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E’ il 29 maggio 2015, l’anziano ingegnere Ivo Brandani si trova per motivi di lavoro all’aeroporto di Charm el-Sheikh aspettando un imbarco per l’Italia. Il suo volo è in ritardo e nell’attesa, come l’Ungaretti de I fiumi, finisce per perdersi in una ricapitolazione a ritroso delle epoche della sua vita, intervallate da ritorni al presente nel lento fluire delle ore, con il check-in continuamente rimandato: di decennio in decennio riaffiorano episodi privati e pubblici che compongono il quadro di un fallimento esistenziale di fatto coincidente con il degrado e la sconfitta civica dell’Italia repubblicana. Infine, decollato l’aereo, tutto si compie con un’ultima amarissima invettiva sul destino della penisola che scorre diecimila metri al di sotto.
“Si tratta anche di te”, con questa formula araldica salutava lettore il personaggio-uomo di Giacomo Debenedetti (1965), una specie romanzesca già allora in via di estinzione a causa della comparsa di personaggi-particelle (come quelli beckettiani o della neoavanguardia) meglio adattatabili alla nuova letteratura in gara con le coeve teorie della fisica quantistica.
Quelle antiche creature il critico di Biella le aveva lungamente indagate e rincorse attraverso i tanti boschi letterari che si era trovato a esplorare, esse giungevano fino agli homines ficti del modernismo primo novecentesco, un’ultima generazione di personaggi provenienti da ogni parte d’Italia: Vitangelo Moscarda e Alfonso Nitti, Remigio Selmi e Rubé, e poi, allargando lo sguardo oltralpe a Debenedetti appariva l’elegante silhouette dello Swann proustiano, e poco dietro Leopold Bloom a braccetto con la sua inquieta Molly e infine, a chiudere il memorabile corteggio, disegnate a puntasecca, le creature praghesi di un oscuro impiegato afflito da tubercolosi.
Ma quella di Debenedetti era appunto una “commemorazione provvisoria”. In un ipotetico aggiornamento del suo catalogo dovrebbe trovare spazio anche un tardo epigono di quegli antieroi-Belle Époque: Ivo Brandani, protagonista de La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2014), primo romanzo di Francesco Pecoraro di cui sopra si è fornito un sintetico plot.
Epigono? Forse tale definizione non rende giustizia a quest’opera e al suo personaggio principale, che ha attraversato il secolo scorso – esattamente la seconda metà – e ne ha assorbito i succhi intellettuali apparentemente più nutrienti ma spesso delusori e talvolta velenosi (sociologia, psicoanalisi, marxismo…). Per questo l’anziano Ivo (69 anni, uno in meno del suo autore ) appare fin dall’incipit dotato di una capacità di autoanalisi sconosciuta ai suoi giovani predecessori di un secolo prima: è un antieroe affabulante e lucidissimo, conscio della sua inettitudine, e per questo uguale a se stesso di decennio in decennio, senza sviluppo, sia quando si trova a constatare da una posizione di responsabilità il malcostume politico, le infinite camarille dell’Italia senza ideologie dei nostri anni Duemila, sia quando, compiuto il vertiginoso viaggio à rebours, ragazzetto degli anni Cinquanta, deve affrontare la feroce competizione dei coetanei in un rito apparentemente ludico ma in realtà crudelissimo come una partita di pallone in un campetto di periferia. Pavido nei momenti dell’azione collettiva (anche lui come Orazio getta la sua parmula nella battaglia di Valle Giulia, in pieno Sessantotto), Ivo è invece impulsivo nelle situazioni private (si veda il capitolo intitolato Sofrano): in ogni caso l’esito a cui va in contro è fallimentare. In questa presa d’atto la voce narrante alterna la prima persona del monologo interiore a interventi di rettifica o integrazione di un narratore esterno.
Lo stesso Pecoraro ha fornito una chiave interpretativa del suo romanzo nel corso di un’intervista (https://www.youtube.com/watch?v=MrYLRK1sohw): il darwinismo. In effetti per lo scrittore romano la pace non è che una continuazione della guerra con altri mezzi; in ogni ambito sociale, in ogni fase dell’esistenza occorre lottare per affermarsi o quantomeno per sopravvivere, al di là delle ideologie (o religioni) che predicano egualitarismo e condivisione. Ma qui c’è uno scarto ulteriore testimoniato dal Prologo, vera e propria ouverture tragica di un libro che offre altrove anche momenti umoristici e addirittura comici: la descrizione della conquista di Bisanzio da parte dei turchi nel 1453 diventa il paradigma di un mondo in cui oltre la violenza della storia umana esiste una schiera a noi invisibile di microorganismi, insetti, parassiti, batteri impegnati in una ancor più feroce e (paradossalmente) grandiosa struggle for life da cui gli uomini sono spesso ridotti a trascurabili comparse e vittime inconsapevoli:
L’apocalittico contatto di corpi umani in battaglia, lo spargersi dei fiati e dei fluidi corporei, le grandi fetide quantità di feci umane e animali sparse ovunque, fuori e dentro le mura di Costantinopoli, la contaminazione concitata e drammatica di tutti con tutti, furono sicuramente occasione propizia per le moltitudini di parassiti capaci di cogliere il momento adatto al trasferimento da corpo a corpo, tra gli escrementi e il sangue di ogni specie e tutte le altre specie viventi presenti e concorrenti all’evento.
Letteratissimo ma anche faber, Pecoraro – architetto a lungo impiegato al Comune di Roma – si inscrive nell’esigua lista di narratori italiani non limitati al solo orizzonte culturale e linguistico delle discipline umanistiche: come Primo Levi e Gadda (a cui è stato avvicinato forse non del tutto a proposito) possiede l’accesso alle lingue speciali, ai linguaggi settoriali della scienza e della tecnologia spesso del tutto ignorati dai suoi colleghi (si veda per tutti il brano sullo Spitfire) e in questo senso La vita in tempo di pace presenta parti saggistiche alternate con sapienza ad altre di tono più schiettamente – a volte quasi manieristicamente – narrativo: nello sforzo di indagine su se stesso e la propria realtà Ivo fa appello a tutti gli strumenti euristici a sua disposizione.
Un libro sulla memoria e sulla sconfitta dunque, ma Brandani, evocatore del tempo perduto, persegue la sua strategia con modalità differenti rispetto a quelle del Marcel proustiano: niente madeleine per Ivo, il suo passato non emerge come un origami che prende vita se gettato in un vaso colmo d’acqua secondo la celeberrima metafora della Recherche ma attraverso una giustapposizione di immagini in primo piano, come una lunga teoria di finestre del ricordo che si schiudono una dietro l’altra, rivelando l’interno di un edificio dimenticato. Un esempio dalla parte iniziale del capitolo intitolato Il senso del mare:
E’ tardo pomerigio, odori e colori mai provati, mai visto prima il mare. Cioè non da questa prospettiva e da quest’altezza, ma solo qualche volta dalla spiaggia, a filo di battigia, si può dire: onde, acqua verde, grigia, torbida di sabbia, Qui c’è solo l’azzurro intensissimo di una superficie liscia, sferica, che si arresta sul limitare netto dell’orizzonte. L’acqua ha una qualità superficiale diversa, sembra solida, con striature di vento, aree che ci metto un po’ a capire che sono zigrinate dall’aria. L’aria è blu come l’acqua e sa intensamente di mare, porta con sé due o tre sentori forti, strani, al limite del disgusto. Il lezzo del pesce corrotto che sale dalle attrezzerie delle barche da pesca e invade tutto il porto sottostane… L’afrore complesso, trasportato dal vento, d’alga e acqua salata, di bagnasciuga, di cemento incrostato da molluschi, di ruggine all’ultimo stadio.
E il mare, con il fascinoso mistero delle esistenze che vi si agitano, rappresenta per Ivo il polo positivo, il bene, la dolcezza, la vita vera e, posto per annominazione sotto il segno della Madre, si contrappone alla Città di dio (cioè Roma nella toponomastica allusiva adottata da Pecoraro), luogo inautentico, invernale, mortifero su cui si erge la figura tirannica dell’odiato e quasi kafkiano Padre (le maiuscole sono dell’autore).
Il lettore, giunto al termine delle 509 pagine del romanzo, ha l’impressione di essere seduto in quell’aeroporto, di vedere di fronte a sé l’anziano corpulento smaniante ingegnere di cui ora condivide l’intera esistenza, quasi vorrebbe imbarcarsi con lui per seguire fino in fondo il suo destino, e pensando alle figurine fatte in serie di tanta letteratura contemporanei, alle decine di detectives, poliziotti, commissari, ispettori, vicequestori etc. che declinano all’infinito quello che Flaiano chiamava “il tranquillante narrativo”, giudica quasi miracolosa la prova di questo semi-esordiente alla soglia dei settant’anni, e riflette su come il genere romanzo, nei suoi esiti più alti, sia essenzialmente un tentativo di conoscenza attraverso una finzione, e capisce infine il motto di Debenedetti richiamato all’inizio: il personaggio-uomo parla anche di noi.
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