e più vera vita. Probabilmente senza di lei le occasioni non sarebbero state colte dal poeta, non avrebbero avuto espressione e senso.
La vita reale di Annetta è questa: Anna degli Uberti (1904-1959) figlia di una agiata famiglia residente a Roma ha conosciuto E. Montale a Monterosso durante un soggiorno estivo della famiglia, e Annetta e il poeta si rividero tutte le estati sino al settembre del 1923. Montale si innamorò di Annetta senza forse dichiararsi; il suo amore inespresso, silenzioso e impacciato fu compreso solo più tardi e quel che è certo è che fu rifiutato forse dalla indifferenza di Annetta. Annetta - che raramente viene presentata come Arletta (cioè Montale non usa il senhal) - è l'innominata, l'assente, che sempre ritorna, nelle più svariate forme. Annetta è proteiforme e pervade il testo, non sono presenti i riferimenti referenziali, pertanto non può essere imprigionata nella struttura rigida di un nome. Mai lei è simboleggiata da qualcosa, ma qualcosa può sempre simboleggiare lei. Nel testo Il canneto rispunta i suoi cimeli- che risale al 1924 forse il poeta pare rivolgersi senza nominarla ad Annetta come viva ma "lontana", "assente" dal luogo che la "presente e senza di lei consuma" (v.10). Assente cioè da un luogo che ne preavverte la presenza e, dunque senza di lei, esaurisce il suo senso, si consuma. Il testo è tutto giocato sull'opposizione presenza/assenza, la poesia lega l'assenza di Annetta, la sua lontananza, "all'ora di attesa in cielo, vacua" (v.5), mentre ne lega la presenza solo (memoriale) alla natura del luogo focalizzato "la plaga": un correlativo oggettivo che rinvia ai tanti simbolismi con cui l'amor passionale è cantato da Guido Guinizzelli nella canzone "Al cor gentil rempaira sempre l'amore", questa plaga sente la donna ancor prima del suo arrivo o quando lei non è lì. E, se non è lì "divaga/dal suo solco, dirupa, spare in bruma"(v.11-12). Si tratta di un bel rovesciamento dannunziano: non è la donna ad identificarsi, a fondersi nella natura, a farsi "virente", ma è la natura a presentire la donna, incupendosi e rovinando per la sua assenza.
In Vento e bandiere (1926) il poeta si rivolge direttamente ad Annetta, ancora viva ("te lontana" v7) che "torna" al poeta in forma di visitazione memoriale in tre immagini legate al vento e ad una leggera brezza: lo scompiglio dei capelli spettinati (v1-4); la veste aderente al corpo a causa di una folata e infine " i voli" dell'ondeggiare di un'amaca, quando si è placata la furia del vento. Un correlativo oggettivo il soffiare del vento che evoca il carattere volubile di Annetta ("la raffica... ti modulò rapida a sua immagine", v5-6). Incerta è la critica sul titolo della lirica in cui compare l'uso del senhal Arlette: "Prima della primavera" e "Una poesia", ma è anche forse la prima poesia in cui Annetta viene cantata come morta. Il suo inconsapevole destino è stata dunque la morte. Come dai versi finali: gli anni passati le cui ultime rifrazioni danno luce, sono ormai trascorsi, sono morti, e per questo sono anni
... che seguirà nella vicina/ bara colei che vede e non intende/ quando la tragga il gorgo che mulina/ le esistenze e le scende/ nelle tenebre.
Esplicitamente rivolta ad Annetta la lirica rimasta quasi un abbozzo è Il sole d'agosto trapela appena. L'avvenuta morte di lei viene qui dichiarata nella prima strofa che però è circolettata:
Il sole d'Agosto si svela a stento/ tra i cirri/ ..../ Poi s'alta sorviene/ la sua vampa ti guarda e a te sola / che non resta che un'eco di parola/ e il sapore ch'io sento tuo: di cenere.
Risalgono sempre al 1926 due poesie degli Ossi di seppia intitolate Incontro e Delta: in entrambe Annetta non è più. I titoli delle poesie montaliane hanno spesso un significato e un rapporto con i testi, anche se non sempre evidente. Questa ambigua connessione semantica assume la funzione di dilatare l'immaginazione del lettore nel tentativo di individuare il rapporto tra il titolo e il testo, un preciso rapporto che solitamente esiste. L'incontro è quello che avviene, nelle strofe finali, tra il poeta e una "fronda" che si anima:
Forse riavrò un aspetto: nella luce/ radente un moto mi conduce accanto/ a una misera fronda che in vaso / s'alleva s'una porta di osteria./ A lei tendo la mano, e farsi mia/ un'altra vita sento, ingombro d'una/ forma che fu tolta; e quasi anelli/ alle dita non foglie mi si attorcaono/ ma capelli.
Poi più nulla. Oh sommersa! : tu dispari/ qual sei venuta, e nulla so di te./ La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari/ del giorno sparsa già. Prega per me/ allora ch'io discenda altro cammino/ che una via di città,/ nell'aria persa, innanzi al brulichio/ dei vivi; ch'io ti senta accanto; ch'io/ scenda senza viltà.
Delle "impallidite vite"del v.13, delle vite larvali e vegetali che sfociano dalla foce del torrente Bisagno, fa parte anche il poeta, prima dell'incontro magico che forse gli ridarà un aspetto umano: "una misera fronda", una forma (sottolineo forma e non sostanza, cioè fenomeno e non noumeno) che gli era stata tolta, si trasforma nuovamente in vita per lui, nella sua mano. In Incontro è il mito di Dafne abilmente rovesciato, a rivelare la parusia metamorfica dell'amata, morta o ri-suscitata nel ricordo dal momento fatato dello sfioramento d'una frasca. Già al v.28 ("Se mi lasci, anche tu, tristezza") si può leggere nel sottinteso di "quel anche tu" il riferimento ad una figura femminile che più non era. I versi 46-47sono espliciti: "Poi più nulla. Oh sommersa! : tu dispari/ qual sei venuta, e nulla so di te". Dafne- Annetta ritorna allo stato sommerso e sparisce nel nulla. Interessante è questa interpretazione mitologica accennata e rovesciata, che però conferma la vicinanza alla mitologia riscontrabile in numerosi testi di Montale. Per sottolineare l'estrema importanza che ha sempre il dato reale nel costituirsi del correlativo oggettivo dei suoi versi, mi sembra significativo evidenziare che l'immagine della "fronda" "s'una porta d'osteria" v39-40 non è inventata ma appartiene alla reltà: a partire dal Mediovo, infatti, si usava collocare come insegna sopra l'ingresso un vaso con una frasca, segnalando con questa immagine la presenza del vino nuovo.
Rivolta direttamente ad Annetta, presenza soffocata" v.4, in " Delta", a partire dal titolo il poeta allude per pochi tratti alla sua morte: "Quando il tempo s'ingoga alle sue dighe/ la tua vicenda accordi alla sua immensa" v5-6. O ancora quando nel dubbio ontologico sulla realtà di Annetta "forma /ubbia" (v.13) l'immagine della donna viene arricchita da un'altra immagine: quella del fiume, la "riviera" d'ascendenza dantesca che finisce la propria vita sfociando nel mare aperto, intorbidito con febbrile violenza" scroscia incontro alla marea" v.15-16. Non rimane più nulla di te nel tempo scrive Montale "messaggio muto" v11-12, definendo Annetta, ad eccezione della parusia salvifica del fischio d'un rimorchiatore (correlativo della memoria) che approda tra le nebbie del golfo "brume" di ascendenza dantesca, inoltre rafforza una memoria evanescente, non presisa. Che cosa si salva? Quale salvamento ha portato con sé? Un ricordo vago.
In Montale è spesso presente un "miracolo" che promette la salvezza da questo opaco male che pervade la vita; un "miracolo" o un prodigio che può assumere qualsiasi forma: una luce, una presenza, un ricordo, un oggetto. L'epifania memoriale, che regna tra i prodigi montaliani è quasi sempre il ritorno di quel passato in un'agognata, ma impossibile, abolizione del tempo: ("la nostra vita è sposata/ a una vicenda che non passa/ senza ritorno"). La salvazione per il poeta sarà sempre e solo un mondo possibile, mai attuale. L'angelo di Montale è spesso un messaggero muto che "parla" in modo forse luminoso, ma solo tramite gli oggetti.
Le liriche "Turbamenti" non datate e "Stanze" che risale al 1924 sembrano adombrare un chiaro e definitivo rifiuto di Annetta:
Poscia si squarciò il velo/in brandelli: sembrò di contro ai rombi/di quell'onde-o dei polsi?/un volo strepitoso di colombi. V18-21
Cosi la parte conclusiva di "Turbamenti", un testo che ha sempre come scenario quello delle Cinqueterre, del suo mare ligure:
E' scritto ch'io debba perdervi, ciò intendo;/ invano derelitto mi guarderò attorno./ Me ne andrò solitario; quando un giorno/vi riavrò in uno scroscio di cascata.
L'irriquietezza, o meglio l'inquietudine di Annetta /Dora, forse comunque la prima musa di Montale, credo vada collegata al "lago d'indifferenza" che è il suo cuore. Questa indifferenza non può essere solo la risposta crudele al desiderio del poeta. Probabilmente riguarda tutta la sua vita e infatti Montale si chiede come faccia Annetta a resistere, anzi ad esistere, mantenendosi così apatica, così atona nella sua assenza di desiderio. Si tratta di un "typus melancholcus".
Nella Casa dei doganieri ricompare questa inquietudine, basta il verso: "lo sciame dei tuoi pensieri" (v4), un'immagine che rimanda visivamente a un insieme di moscerini che si muovono di continuo e che, anche quando sostano, sono in moto "irrequieti". E' questa una perfetta metafora o insieme di oggetti correlati tra di loro di quella "fuga delle idee" che è uno dei tratti tipici dell'euforismo melanconico? Una sorta di accelerazione delle rappresentazioni mentali nella quale l'associazione delle idee risulta rapida e logicamente scoordinata. Binswanger nella fenomenologia esistenziale la definiva una "danza della realtà".
La casa dei doganieri (1930) è il lirico tombeau di Annetta: la critica ha osservato che "Tu non ricordi" è il rovesciato incipit di A Silvia: diversamente da Leopardi, la morte non consente più a Montale interrogative retoriche ma soltanto certezze dichiarative, e questo è il senso del suo novecentesco rovesciamento: quel "Tu non ricordi", ripetuto al v.10 e al v.21 in sede finale. Silvia muore nell'idillio leopardiano in modo sublime, poeticamente, ma noi leggiamo la sua morte, la sua privazione dei beni della vita e con lei muore la cara speranza in Leopardi. La morte di Annetta è un processo deduttivo, evidente, ma - come fa spesso - il poeta lascia al lettore la comprensione di tale morte e tale processo "sorvola" per così dire dal testo. Il lettore infatti deve leggere "tu non puoi ricordare" in luogo della frase iniziale per poi aggiungere un sottinteso e correlativo "noi possiamo, non tu". Annetta ri-vive nell'evocazione di un luogo passato: la casa dei doganieri, il cui scenario è abbastanza lugubre; a strapiombo sul mare, l'edificio è in rovina: niente porte, né finestre (il vento sferza da anni le vecchie mura). La casa, inoltre, che quasi per un segreto sortilegio ha conservato il riso di Annetta, attende desolata il suo ritorno. Lei però non può ritornare e il suo riso non è più lieto. Il ricordo che una sera ha fatto rivivere la casa è dunque uno solo: Annetta non può ricordare nulla. Tutto si è fermato nell'attimo in cui lei è scesa nell' "altro tempo", nel tempo della morte e, a mio avviso, si potrebbe anche dire nella casa dei doganieri, visto che si tratta di quella casa in cui tutti alla fine dobbiamo giungere: la casa dei doganieri è il correlativo della casa della morte. Tutto si è fermato, ma tutto tende a ritornare mutato. La casa attende ma desolata un ritorno impossibile, il " riso di lei" non è più lieto e il pronostico del futuro (ancora una volta l'eco leopardiana è presente in "quel vago avvenir che in mente avevi"), cioè il "calcolo dei dadi" non torna.
E come non ricordare qui il Coup de dés di Mallarmé (Un coup de dés jamais n'abolira le hasard) dove appunto alcun risultato ottenuto dal lancio dei dadi può abolire il caso e il destino. Infine troviamo la "bussola", il cui magnete, nel mondo dei morti, non dà più indicazioni su alcun possibile orientamento. Del resto, un "altro tempo" disturba il segnale della memoria, dove nella "tua memoria" v.11 va letto "la mia memoria di te".
Annetta e il poeta sono i due capi di un solo filo che li collega. Ora il tempo non dipana più quel filo, anzi lo addipana (immagine alternativa al mito di Arianna: qui riscontriamo un'altra contaminazione con la mitologia greca). Il poeta, che è nel tempo, ne tiene ancora un capo mentre l'altro si è riavvolto nel nulla dell'altro tempo, nel tempo che annulla ogni altro tempo. Dopo la morte di Annetta, il filo sarà un filo puramente memoriale che allontanerà nella memoria del poeta Annetta e la sua casa, mentre quella "banderuola" ch'è il correlativo della sorte continuerà a stravolgere i destini umani senza alcuna pietà (l'immagine oggettiva non va riferita a un segnavento ma piuttosto a uno di quei cappucci per camini che ruotano in direzione del vento per meglio disperdene il fumo; infatti, la "banderuola" è "affumicata"). Se il filo della memoria si riaggomitola, Annetta resta "sola", cioè isolata da quel compagno a cui era collegata da quel filo. Resta sola, perde il filo e non può più esistere ("respirare") dove siamo noi, cioè nell' "oscurità".
La strofa finale si apre però su un grido di stupore ("Oh" v.17): l'ultimo orizzonte (ascendenza leopardiana) non c'è, non c'è una fine perché la fine si sposta (fugge) con noi, o, il che è lo stesso, si sposta se noi lo vogliamo. Questo è forse il "varco", il passaggio salvifico, qui illuminato dalla luce fioca e vacillante ("rara") d'una petroliera, mentre ancora terribile e minaccioso si sente il maroso frangersi sulla scogliera. Il che conferma l'oscillazione tutta montaliana tra anelito metafisico e implacabile criticità sul valore universale della conoscenza.
Gli ultimi due versi sentenziosi di questa lirica volta al sublime richiamano la perentorietà dell'incipit, chiudendo a struttura circolare il testo: la domanda retorica, classica nei versi di Montale, sarà: chi è più vivo? I morti (eternati nella luce del ricordo) o i vivi che vivono nell'oscurità?
Punta del Mesco (1933) è titolo dai suoni così accattivanti e inusitati nella fonetica montaliana da far dimenticare che nella sua referenzialità toponomastica designa il promontorio che divide la baia di Monterosso da quella di Levanto. Senza che nulla sia mutato, il poeta rivede lo scenario marino di un'età passata che fu sua e di Annetta: le onde, le barche e un sentiero che costeggiava il mare. Col loro affondare e riemergere dalle acque, le polene delle barche gli riportano a tratti alla memoria qualcosa di Annetta. Improvvisamente
Un trapano incide/il cuore sulla roccia-schianta attorno/più forte un rombo. Brancolo nel fumo v18-20.
La visibilità realistica della scena non deve offuscare il suo senso simbolico che ruota attorno all'isotopia della parola "cuore": quello della roccia e quello del poeta, colpito dal ricordo in un soprassalto emotivo che coincide anche con un istante di grazia. "Riappare"al davanzale il viso di Annetta che illumina il mattino v22. Torna così, in analogia con l'esplosione, l'infanzia di lei "dilaniata dagli spari"v.23-24.
Nel luglio del 1933 una giovane alta e snella, occhi azzurri, capelli corti a caschetto, si presenta al Gabinetto Vieusseux per chiedere del direttore. Si chiama Irma Brandeis, è un'italianista ebrea americana affascinata dalla poesia di Ossi di seppia; troverà Montale il giorno dopo. In una lettera Irma scrive con entusiasmo: "Siamo diventati amici! Abbiamo parlato di Ezra Pound, T. S. Eliot, dell'Inghilterra, dell'America e dell'Italia" e continua "vestito con buon gusto, davvero semplice, alquanto brutto e, spesso persino piatto". Il mese dopo scrive "il grande poeta non sa parlare. Mi dice umilmente delle cose stupide. E mi piace adesso, non perché somiglia tanto alla sua opera, ma perché non ci somiglia affatto!". Pochi giorni di presumibile incantato corteggiamento con scambio di libri e di pareri letterari come strategia di avvicinamento. Irma e il poeta si incontreranno raramente soli: al caffè, all'osteria, al parco, lungo il fiume, dove una sera, finalmente soli, osservano le altre coppie danzare. Montale ad agosto si trova a Parigi e poi a Londra ed inizia utilizzando sia l'inglese che l'italiano il suo epistolario con Irma Brandeis.
Eppure l'incontro deve ancora avvenire: sarà al piazzale Michelangelo la sera/notte del 5 settembre e questo incontro verrà rievocato, ricordato più volte.
Non dimenticherò mai quel ritorno tra scale acque e terrazze. Mi sentivo ubriaco non di quel fiasco a triplo fondo, cara Irma, ma di te e della tua presenza. E dopo... quando si è stati così felici almeno per un'ora si può fare ancora qualcosa per essere riconoscenti alla sorte e per vincere le difficoltà.
Propongo alcune lettere dalle quali si comprende come il poeta, per la prima volta, sia preso da un amore intenso e passionale, che rimane tale; anzi la lontananza porta il poeta a sublimare Irma e il loro amore.
5 settembre 1933:
Mia cara Irma,
lo so non conosco ancora tutto, ma so che non ho mai incontrato una donna come te e che certamente nessun uomo potrà sentire per te quello che sento io...
Ma non desidero ingannarti.
Devi sapere che sono un uomo assai stanco, probabilmente sulla fine della propria carriera... poetica e sfiduciato di dover scrivere in una lingua che nessuno capisce e che non si adatta più alla vita di oggi.
Un uomo poco tagliato per la vita, tanto in Italia che in America.
E nondimeno...
Penso che tu potresti salvarmi...
19 Novembre:
E spero in una soluzione possibile anche se ci sono dei giorni nei quali mi augurerei di morire felice dopo aver passato un mese con te (30 giorni e 30 notti) - se tu potessi dopo ritrovare ancora la pace e la tranquillità.
Non vorrei farti del male in nessun modo.
E' chiaro ora il senso?
E hai potuto pensare che forse non ci vedremo più?
E mi credi già rassegnato a non averti?
Scrivimi subito qualcosa about tutto ciò, mia cara, troppo cara Irma che non merito.
1 Dicembre:
Mia cara Irma,
Ti prego di togliermi da questa perplessità, sai che ti voglio bene, più bene di prima, ma ci sono giorni, come questo, in cui privo di notizie, pieno di freddo, guai e di malinconie, io non riesco a vederti - starnazzo nel buio come un pipistrello.
Ti voglio bene e non ti vedo.
Sei viva?
Esisti?
Che cosa sta macchinando l'ignobile destino?
Non è questione di fede; io ho fede in te e benedico il giorno in cui ti ho incontrata...
Ma se non ricevo tue notizie io mi perdo nel buio e attendo... E non oso scrivere...
Non pensare mai male - e non dubitare mai...
5 Dicembre:
Dearest Irma,
le tue lettere sono un tesoro che non riesco neppure a rileggere tanto sono preziose.
Le tengo chiuse in un cassetto...
Per me la poesia è questione di memoria e dolore.
Mettere insieme il maggior numero possibile di ricordi e di spasimi...
Mia cara Irma, io sono abituato a cibarmi di nuvole e lontananze, ma tu meritavi qualcosa di meglio!
Io sarò sempre tuo, a tua disposizione, pronto a fare quello che vorrai, e persino a pensare quello che vorrai farmi pensare...
Non desidero di meglio che pensare con la tua testa e vedere coi tuoi occhi.
Montale è affettivamente sopraffatto da un amore passionale, certo sublimato dalla lontananza e per questo in conflittualità esistenziale, è un amore sofferto. Però non c'è un solo giorno di silenzio che poi non venga compensato da lunghe lettere. Irma, come Clizia rappresentata nelle Occasioni, è generosa, paziente e, talvolta, severa. Miss Gatu, come la chiama a volte l'amante, vuole essere apprezzata, inseguita, e al tempo stesso lasciata libera di piangere in silenzio le proprie tristezze, la morte del padre. Montale invece resta in costante attesa di una risposta dell'amata. Mai come in queste epistole Montale appare ansioso, incapace di mantenere la calma e impensabilmente passionale. Cerca di far capire all'amata che non desidera altro se non avvicinarsi a lei, se non entrare nel suo mondo. E impazzisce quando non si sente ricambiato. Montale non appare determinato quando si sente ricattato da Drusilla e dai suoi insani gesti, il poeta vive sull'orlo di una scogliera, nella speranza che le braccia di Irma lo avrebbero accolto. Irma sommersa dai versi, dall'entusiasmo dell'amante, cede quasi sempre alla bellezza della poesia di cui si sa ispiratrice.
Irma e Montale si incontrano l'ultima volta nel 1938; la guerra è iniziata e Irma, ebrea d'origine, sa che non potrà più tornare in Europa. Il poeta segue Irma con lo sguardo, vorrebbe raggiungerla sul treno in partenza, il loro rapporto è ostacolato da un destino avverso.
Nel giugno del 1981 scrive queste ultime parole:
Irma, /you're still my Goddes,/ my divinity /prie for you/ for me. Forgive my prose./ Quando, come ci rivedremo?
Montale morì pochi mesi dopo.
Un amore denso di umanità, di passione, di fragilità e bellezza cantato nei suoi versi.
Non pensai ad una lirica pura nel senso ch'essa ebbe da noi, ma piuttosto ad un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli... Bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione (E. Montale, Intervista immaginaria, in Sulla poesia a cura di Zampa Mondadori).
Mottetti costituisce la seconda sezione delle Occasioni, il titolo allude alla "poesia d'occasione", nel senso che in questo periodo si infittiscono, nei versi di Montale, i riferimenti a persone, eventi, circostanze della vita privata e pubblica. Eppure il poeta ha sempre rifiutato di precisare le circostanze biografiche della sua ispirazione. Al centro delle Occasioni si trovano in Mottetti ventuno componimenti dedicati ad Irma Brandeis chiamata, talvolta, col senhal di Clizia. In molti componimenti il poeta esprime il desiderio di affidarsi a lei perché lo metta in contatto con la verità. Irma possiede gli attributi del fuoco e del gelo, suggeriti dal significato del cognome di questa giovane ebrea americana studiosa di Dante e curiosa di conoscere l'autore delle liriche di Ossi di seppia (Brand-fuoco, eis – ghiaccio) Irma connotata da desideri e sentimenti intensi, possiede "occhi di ghiaccio".
Portami il girasole ch'io lo trapianti
Portami il girasole ch'io lo trapianti / nel mio terreno bruciato salino, /e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti/del cielo l'ansietà del suo volto giallino. /Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche.Svanire/ è dunque la ventura delle venture./ Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono le bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce.
Proprio il girasole impazzito di luce che si trapianta nell'animo "bruciato dal salino" ben esprime il desiderio di pervenire alla conoscenza, da parte del poeta che non si arrende e cerca incessantemente la verità.
Montale trova dunque rifugio per il suo "essere" in una forma di vita naturale paragonabile al girasole, fiore raggiante e pieno di colore che punta sempre alla luce, che, parafrasando il testo, è qualcosa di fronte al quale non si può fare altro che impazzire di luce. Il poeta chiede in maniera metaforica di poter trapiantare nel suo giardino posizionato vicino al mare questo fiore che, nella sua essenza vitale, volge verso la luce, esprimendo un anelito di conoscenza e di salvezza personale.
L'origine del mito del girasole si trova in Ovidio, nel quarto libro delle Metamorfosi, in cui viene narrata la storia della ninfa Clizia, che era perdutamente innamorata del dio Apollo. Però il dio innamoratosi di una mortale Leucotoe per riuscire a conquistare la donna amata, si trasformò nella madre di lei. Entrato nella stanza dove stava tessendo con le ancelle, riuscì a rimanere solo con lei e a sedurla. Clizia, gelosissima, per vendicarsi rivelò il segreto al padre della giovane, che la punì seppellendola viva. Apollo tentò di farla resuscitare, ma il destino si oppose, facendo spuntare una pianta d'incenso sulla sua tomba. Apollo, perduta l'amata Leucotoe, non volle più vedere Clizia che rifiutando di nutrirsi, cominciò a deperire. Ella trascorse il resto dei suoi giorni seduta a terra, immobile, ad osservare il dio che conduce il carro del Sole in cielo. Infine, Apollo, impietosito, la trasformò in un fiore, in grado di cambiare inclinazione durante il giorno secondo lo spostmento del Sole nel cielo: il girasole. Nomen -omen : il nome di Clizia deriva dal greco klìno e significa "colei che si inclina", cioè secondo la polisemia del verbo, "colei che si inclina, si muta e ha la dedizione verso qualcosa". Quindi Clizia, pur avendo perduto le sue sembianze umane, continuò ad amare Apollo come aveva fatto fino a quel momento. E da Ovidio questa immagine del girasole, modello di amore fedele e infelice passa a Montale che così chiamò l'amata Irma Brandeis.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
Ti libero la fronte dai ghiaccioli/ che raccogliesti traversando l'alte/ nebulose; hai le penne lacerate/ dai cicloni, ti desti a soprassalti/ Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo/ l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole/ freddoloso; e l'altre ombre che scantonano/ nel vicolo non sanno che sei qui.
E' Montale stesso ad aver usato nel 1961 l'espressione visiting angel e in questo Mottetto scritto probabilmente nel 1940, Irma assume, evoca la nuova Beatrice: è la donna che ha affrontato "l'alte nebulose" a visitare il poeta. Certo la differenza, nonostante l'apparente somiglianza, è chiara: Irma /Clizia è diversa dalla sublime Beatrice, venuta "da cielo sulla terra a miracol mostrare". Il suo è un cielo d'alte nebulose, turbato dai cicloni naturali e degli uomini, vediamo una donna- angelo più viva nella sua grazia e più credibile nel suo messaggio.
Questa delicata poesia d'amore e d'angoscia presenta la ricerca della musicalità, come sempre in Montale, una ricerca particolarmente attenta ed efficace. E' Irma Brandeis a far risuonare una nuova musicalità in Montale con una frantumazione di versi caratterizzata da numerose assonanze. Il poeta è l'unico a sapere della presenza della donna: l'unico a viverla e a conoscenza di un segreto e di un tesoro che ne sanciscono la superiorità rispetto alle ombre "scantonate".
Fin dal primo verso, il poeta esibisce affetto nei confronti della donna-angelo: la accoglie amorevolmente, le libera la fronte dal ghiaccio, osserva con dolcezza le penne delle sue ali lacerate dal vento, veglia sul suo sonno agitato "Ti desti a soprassalti". Irma appare al poeta come angelo sì, ma un angelo fragile, ferito e stanco che, dopo il lungo viaggio, sembra cercare insieme al poeta un momento di pace. E' quindi una creatura reale e una proiezione del desiderio della donna amata. Montale è così addolorato per la partenza di Irma che si illude di vederla ricomparire.
Con il proprio "miracoloso" ritorno, lo salva poichè libera il suo stato d'animo dalla tristezza per la lontananza, e viene da lui curata ed accudita, in un intimo scambio d'amore.
Lo sai: debbo riperderti e non posso
Lo sai: debbo riperderti e non posso./ Come un tiro aggiustato mi sommuove/ ogni opera, ogni grido, e anche lo spiro/ salino che straripa/ dai moli e fa l'oscura primavera/ di Sottoripa. /Paese di ferrame e alberature/ a selva nella polvere del vespro./ Un ronzio lungo viene dall'aperto,/ strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno/ smarrito, il pegno solo ch'ebbiin grazia/ da te. / E l'inferno è certo.
Irma Brandeis sta partendo e il poeta prende dolorosamente coscienza che deve perderla di nuovo, e non lo può sopportare.
Montale esprime questo dolore per la separazione dalla donna amata con suoni, persino quello che giunge dal mare, che lo colpiscono annientandolo, lasciandogli la certezza dell'inferno, o meglio del luogo, della sua vita come inferno.
Genova è una città " fortemente accentrata" in cui ci si sente "difesi da una tradizione fatta di pietre e di costumi" (1974). Così un Montale sagace storico aveva descritto la sua città. Ma non il poeta che, quarant'anni prima, nel mottetto Lo sai: debbo riperderti e non posso escludeva ogni dolce-difesa dalla sua città-inferno. Nel Mottetto, Genova è l'incubo di un disumano addio reso palpabile, oggettivo e al tempo stesso emblematico: "paese di ferrame e alberature/ a selva nella polvere del vespro". Il "ferrame" di bastimenti e antenne, bailucchi e rotaie nel porto di Genova è il segno moderno della disumanità stessa: "Penso che la moltiplicazione delle scienze e delle tecniche sia direttamente connessa alla scomparsa dell'idea fondamentale che non bisogna vergognarsi di essere uomini" concluderà Montale in una paginetta di Nel nostro tempo. Il porto nella lirica si è capovolto in oscurità, inferno certo. D'altra parte, il mottetto, così duramente scolpito, si apre con un singhiozzo, un sospiro: "Lo sai: debbo riperderti e non posso...". E' un Montale fortemente sentimentale, ancor più in stato di sofferenza, col cuore pesante, tra i moli del suo porto-carcere, dove sfolgorarono un giorno il segno e il pegno di lei - consacrazione, inveramento di quel paesaggio - retrocesso ora a locus stridente, straziante nel suo vuoto. Questo inizio sospiroso, intimo e tipico, relativo alle vicissitudini di una storia d'amore, è una chiave sentimentale che per gradi introduce all'ultimo e decisivo "inferno", freddo, certo, privo di cadenze umane, perfetto vacuum sentimentale.
"Come un tiro aggiustato mi sommuove/ogni opera, ogni grido e anche lo spiro/salino che straripa/ dai moli e fa l'oscura primavera/ di Sottoripa". Una lettera d'amore, il puro gemito nudo, sprovvisto qui dell'ironia e autoronia delle lettere vere e proprie, in alcune almeno che Eugenio- Arsenio o Eusebio inviava a Clizia. Cerco di interpretare quel "riperderti": se è da leggersi non tanto come nuovo distacco, stazione obbligata, di una via crucis emotiva, o piuttosto come "perdere due volte", perdere indefinitamente e necessariamente, la letterina sentimentale è compromessa all'origine. Nel luogo intimo- porto dell'infanzia, e consacrato da Clizia- il poeta non trova che "opere" e "gridi" slegati dal segno, svaniti nella grande e dolorosa assenza di lei. La primavera stessa è una primavera che non fiorisce. Chi ora vaga in questo luogo natio non lo riconosce. Questo non riconoscimento colpisce il poeta come una percossa. L'inferno è questo razzolare nel "rovescio del mondo". I cari usati segni sono assenti. La luce, il colore, l'armonia del luogo sono perduti. Il luogo è perduto perché Clizia manca, non c'è in questo luogo. Parafrasando la conclusione, è come se il poeta avesse scritto: mi manca, patisco perché mi manca.
Gli "orecchini"
Non serba ombra di voli il nerofumo/ della spera.(E del tuo non c'è traccia.) / E' passata la spugna la spugna che i barlumi/ indifesi dal cerchio d'oro scaccia./ Le tue pietre, i tuoi coralli il forte imperio/ che ti rapisce vi cercavo; fuggo/ l'iddia che non si incarna, i desideri/ porto fin che al tuo lampo non si struggono/. Ronzano elitre fuori, ronza il folle/ mortorio e sa che due vite non contano./ Nella cornice tornano le molli/ meduse della sera. La tua impronta/ verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide/ mani, travolte,fermano i coralli.
Il nucleo tematico della poesia consiste nell'amore ("i desideri porto fin che al tuo lampo non si struggono") e nella distruzione e morte ("ronza il folle mortorio e sa che due vite non contano"). Possiamo chiederci se le due vite non contino veramente nulla, oppure altra ipotesi se di fronte all'emergenza della guerra e dell'altra emergenza, quella della lontananza di Irma Brandeis, non ci sia possibilità di una protesta poetica, solenne.
Il testo recita: la mia mente non conserva le immagini che ha ricevuto (e della tua non c'è più traccia). Cercavo di ricordare i tuoi orecchini di corallo e il tuo amore. A te, che sei la mia divinità incarnata porto i miei desideri finché al tuo ardore non si consumano. Fuori il rumore, come ali di insetti, della folle guerra indifferente alle nostre vite. Nella mente tornano i tristi pensieri della sera, come molli meduse velenose. Si imprime in me un'immagine di morte: vedo gli orecchini di corallo e squallide mani di morti che li fissano ai tuoi lobi.
Nella storia d'amore tra Irma Brandeis e il poeta il fato e la luminosità si fondono. Commuove sempre, almeno mi commuove sempre, il modo in cui Montale cinge Irma con quel verso dantesco, nella Primavera hitleriana, delicatissimo:
Guarda ancora/ in alto, Clizia, e la tua sorte, tu/ che il non mutato amor mutata serbi,/ fino a che il cieco sole che in te porti/ si abbacini nell'Alto e si distrugga/ in Lui, per tutti.
Riscontriamo in questi versi il sigillo dantesco, tu che il non mutato amor mutata serbi, vale a dire che l'immutabile è amare, mentre tutto si corrompe; ci troviamo qui in ambito letterario; la scoperta dell'arcano di uno studioso di Montale, Marco Sonzogni, congiunge il fatto biografico, l'oggetto reale, al gesto letterario, metaforico. Montale per sigillare un rapporto passionale ma altrettanto impossibile, visto l'incombere di Mosca, cioè Drusilla Tanzi, futura moglie del poeta, promette a Irma-Clizia un amuleto, un pegno del suo immutato amore. Sonzogni ha trovato quell'amuleto:
Accanto alle carte di Clizia, accanto ai faldoni di varia grandezza notai che c'era anche una piccola scatola, di quelle che si usano per spedizioni postali, con riportata la scritta in inchiostro nero" Stationary", cioè cancelleria.
L'amuleto descritto da Sonzogni stava in questa scatola ed è un pendaglio in bronzo a forma di figura umana stilizzata utilizzato come strumento da toeletta: un cosiddetto "nettaunghie", d'epoca etrusca, inviato dal poeta ad Irma tra il 1934 e il 1935. Per Sonzogni è interessante, soprattutto, reperire dentro le poesie di Montale l'importanza dell'amuleto, dell'oggetto salvifico, l'impronta del sortilegio al fine di prolungare la magia della parola. Elevando a pienezza letteraria una vicenda biografica, non si può non evidenziare che per un anno, dal 1938 al 1939 tramite un cospicuo epistolario, Montale avesse prospettato ad Irma un imminente cambio di rotta che potesse finalmente dare inizio a una vita insieme, cambio di rotta che non avvenne. Eppure, quale donna può vantare un tale sfoggio di amuleti? Quello reale e quello letterario, che sancisce il senza tempo di un amore, provato da Montale con una intensità ineguagliabile rispetto a tutti gli altri incontri.
Perché per Montale è importante l'amuleto per sancire l'amore per Clizia? C'era una distanza sia geografica (il poeta in Italia e Irma Brandeis in America) che emotiva, affettiva da colmare. Al pegno Montale affida una serie di funzioni: presenza, protezione, promessa e il nettaunghie ricopre tutte queste funzioni. Montale è un maestro del correlativo oggettivo: l'oggetto, in quanto tale, è simbolo concreto di qualcosa che sfugge, che svanisce. E può anche essere la manifestazione, più o meno duratura, di un mistero, di un segreto, o di qualcosa che altrimenti resterebbe di difficile comprensione. All'interno della propria poesia Montale presenta una serie di oggetti come preziose chiavi di lettura, anche fortemente personali ed intime come il pegno. A questo oggetto, Montale affida una funzione molto precisa, molto reale, molto chiara, molto personale.
Ma ora squilla il telefono e una voce/ che stento a riconoscere dice ciao./ Volevo dirtelo,aggiunge, dopo trent'anni./ Il mio nome è Giovanna, fui l'amica di Clizia/ e mi imbarcai con lei. Non aggiungo altro/ né dico arrivederci che sarebbe ridicolo/ per tutti e due.
Si chiude così Interno/ Esterno, una delle poesie presenti in Altri Versi, raccolta terminale dell'opera in versi di Montale che Gianfranco Contini, licenziando l'edizione critica, presentò come "novità clamante" e "non inferiore alle sue precedenti". Questo testo appartiene ad un gruppetto di poesie dedicate a Clizia scritte tra il (1933- 1938) anni che videro il poeta e Irma Brandeis in un'intensa storia d'amore e poeticamente feconda. Tra i migliori dell'ultimo Montale, questi versi cliziani, decisamente diversi dai Mottetti (ricordano piuttosto gli xenon di Satura) non ne sono meno importanti, anzi forse più espliciti perché al meglio esprimono la quotidianità del rapporto tra il poeta e la sua musa americana, Irma Brandeis.
L'opera creativa di Montale, per sua stessa ammissione, (" io parto sempre dal vero, non so inventar nulla" ; "sono un poeta che ha scritto un'autobiografia poetica") è strettamente legata alla sua esperienza personale e quindi alla componente testuale del ricordo. Interno/ Esterno è un esempio del processo compositivo montaliano in cui l'elemento mnestico è presente, infatti in questa poesia la catena del ricordo si esprime nell'assenza-presenza di due figure femminili in una serie di spazialità sospese, appunto, tra interno ed esterno: da Milano a Milano passando per Firenze, Genova e New York. Il primo tempo è interno: Milano (appartamento del poeta) ma anche Firenze (il "Gabinetto Vieusseeux", l'abitazione di Irma Brandeis a Firenze, "la pensione Annalena").Nei versi di apertura Montale ricorda infatti i "derilanti abissi/ di Meister Eckart o simili" che aveva percorso insieme a Clizia attraverso la lettura. E tale amore tra il poeta e Irma a me e al lettore non può non ricordare un famoso verso dantesco: "noi leggevamo un giorno per diletto/ di Lancillotto come amor lo strinse....". I ricordi del passato si fissano e fuoriescono in una dinamica quasi razionale, in cui vige il rapporto causa- effetto e che appare emotivamente neutra ("E' perciò che ti vedo"; " Non aggiungo altro / né dico arrivederci perché sarebbe ridicolo/ per tutti e due" ). Il secondo tempo è esterno: Firenze e Genova. Montale ri-vede Clizia e ri-scrive di lei. Siamo di fronte ad una doppia epifania. Nella prima immagine, infatti, è lontana: si sta imbarcando per tornare negli Stati Uniti e si volge indietro, silenziosamente, per salutarlo. Potremmo cogliere il tema stilnovistico del saluto ed anche "sonoro" in quel "ciao" pronunciato da quella persona che si presenta al poeta come l'amica di Clizia. Nella seconda immagine, invece, Clizia è vicina: è accanto al poeta e legge con lui, guida intellettuale quindi e non solo musa salvifica. Questa opposizione, tristemente simbolica, delle difficoltà che minarono la relazione tra Irma ed Eugenio, è annullata nel locus poetico del testo. Agente di riconciliazione è sempre il ricordo: in quanto "pezzo di eternità" si colloca "fuori dal tempo" e fuori dallo spazio. In poesia dove le coordinate sono fluide, una condizione tipicamente montaliana, la verità "vagola" sospesa tra assenza presenza, tra realtà e visione, tra temporalità e eternità: tra un al di qua e un al di là di cui l'oceano e "l'odore d'etere non di clinica" sono potenti correlativi sul piano fisico e metafisico. Il terzo tempo si apre con l'avversativa "Ma": dopo il ricordo del passato si torna alla realtà del presente. L'avverbio temporale "ora" ha anche una valenza spaziale "qui": siamo quindi di nuovo nell'appartamento milanese del poeta e nel 1976. Clizia è ancora al centro dei pensieri del poeta: indirettamente, mediata dalla voce dell'amica.
Una relazione passionale quella tra Irma e Montale, nonostante la lontananza ed il trascorrere del tempo, solo così si comprendono le parole quasi illeggibili di un Montale ormai anziano: ("Irma sei ancora la mia dea,/ la mia divinità. Rendo omaggio prima di tutto a te, / per me. Perdona per come scrivo./ Quando, come ci incontreremo? Ti abbraccia il tuo / Montale"). E' Clizia stessa a datare questo biglietto 15 giugno 1981. Questo biglietto riporta entrambi al 1938, all'affrettato saluto in quella tarda estate, 25 agosto; Irma scrive nel suo diario: "...arrivati al treno appena in tempo e prima che potessimo scambiarci uno sguardo il treno era partito...". Anche Montale racconta questo convulso congedo e lo fa a modo suo nel mottetto: "Addi, fischi nel buio, cenni, tosse" che chiude con una domanda: "...Presti anche tu alla fioca/ litania del tuo rapido quest'orrida/ e fedele cadenza di carioca?".
Nel commento di questi versi De Robertis parla di "infelicità del dirsi addio". In là negli anni, vedovo, fragile, Montale decide che è arrivato il momento di rivedere Irma, di dirsi ancora addio, di persona. Dall'altra parte dell'Oceano Irma non ha mai smesso di pensare a lui. Una lettera datata il 4 maggio 1981, unisce ancora Milano a New York nel ricordo di Firenze, ed è una commovente testimonianza di quanto Irma Brandeis avesse sempre sperato di rivedere Montale e di quanto vicini a rivedersi, finalmente, fossero arrivati. Una telefonata però fa saltare tutto. In data 13 settembre 1981 Clizia annota nel suo diario: "Telefonata da Glauco C. Montale è morto". Anni dopo, tra i fogli lasciati da Irma uno appare significativo: spiega quanto le sia successo scegliendo questi versi del Paradiso: "Tutti quei morsi/ che posson far lo cor volgere a Dio", versi che aveva acutamente commentato nel suo libro sulla Divina Commedia. Montale citò questo libro nella sua celebre relazione finale al Congresso per il VII centenario della nascita di Dante, porse i suoi saluti, citando apertamente il nome dell'autrice, come "quanto di più suggestivo" avesse letto "sull'argomento della scala che porta a Dio". Era il 1965 e di "I B " cui erano dedicate le Occasioni non si sapeva ancora nulla.
La speranza di pure rivederti
m'abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d'immagini,
ha i segni della morte o del passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
Montale: tutte le poesie edizione Mondadori.
Critica su Montale in "Una lunga fedeltà" di Gianfranco Contini.
Eugenio Montale. Profilo di un autore di Annalisa Cima e Cesare Segre.
Dedicato a Montale. Contributi di Rosanna Bettarini, G. Contini, D. Isella.
Montale Sentimentale di Ficara.
Appunti sul "Taccuino"del 1926 di Rosanna Bettarini.
Anelli del ciclo di Arletta nelle Occasioni di AAVV.
"Occorrevano troppe vite per farne una..." edizione critica delle poesie di Montale.
Le "Occasioni" e "La bufera e altro" di De Robertis.
L'ultimo Montale di R. Bettarini in Critica della Letteratura Italiana.
Tracce di Anna, la prima ispiratrice di Montale di P. De Caro.
La casa dei doganieri e altri versi di T. Zanato.
Lettere a Clizia da parte di Montale di R. Bettarini.
L'occasione di un amore perduto in Critica della Letteratura Italiana di R. Bettarini.
Analisi dei Mottetti di G. Contini.
"Il guindolo del tempo" di Marco Sonzogni.
"La speranza di pure rivederti"... Clizia, Montale e l'impossibilità di dirsi addio di M. Sonzogni.
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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