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ORAZIO, EPISTOLA I, 11 "A Bullazio" - Cure alternative

di Isabella Fantin

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EPISTOLA I, 11 “A Bullazio”

La lettura di questo testo di Orazio, corredato da un commento divulgativo, è rivolta a tutti coloro che NON SONO MAI CONTENTI di se stessi, di quello che hanno e di dove si trovano. MAI. Tanti ne ho sentiti durante la segregazione da Covid, altrettanti ne ho conosciuti prima in tempi Covid free.

In cerca di tutto, non trovano niente. E quando trovano ciò che cercano, spostano subito altrove l’interesse in un moto perpetuo. Mi ricordano, al contrario, i cavalieri ariosteschi che incappano spesso in ciò che non cercano: trovando altro da ciò che cercano, però, mettono in moto la macchina narrativa con soddisfazione di grandi e piccini. Torno al punto.
Mi rivolgo alla categoria di quelli che a Milano chiamano ‘malmostosi’, una versione non medicalizzata del depresso.

Prima di ingollare Prozac, confezione e bugiardino compresi – rimanendo nell’ambito del politicamente corretto – cosa vi costa leggere queste righe? Rifletterete sul rovello che vi affligge. Vi sentirete meno soli. Farete una scoperta inaspettata.  E Orazio è una bella compagnia.

 

Breve presentazione del testo

Le “Epistole”, ultima opera di Orazio scritta intorno al 20 a.C. in età Augustea, sono lettere in versi indirizzate alla cerchia di Mecenate. La data di composizione ci permette di capire il mutamento di rotta della bussola esistenziale di Orazio. Alla soglia della vecchiaia, sentendosi forse prossimo alla fine, traccia un bilancio conclusivo non soddisfacente, perché l’immagine che il poeta latino vuole dare di sé nel testo in esame è quella di un uomo inquieto, ossessionato dallo scorrere del tempo, smanioso di agire, incapace di farlo.

 

“Epistola a Bullazio”

Come ti è parsa, Bullazio, Chio e la famosa Lesbo, l’elegante Samo e Sardi, reggia di Creso, Smirne e Colofone? Più belle o più brutte della loro fama, o tutte misere al confronto del Campo Marzio e del Tevere? Forse una delle città di Attalo corrisponde al tuo sogno? O per sazietà di mare e di viaggi ti piace Lebedo? Sai bene com’è Lebedo: un villaggio deserto più di Gabi e Fidene; eppure là vorrei vivere, dimenticandomi i miei e sperando che mi dimentichino, e guardare lontano da terra la furia del mare. Ma né chi va da Capua a Roma infangato e bagnato di pioggia, sarà contento di vivere nelle locande, né chi è infreddolito può credere che bagni e stufe siano il presupposto esclusivo di una vita felice. E se l’Austro violento ti ha sballottato in alto mare, non per questo, passato il mare Egeo, vai a vendere la nave. Per chi è integro, Rodi e Mitilene giovano tanto quanto il mantello nella canicola o il grembiulino nella neve, d’inverno il Tevere o il camino in estate. Fin che è possibile, e la Fortuna conserva un volto benigno, lodiamo pure Samo e Chio e Rodi, ma restando a Roma. Ogni ora che un dio ti concede benignamente, accettala con mano grata, e le tue gioie non rimandarle all’anno prossimo, per poter dire, dovunque ti trovi, d’avere vissuto volentieri, perché, se è la saggia ragione che disperde le angosce, non un luogo che domini vaste distese di mare, cambiano cielo e non animo quelli che corrono il mare. Ci tormenta un’inerzia inquieta; con navi e quadrighe cerchiamo la felicità: ma è qui quello che cerchi, anche ad Ulubra se non ti vien meno la pace dell’anima.

 

Nelle pieghe del testo

Orazio chiede all’amico Bullazio se le isole dell’Egeo e le ricche città dell’Asia Minore, sotto la dominazione romana, che questi ha visitato in modo quasi febbrile, come dimostrato dalla rapida enumerazione dei luoghi in oggetto, siano più belli di Roma, gli siano piaciuti e quanto.
Chiede se, dopo tanto viaggiare in lungo e in largo, non sia preferibile ritirarsi in un luogo modesto e appartato. Forse rimanere a Roma è la soluzione migliore.
A questo punto Orazio enuncia ciò che gli sta a cuore: è l’animo e non il luogo a fare la differenza perché quando l’animo è sereno spostarsi non serve. E’ dentro di noi che dobbiamo costruire l’equilibrio emotivo. Questo è il senso del topos della mutatio loci che vanta una lunga tradizione letteraria e filosofica.
Nell’epilogo della lettera Orazio arricchisce la sua riflessione con il motivo della strenua inertia tradotta nel passo proposto con ‘inerzia inquieta’. Di cosa si tratta? La faccenda diventa interessante... Con questa espressione Orazio definisce un malessere interiore: un contraddittorio passare dall’agitazione all’apatia, una ‘malinconia agitata’ o un ‘torpore ansioso’ o un’‘accanita indolenza’ o ancora una ‘noia spossante’ in base alla sensibilità letteraria del traduttore.
Il cortocircuito ossimorico strenua inertia indica l’incapacità di portare a compimento un’azione, unita a smania di agire. Il risultato è la paralisi del soggetto cui si accompagna una componente nevrotica secondo l’interpretazione di Biagio Conte che condivido appieno.
Anche nell’epistola dedicata a Celso, Orazio riconosce che una sorta di depressione ansiosa lo rende incapace di muoversi e di stare fermo.

 

Rilievo conclusivo

Mi congedo riportando alcune informazioni tratte da un saggio del prof. Bettini, docente presso l’università di Siena, che chiudono con la forza di un sigillo questo intervento tra il serio e il faceto.
Nella cultura Romana arcaica la depressione era la dea Murcia che rendeva l’uomo murcidus ossia estremamente pigro ed inattivo. Per contrastare il malefico influsso di questa divinità minore, l’individuo poteva rivolgersi a una sorta di antidoto rappresentato da due altre divinità: Stimula e Strenia che spingevano rispettivamente ad agire e ad avere coraggio come suggerisce la loro etimologia.
E’ questa la scoperta inaspettata! I Romani conoscevano la depressione. Ignorando però, a mio parere, che: “Muoviti! Datti una mossa!” è l’esortazione meno efficace per chi soffre del male oscuro.

Christian Hopkins Depression Photo Series

 

Isabella Fantin è nata nel '61, abita a Milano in piena movida da tormento notturno. Una laurea in Cattolica in Lettere moderne. Docente di lungo corso, vaglia nuove rotte. Il tempo per lei è il vero lusso. Legge da sempre. Conduce una vita anonima. Le piace ricordare una frase che ripete sempre ai suoi studenti: leggere insegna a vivere. Ci crede anche lei.





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