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Patrioti e scrittori del Risorgimento:
Su Raffaello Giovagnoli e alcune sue opere

di Antonio Lagrasta

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Raffaello Giovagnoli (1838-1915), scrittore, giornalista, patriota, garibaldino, politico, parlamentare nel Regno d'Italia per cinque legislature. Partecipò con i Cacciatori delle Alpi al tentativo di presa di Roma, alla battaglia di Mentana-Monterotondo nel 1867 dove perse la vita il fratello Fabio.

 

Vorrei esordire con una frase di Maria Corti, grande critico della seconda metà del secolo scorso ed ella stessa narratrice, che mi ha colpito molto ed emozionato:

Vi è una stranezza per cui spesso negli studi letterari ci si occupa di ciò che è già noto, sicché la letteratura resta abitata anche da fantasmi ai quali urge ritrovare corpo e voce.

[M. Corti, Nuovi metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano 2001 p. 9; anche se il saggio è orientato all’analisi del rapporto edito/inedito e alla ricerca di alcune costanti in un determinato autore, la frase citata, nel nostro contesto, sembra adatta ad esprimere più che un rimprovero nei confronti degli estensori dei manuali, una sorta di rimpianto per un più ampio riconoscimento del valore dell’opera complessiva di R. Giovagnoli]

Purtroppo anche nei manuali di letteratura più curati non vi è traccia di Raffaello Giovagnoli  e delle sue opere, perché considerato un minore; è quello che succede anche alla scrittura delle donne, pur di grande rilevanza; infatti tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento sono decine e decine le scrittrici (a stento si trova citata Sibilla Aleramo).
La critica che chiamaremo in maniera generica “classicistica” infatti tutta intenta a rinvenire nelle opere esclusivamente pregi letterari ed estetici, trascura altri fenomeni che sono di grande interesse e anche in opere di grande dignità letteraria. E’ come se la separazione netta tra artisti e pubblico, cioè tra intellettuali classe-colta e popolo nazione, individuata da A. Gramsci nei  Quaderni del carcere si ripresentasse come nuova separazione tra critica e pubblico, tra storici della letteratura e lettori.

E invece molti sono i meriti letterari e non di Raffaello come autore, produttore e organizzatore di cultura. Oltre ad autore di romanzi e drammi Raffaello è stato anche presidente della Società dei Drammatici e Lirici; molti sono stati gli interventi come parlamentare a favore della scuola e degli insegnanti di cui denunciava le miserevoli condizioni materiali di vita; si è accostato al cinema allora nascente e al suo interno ha operato come sceneggiatore del suo romanzo più famoso, Spartaco.

Per fortuna a partire dalla seconda metà del Novecento alla critica dei classicistica si è affiancata una critica dei “piani bassi” ispirata alle cosiddette estetiche della ricezione (H. R.Jauss soprattutto - H.R. Jauss, Perché la storia della letteratura? Guida Editori), un critica cioè che non si occupa più soltanto dei pregi artistici dell’opera letteraria ma di questa valuta l’efficacia nel tempo dal punto di vista della ricezione e cioè  di come l’opera è stata apprezzata e continua a sopravvivere grazie ai lettori, ai suoi fruitori.

Da questo punto di vista un romanzo come Spartaco ha molte ragioni da vendere: è stato e continua ad essere tradotto in diverse lingue; ha avuto riduzioni cinematografiche.

Evidentemente ci troviamo davanti a una monumentale opera dal punto di vista storico abbastanza fedele, che presenta alcuni pregi letterari e in cui è presente tutta una serie di ceselli, che vanno dalla descrizione dei costumi per arrivare perfino alle abitudini alimentari, inseriti con abilità in modo non solo da soddisfare la curiosità, ma da consentire al lettore di immergersi progressivamente in un’epoca.

Fra l’altro, questo risultato è ottenuto in modo mai greve, tanto che il romanzo, se non fosse per la sua notevole lunghezza, si leggerebbe tutto d’un fiato.

E Spartaco può essere considerata un’opera di genere, quello avventuroso-storico, come le altre due opere, ristampate a cura dell’Università Popolare di Monterotondo,  Il marchese del Grillo,  riconducibile alla tradizione del genere comico-popolare e Gaetanino che potrebbe inserirsi (con una certa audacia interpretativa) nell’antica tradizione degli exempla ma in negativo… poi vedremo meglio.

Di solito le opere di “genere” vengono considerate prodotti di scarsa qualità dalla critica “classicistica” perché oggetti di consumo… come se il consumo fosse irrilevante ai fini della trasformazione e dell’evoluzione del linguaggio della letteratura.

Ma grazie alle ricerche di grandi critici come Maria Corti, Cesare Segre ed altri, l’opera è vista come un tassello che fa parte del sistema letterario, in continua evoluzione, formato certamente dall’autore ma anche dai critici, dagli editori e infine e soprattutto dal pubblico, dall’insieme insomma delle istituzioni letterarie.

E il sistema è in evoluzione per l’apporto delle reciproche influenze dei fattori appena citati. Quindi non è che esista un baratro fra le cosiddette opere di qualità e le opere di genere ma un’osmosi continua fino ad arrivare alla conclusione che anche le opere di consumo possono influenzare le scelte letterarie di uno scrittore di qualità.

Le opere di qualità possono influenzare le opere di genere ma queste ultime possono a loro volta suggerire strategie testuali derivanti dai prodotti di consumo come nel caso dei romanzi-pastiche, una sorta di mescolanza di generi diversi.

L’ “autore di qualità” quando si accinge a scrivere deve fare i conti con la tradizione letteraria di appartenenza e se vuole essere originale deve per forza innovare la propria ricerca di contenuto e di linguaggio.

Un “autore di genere” invece si trova immerso nella tradizione del genere con temi e contenuti propri pertinenti ad esempio al genere avventuroso, storico, sentimentale , giallo ecc. L’originalità dell’autore di genere si può configurare non tanto nei temi che sono quasi sempre gli stessi, ma nel modo in cui questi temi  potrebbero essere trattati e cioè nella codificazione: nel tipo d’intreccio, nella messa in lingua, nel suo specifico regime linguistico-retorico.

Prima di ritornare a parlare di Spartaco in maniera più approfondita, vorrei accennare e in maniera molto parziale, ad alcuni punti per me importanti della storia culturale nei primi decenni postunitari che costituiscono il contesto più generale in cui si situa l’attività di R. Giovagnoli.

  • 1866   Pasquale Villari introduce il positivismo nella cultura italiana con la pubblicazione  del  saggio La filosofia positiva e il metodo storico.
    Esponente e interprete delle nuove idee positiviste fu il criminologo Cesare Lombroso il quale prima della sua opera maggiore L’uomo delinquente, aveva scritto piccoli saggi del tipo La rughetta del cretino…
    Nelle sue opere ritorna d’attualità la fisiognomica e comunque lo studio delle correlazioni tra forme ed espressioni del corpo e forme dell’anima.
  • 1860-1880 Si afferma il movimento letterario della Scapigliatura con la sua poetica fondata sulla polemica contro i valori borghesi, sul gusto per il macabro, su forme espressive dai toni accesi ed espressionistici.
    Esce la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1868-71)
  • Dopo gli insuccessi della campagna contro l’Austria e l’episodio di Mentana erano diminuite le speranze d’Italia.
    Con la presa di Roma - 1870 -dopo il crollo francese di Sedan, si era diffusa l’idea di un’Italia “più fortunata che grande.…”.  Aumenta la distanza tra  Francia e Italia e quest’ultima si orienterà verso la Triplice.
  • 1881/1885 Un aspetto molto interessante di questo periodo è costituito dalla nascita della rivista << Cronaca Bizantina >> fondata da Angelo Sommaruga. La rivista rappresentò le tendenze di una certa cultura romana di orientamento decadente. La casa editrice di Sommaruga cercò di applicare i metodi della grande industria alla diffusione della cultura; pubblicò di tutto ma ebbe il merito di stampare opere dei più noti letterati dell’epoca da D’Annunzio, Carducci a Verga e De Amicis. L’impresa editoriale fallì per un processo conclusosi in condanna. (Non ho avuto la possibilità di verificare se Raffaello ebbe rapporti con la casa editrice, comunque è interessante l’apporto dato da Sommaruga alla creazione di un intenso clima culturale).
  • In questi decenni ha grande influenza la scuola storica tedesca. Theodor Mommsen con vari saggi e soprattutto con la sua Storia romana (1854-56) contribuisce alla riproposta del mito universalistico di Roma. Nella filologia grande è l’apporto nel rinnovamento degli studi e del metodo storico di J. G. Droysen che ispirò nuovi metodi e nuove ricerche anche in Italia.  In particolare  il  mito di Roma fu ripreso e trattato nella letteratura, nell’opera lirica, nel balletto e varie opere furono dedicate a figure come Spartaco, le varie Messaline, Caligola ecc.; e questo ispirarsi agli antichi miti di Roma fu dovuto anche all’esigenza di colmare il vuoto dovuto al pessimismo e alla frustrazione dello scarso peso internazionale dell’Italia e contemporaneamente alla volontà di trovare le fondamenta gloriose del moderno stato italiano nella grandezza di Roma antica; insomma in questo fenomeno confluiscono due opposte motivazioni: una pessimistica e una magniloquente.
    E si crea un certo paradosso per cui molti autori che avevano partecipato al Risorgimento (romanticismo) si scoprono neoclassici… Ma eroi ed eroine restano romantici!...
  • Si ripresenta la plurisecolare questione della lingua. G. Carducci (col quale R. Giovagnoli ebbe rapporti stretti) e il grande glottologo Graziano Ascoli  si oppongono alle tesi filomanzoniane di una lingua nazionale imposta (anche con l’invio di maestri toscani…) e propongono il progetto di un’Italia che elabori una lingua unitaria partendo dal suo policentrismo culturale.
    G. I. Ascoli (Lettere glottologiche) da un lato era disposto a riconoscere l'importanza del fiorentino per gli esordi della lingua italiana, ma dall'altro era  convinto che i tempi fossero sufficientemente maturi perché gli intellettuali cominciassero a valorizzare anche le altre parlate, altrimenti essi avrebbero rischiato di compiere un mero lavoro imitativo di un linguaggio estraneo (come era avvenuto nei Promessi sposi). Tanto più che Firenze non era più, come un tempo, l'unico centro culturale della nazione, né era possibile sostenere che il dialetto fiorentino dell'800 fosse ancora quello dei grandi scrittori del '300.
    Dunque ogni lingua, specie se essa viene messa per iscritto, doveva esser degna di studio. La soluzione al problema dell'unità linguistica doveva esser cercata -dice Ascoli- nella maggior diffusione degli scambi e dei contatti tra i parlanti della nazione (unità nella molteplicità). E G. Carducci nella prefazione a Giambi ed Epodi  esercita tutta la sua ironia sul tema:
    Quella dell’unità della lingua o dell’accentramento dei favellari di milioni di pensanti italiani dentro una città sola anzi forse dentro i salotti d’un solo quartiere di quella sola città …sarebbe una…  fissazione giacobina cioè il prodotto di un atteggiamento che mira in teorica a rifoggiare la società senza tener  verun conto anzi con gran disprezzo, delle cose dei fatti, della geografia, della etnologia, della antropologia, della storia, sur un suo modello rigido e stecchito…che tende…poi nell’azione con smaniosa e malaticcia impazienza, e con feroce odio dei vigori e della varietà, ad appianare, a potare, a unificare, a concentrare.

    Un altro acceso antimanzoniano è il verista siciliano G. Verga, che rifiuta nei suoi romanzi di usare un lingua e una sintassi già fatte e collaudate (come appunto nei Promessi sposi), preferendo invece escogitare una sintassi che s'adatti al parlato dei protagonisti (popolari), i quali anche se non usano il dialetto siciliano, parlano come se fossero loro stessi a raccontare le cose ("scrivere parlato"), cioè come se fossero autonomi dalla soggettività dello scrittore. La lingua quindi, non essendo dell'autore, deve necessariamente adattarsi alla sintassi dei protagonisti. Forse la corrente più antimanzoniana di tutte fu la Scapigliatura.
    Tuttavia, nonostante la corrente antimanzoniana fosse di gran lunga più cospicua di quella manzoniana, fu quest'ultima che il governo sabaudo decise di far prevaleree Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica Istruzione. Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica del trasferire i maestri dalla propria regione d'origine in altra di dialetto diverso, al fine d'impedire che usassero il proprio dialetto.

E’ dunque in questo clima che si inserisce la ricerca linguistica di R Giovagnoli in Spartaco, opera caratterizzata da un forte e sorprendente plurilinguismo, da una vera polifonia di toni e di registri, aspetti che meriterebbero uno studio più approfondito.

Spartaco ispirò una sceneggiatura scritta dallo stesso Raffaello da cui nel 1913 fu tratto un film (capostipite di una lunga serie ) con la  regia di E. Vidali; di questo film resta memorabile la sequenza della discesa da un pericoloso dirupo del Vesuvio (allora, in epoca romana, considerato solo un monte), tramite corde, dei gladiatori accerchiati dalle truppe romane. Il romanzo era stato pubblicato a puntate sul quotidiano “Fanfulla”. Come romanzo storico è un racconto avvincente perché è una macchina narrativa tutta centrata sull’intreccio (congiure, colpi di scena, tradimenti, amori impossibili ecc.).

E il giudizio di gusto dei lettori di solito privilegia questo aspetto “meccanico” e poi quello di “qualità”.  Spartaco comunque sembra scritto, per dirla in maniera esplicita, per divulgare le idee di libertà, di giustizia, di eguaglianza. E Raffaello Giovagnoli fa questo interrompendo quell’effetto “oppiaceo” di cui parla Gramsci* [] e dovuto ai processi di intensa identificazione del lettore nei suoi eroi ed eroine, ricorrendo a note che mostrano una profonda conoscenza del mondo romano e una grande erudizione, considerazioni e riflessioni che riportano al presente storico del lettore: si tratta di citazioni con riferimento alle opere di autori  latini (e greci), operazioni di calcolo e di equivalenze tra le somme in sesterzi citate nel racconto e la cifra in lire dell’epoca, commenti apertamente personali dell’autore. E questo modo di procedere induce alla riflessione piuttosto che alla identificazione (che pure in parte si verifica).

E infatti Gramsci considera Spartaco uno dei pochi esempi del genere storico-avventuroso che si pone il problema di colmare la frattura tra scrittori e popolo. Gramsci afferma che se si vuol passare dalla letteratura d'appendice o bassa a quella artistica o alta gli intellettuali devono elaborare un contenuto intellettuale e morale in cui si rispecchino le aspirazioni della nazione-popolo.

Questione del perché e del come una letteratura sia popolare.

(La) bellezza non basta: ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l'espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni più profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d'arte, altrimenti alla letteratura d'arte viene preferita la letteratura d'appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente. *

E Spartaco rappresenterebbe una sintesi tra elaborazione di contenuti intellettuali e morali e artisticità. Vi è nell’opera un’apparente discontinuità linguistica che si rivela invece moderno plurilinguismo. Nel romanzo si alternano tratti di lirismo manzoniano (descrizione paesaggi) a scene di realismo (movimenti quasi cinematografici di folle), ai toni espressionistici e un po’ grotteschi relativi alla descrizione e al comportamento dei personaggi; e quest’ultimo aspetto (gli occhi ad esempio “lampeggiano”, fulminano, “brillano” e così l’analisi psicologica è affidata al rossore o al livido/pallido come cencio…) forse è dovuto a certe soluzioni linguistiche degli Scapigliati (intuizione mia non verificata) o alla diffusione della fisiognomica…

Ho notato che c’è uno scarto nel regime linguistico-retorico-stilistico tra Spartaco e le altre tre opere: L’espugnazione di Monterotondo,Il Marchese del Grillo, Gaetanino in cui prevale una medietà linguistica impegnata in una narrazione piana e altrettanto piacevole.

Diciamo che Il Marchese del Grillo potrebbe rientrare nel genere del comico-popolare. Alcuni episodi sono incentrati su un equivoco linguistico: il marchese invitato dal papa, a sua volta sottoposto alle sollecitazioni di alcuni ambasciatori, a non bersagliare più con pietre ma con frutta gli Ebrei, ricorre al lancio di pigne…e successivamente si giustifica davanti al pontefice sostenendo essere la pigna un frutto…!

Altri  presentano lo schema della “beffa” che Asor Rosa in un saggio sul Decamerone distingue in beffa con scopo e beffa gratuita. L’episodio seguente si rifà allo schema della beffa gratuita: contiene l’occasione, l’ideazione, lo strumento, lo svolgimento, la conclusione con l’annichilimento del beffato. (Il marchese manda più volte nel cuore della notte un’ostetrica a casa di un noto avvocato affinché possa assistere la figlia che sta per partorire…e ovviamente la cosa non è vera e il tutto avviene tra le grida che echeggiano nella notte).

Con una forzatura, farei risalire Gaetanino alla tradizione  degli “exempla”…ma in negativo: se negli exempla  l’episodio funzionava come modello d’ammaestramento, nel caso del nostro racconto il precetto  è quello di arricchirsi con la corruzione e quindi altamente sconsigliato…L’exemplum (che è all’origine della novella) contiene una introduzione che mette in luce la finalità del racconto moralmente edificante, il racconto che contiene una drammatizzazione, la conclusione edificante che spiega il significato morale (ad es. un preciso precetto contro i peccati di gola).Famoso è l’exemplum di quella badessa che scesa nell’orto, non sa resistere alla tentazione di mangiare una fresca foglia di cavolo in cui però si era nascosto nientemeno il diavolo, “El Nemico”; e quindi resta indemoniata e va esorcizzata.
Gaetanino è invece un racconto-“comicizzazione” ma drammatico nei suoi riflessi politici, morali e sociologici in quanto dimostra l’ipocrisia cattolica del fare il male per ottenere il bene (proprio); e per non offendere la sensibilità religiosa dei credenti,  più che cattolica direi curialesca in quanto il meccanismo della corruzione emerge ed è gestito nell’esercizio del potere…costume subito imitato circa un secolo  dopo anche dallo stato laico se consideriamo i vari scandali di fine Ottocento.

Gaetanino è un giovane figlio di un barbiere educato presso le scuole dei Reverendi Padri della Dottrina Cristiana argutamente detti gli Ignorantelli ma assiduo lettore per conto proprio “di quanti libri gli era dato di procurarsi”, che per puro caso entra nelle grazie dell’abate Cappellari, un uomo pigro, debole e amante delle comodità e dei piaceri della gola  poi diventato cardinale e in seguito Papa Gregorio XVI. Del papa  diventa cameriere e segretario Gaetanino il quale con furbizia incomincia a usare il suo ruolo per arricchirsi: “divenne arbitro della volontà del Papa, effettivamente l’arbitro del Governo, quantunque in apparenza, non fosse che un cameriere.”   “…Chiunque avesse voluto conseguire una concessione, un privilegio, una commutazione o diminuzione di pena, un pubblico appalto, una promozione, un favore qualsiasi, non ai ministri segretari di Stato, non ai Cardinali di Santa Chiesa ma doveva rivolgersi a Gaetanino, al quale veniva pagato sempre un premio adeguato al beneficio che, con la sua onnipotente influenza, egli faceva conseguire al postulante.”

Ma l’aspetto comico e paradossale è che queste “attività” di Gaetanino erano incoraggiate dal pontefice il quale gli diceva: “Poco, poco, troppo poco, figliuolo mio: Questa è una grazia che vale assai più e assai meglio di cinquecento scudi: questa è una grazia che ne vale mille almeno, mille ne vale…Sii più esigente e più avveduto per l’avvenire…”
Gaetanino comunque è un bellissimo racconto scritto con eleganza e intriso di un’ironia divertita e divertente che non va mai sopra i toni.

 

* Gramsci scrive a proposito del Conte di Montecristo: <<(...) nel popolo il fantasticare è dipendente da un suo complesso di inferiorità (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male…>> E conclude constatando una separazione netta tra artisti e pubblico, cioè tra intellettuali-classe colta e popolo-nazione. Gramsci imputa questa separazione al lento e incompleto sviluppo della borghesia, a quella mai completata fusione tra scrittori e popolo. In quel "propinare un narcotico" attribuito a Dumas traspare ovviamente un giudizio morale negativo. Quaderno 21 – Paragrafo 5

 

Antonio Lagrasta (Corato, 01/10/1940) è vissuto al nord e si è trasferito nel 1992 a Monterotondo. Laureato in filosofia, ha insegnato nelle scuole statali. Si occupa di narratologia e di critica letteraria e cinematografica. Per alcuni anni ha condotto corsi di scrittura creativa presso l'Università Popolare Eretina con la speranza di diffondere un maggior rispetto della lingua. Continua a collaborare con l'università affrontando temi come "Il mito e le sue riattualizzazioni", "Fare filosofia attraverso i film", "Un'idea dei Balcani".





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