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In quel momento il capitano non metteva in conto la possibilità che nella scomparsa di Nicolosi potesse in qualche modo entrare la moglie: quei motivi passionali, cioè, che per la mafia e la polizia sono, in eguale misura, una grande risorsa
La prima cosa che va detta, prima di qualsiasi altra cosa, su questo romanzo è che questo è un romanzo di denuncia e forse il primo a denunciare pubblicamente ed eternamente lo strapotere mafioso che, già nel 1961, governava e intimidiva la Sicilia.
È in questo romanzo che si delinea l’eroe antimafia, il capitano Bellodi, un investigatore moderno che rovista lo sporco umano e quello delle banche, segue l’odore dei soldi e intercetta e spaventa, e tutto questo sorretto da un pensiero profondo filosofico, letterario, un pensiero imbevuto dei versi di Quasimodo e tanti altri.
Un eroe umano, troppo umano, modello di coraggio, giustizia, uno stampo che ha dato vita ad eroi in carne ed ossa della storia italiana come Falcone o Borsellino: eroi, uomini che si sono nutriti e abbeverati alla fonte del coraggio di questo capitano che con umanità e astuzia riesce a mettere sempre in difficoltà, anche i più omertosi; c’è da aggiungere che il capitano Bellodi fu modellato da Sciascia sulla figura più che reale di un suo amico, ufficiale e e scrittore, Renato Candida.
Un passionale, audace, intellettuale e anti intellettuale, una rivoluzione siciliana che si ribella, mostra, svela tutti quegli ingranaggi che, dalla Sicilia fino a Roma, vengono ignorati, avvolti, resi impliciti; ma Sciascia non è uno sprovveduto e nella rivoluzione si rivolta anche a se stesso, al suo capitano Bellodi, a tutti quegli anti mafiosi che con negligenza sotterrano, spaventano, abbaiano senza mordere.
Ed è appunto nella figura di un cane che si proiettano e identificano tutte queste figure, un cane di nome Barruggeddi:
«Ho capito, disse il capitano, vuol dire Bargello: il capo degli sbirri. Bargello come me: anch’io con il mio breve raggio di corda, con il mio collare, con il mio furore... E ancora pensò di sè: ”cane della legge” e poi pensò “cani del Signore” e “Inquisizione”: parola che scese come in un oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse giá valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta.»
Tra le righe di questo romanzo Sciascia riabilita non solo la figura del carabiniere che esce dalle barzellette per diventare un eroe quasi illuministico (vedi come smaschera e truffa i mafiosi omertosi) ma anche distrugge, seppellisce, tutto l’impianto delittuoso siciliano che ruota intorno, ormai da troppo tempo, al delitto passionale:
cercate la donna, insomma, diceva il giornalista: da buon giornalista e da buon siciliano [...] e invece, pensava il capitano, bisognava non cercare la donna: perché si finiva sempre con il trovarla e a danno della giustizia.
L’omicidio passionale e tanti altri luoghi comuni siciliani ma forse anche italiani, vengono irrisi mentre si mostrano, eppure, anche se dietro un riso, abbiamo e captiamo ancora la loro potenza, la nocività loro tanto quanto quella mafiosa.
Un romanzo che ci racconta chi eravamo e chi siamo, in quanto siciliani ma anche come italiani; una lotta, una denuncia scritta di ogni potere mafioso, un manifesto dell’umanità come dovrebbe essere, come è stata ma solo per poco, una voce che urla parole bellissime perchè la penna di Sciascia vola elegante, profonda, ogni parola è un sasso nel pozzo di cui ancora oggi possiamo sentire gli echi.
Marzia Samini (21/05/1992) ha studiato presso il liceo umanistico Vittoria Colonna per poi prendere la facoltà di Lettere all'università Roma Tre. Si è laureata con una tesi su Musil e la sua opera I turbamenti del giovane Torless e qui continua il suo percorso universitario e letterario.
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