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‘È quello che finirò per fare’ ella disse con una certa teatrale decisione; ma le pareva di recitare una parte falsa e ridicola.
Scritto nel 1929, Gli indifferenti nasce dall’intenzione di Moravia di fondere la tecnica del romanzo a quella del teatro sfociando invece in un classico romanzo realista, tra descrizione e osservazione del reale, e creazione di personaggi tipici. In tale contesto, la parola ‘tipici’ va interpretata alla maniera luckasciana, ovvero come la creazione di personaggi universali, portatori di valori e quindi autentici; da questa definizione - che non ha l’arroganza ma solo la necessità di esaurire qui la discrezione del ‘tipico’ - è facile andare con la mente ad un personaggio che ha le stesse caratteristiche di quello del romanzo realistico: l’eroe tragico.
L’eroe tragico, per permettere al pubblico di identificarsi con lui, e procedere quindi a fargli vivere di riflesso l’esperienza catartica che rappresentava lo scopo stesso della tragedia, doveva essere un uomo medio non troppo virtuoso né troppo malvagio, capace di contenere in sé e successivamente esternare, tramite le sue azioni, cioè tramite le sue scelte, tutta l’umanità: un compito non facile, ma nemmeno impossibile. Espediente della tragedia fu di creare accanto all’eroe la sua colpa, il suo errore; così già alla sua nascita egli era macchiato, condannato a sbagliare, a non considerare in modo corretto le conseguenze delle sue azioni, insomma condannato a fare la scelta sbagliata.
Con la tragedia l’errore diventa necessità, e il dramma tutto esistenziale è racchiuso nello scontro continuo tra la libertà e la necessità, tra libertà di scegliere e la necessità di sbagliare. E quando si sbaglia si paga. Questa era la vera tragedia, questo ciò che si voleva rappresentare: la condanna di essere ciò che siamo.
Ma gli parve che il suo atteggiamento fosse pieno d’una ridicola e fissa stupidità simile a quella dei fantocci ben vestiti esposti col cartello del prezzo sul petto, nelle vetrine dei negozi.
A differenza dell’eroe tragico, l’antieroe moraviano rifiuta costantemente di riconoscersi e giudicarsi, mancando di quell’autocoscienza luckacsiana ma possedendo nell’intimità della sua anima l’oscura consapevolezza che tutto ciò che lo circonda è costruito, finto, falsato dalla società che impone regole, costumi e modi di essere. Un teatrino preparato dalla storia appositamente per la sua messa in scena, dove ogni gesto o parola è la ripetizione infinita di un copione che non può essere cambiato.
Così i personaggi si trovano ad essere burattini che disprezzano i loro fili ma che non fanno nulla per staccarsene, la loro anima rifiuta la realtà, il loro cuore ha paura e ogni loro moto vitale s’infrange su di essa, ogni fiamma di desiderio viene spenta dal meccanico gioco delle passioni, in fondo sempre uguali.
Un personaggio così costruito non può certo sfuggire all’occhio accorto del critico che subito ha visto nascere in esso una delle figure letterarie tipiche del 900: l’inetto; difatti Michele, uno dei protagonisti della storia, incarna alla perfezione quella miscela implosiva di voglia di vivere e scuse per non farlo, di atti eroici e pistole senza proiettili. Tanti folli e bellissimi desideri che s’infrangono nella formula ‘avrebbe voluto’; l’atto viene a mancare, non c’è più azione, solo un rifiuto ostinato e ostentato, un odio falso quanto la realtà che può sopravvivere solo nell’indifferenza.
Michele e Carla, i due figli di una famiglia borghese, sono così costretti ad adattarsi, ma mentre in Carla vediamo lentamente spegnersi quella forza vitale, scivolare via ogni sogno o speranza di differenza tanto da arrivare a somigliare alla madre e dunque simbolicamente a portare a termine l’adattamento, Michele è tutto l’opposto: la parabola di un adattamento mancato, di una volontà presente ma debole, di quell’animo romantico catapultato nel tempo dell’alienazione e del potere; un personaggio fuori dal suo tempo.
Dove erano l’indignazione, il risentimento che aveva immaginato di provare in presenza del suo nemico? Altrove, nel limbo delle sue intenzioni
L’opera assume la forma di un rito di iniziazione corredato dal solito cerimoniale sessuale; un'niziazione portata a termine da Carla proprio attraverso l’esperienza sessuale con Leo, emblema della società borghese e amante della madre di Carla, che da squallida avventura diventerà istituzione, cioè matrimonio. La volontà di Carla è ormai legata, imbavagliata e messa in cantina, e se qualcosa ancora palpita questo non è il cuore ma la consapevolezza di aver perso la guerra, il triste riconoscersi nella propria madre quando ogni fibra del tuo corpo sperava di non fare la stessa fine. La guerra è perduta, e non ci sono prigionieri.
E poi c’è Michele che vorrebbe e non fa, che dispensa sorrisi finti, distorti, che maschera e avvolge, che vorrebbe tanto la tragedia, l’atto, la fine, ma non è in grado di perseguirli. Se è vero che lui ha resistito, non si è adattato, non si pensi tuttavia che abbia mosso rivoluzione: perché non ne è in grado, la sua volontà muore lì dove inizia la realtà. Michele incarna in ogni suo aspetto di clown piangente l’alienazione umana, l’incapacità di costruire con tutto ciò che circonda rapporti autentici, l’incapacità umana di poter comunicare; quando non accettiamo le regole del gioco, siamo tagliati fuori e così Michele che non accetta il gioco sessuale dei soldi, del potere, non accetta il gioco della trasformazione da indifferente a partecipe, da ragazzo ad adulto. Egli non vuole crescere, non vuole essere come loro, non vuole partecipare alla realtà e in particolare al perpetrare, attraverso le regole e quindi attraverso il gioco, quella realtà malata al midollo che intossica l’autenticità (e qui ritorna il ‘tipo’ luckacsiano) di ogni rapporto.
Non esistevano per lui più Fede, sincerità, tragicità; tutto attraverso la sua noia gli appariva pietoso, ridicolo, falso; ma capiva la difficoltà e i pericoli della sua situazione; bisognava appassionarsi, agire, soffrire.
In questo passo appare evidente come Michele si caratterizza e differenzia dagli altri personaggi del romanzo per la sua consapevolezza, e dunque per la sua capacità critica nei confronti della realtà. E come sempre, la consapevolezza muove alla crisi: Michele sa benissimo che nella realtà gli atti eroici di resistenza o di rivolta hanno perso ogni loro valore perché anch’essi finirebbero per trasformarsi in falsi, così l’impossibilità dell’agire e dunque della tragedia, diviene per Michele la perdita del contatto con il reale, il simbolo dell’alienazione che un uomo morale è costretto a subire in un mondo immorale. La nostalgia dell’azione diventa la nostalgia della propria immagine ideale, di ciò che si sarebbe potuto essere se..., una nostalgia che si esprime in rimpianto dei tempi passati quando si pensava di meno e si agiva di più , cioè di quel tempo romantico in cui l’uomo era ‘ispirato’.
E seppur nostalgico e potenzialmente ispirato, Michele deve vivere con la sua coscienza, con la sua consapevolezza e le sue crisi, non può agire, non può cambiare la realtà, bloccato in un sol moto Michele sa che deve resistere e che deve essere una resistenza morale che sfugga al gioco del vizio, del sesso, del potere, che non si lascia corrompere da quel gioco così squallido quanto attraente, come d’altronde è l’esperienza erotica stessa.
Dunque quale può essere quella resistenza morale e umana che nulla spezza? L’indifferenza.
L’indifferenza diventa strumento etico, morale... l’unica possibile: per non perdere il gioco basta non parteciparvi.
Marzia Samini (21/05/1992) ha studiato presso il liceo umanistico Vittoria Colonna per poi prendere la facoltà di Lettere all'università Roma Tre. Si è laureata con una tesi su Musil e la sua opera I turbamenti del giovane Torless e qui continua il suo percorso universitario e letterario.
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