di Reno Bromuro
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8. IDENTITA'
- Sei meraviglioso! - Esclama la donna. - Hai una memoria
elefantiade. Non hai una famiglia? Hai parlato di tutto, meno che di te,
eccetto qualche episodio sporadico della fanciullezza. Chi è, veramente?
Riconosco la voce, il volto anche, ma non so chi sei.
- Giovanni e basta. E tu?
- Anna.
- Finalmente so il tuo nome!
- Ho la vaga impressione che tu voglia andare a Napoli, per morirci. Mi
sbaglio?
- Vado e salutare mia madre, perché mi ritiro in Grecia ad acchiappare,
per quello che posso, il periodo più bello della mia esistenza...
- Un amore?
- Si. Un amore che si chiama Libertà.
- Sbaglio o stai fuggendo?
- E perché?
- Che ne so! Si fugge da tante cose. Dalla polizia, dalla famiglia, da
un amore sbagliato, per esempio.
- Non sto fuggendo, vado cercando...
- Che cosa?
- Mi sento un poco Diogene.
- Ma Diogene non viaggiava in macchina, non si sedeva nel ristorante.
Senza rispondere, Giovanni, china la testa, si alza e fa per uscire perché
ha visto che la donna prende il portafogli.
- Dove vai, vieni qui? Hai detto che sei stato in Grecia
alla ricerca della Libertà?… certo se ci
sei stato durante il periodo dei colonnelli, immagino che libertà
avresti potuto trovare.
Il vino lo ha diventare logorroico, si risiede e parla, parla, parla…
-
Ti porto da tua madre? - Chiese Anna?
- No.
- Ti prego.
- Io ti scongiuro di non farlo.
- Come vuoi. Allora, ritorno alla rotonda di Capodichino,
vado giù a Piazza Carlo terzo, salgo
per Via Foria, all'incrocio giro a sinistra
per via Roma, attraverso Piazza
Plebiscito e sono a via Caracciolo,
è giusto? - Lui sorride. - Però avevi affermato che mi avresti
fatto da cicerone. Non è giusto. È così che mantieni
la parola data?
- L'avevo scordato. A che ora vengo a prenderti?
- Vengo io, dammi l'indirizzo.
- Ti ho scongiurato!...
- Come vuoi. Ti aspetto domani alle dieci, va bene?
- D'accordo.
A Napoli, oltre alla bellezza, cui la natura
l'ha dotata, c'è n'è un'altra costruita dall'uomo fatta
di strade, palazzi e chiese che le danno un volto austero e nobile. Forse
da questo (o anche da questo), nasce l'adagio: "vedi Napoli e
poi muori".
Se ormai, dei primi sorti (fra palazzi e chiese), esiste solo il ricordo
come quello della villa di Poggioreale, ideata
da Giuliano da Maiano, n'esistono ancora tanti altri,
quasi integri quali: Palazzo Cuomo (che oggi
ospita il Museo Filangieri) e di Diomede
Carafa, mentre del palazzo dei Sanseverino
avanza la sola facciata (la Chiesa del Gesù Nuovo).
Ma
la bella tradizione iniziata nei primi anni del XVI secolo, quella tradizione
classica di cui Napoli va orgogliosa, continua nel Palazzo
Gravina, oggi sede della Facoltà di Architettura.
Non dimentichiamo però quelli antecedenti, che sorgono lungo via
Roma (ex via Toledo), come quello di Castelnuovo,
che oggi chiamiamo Maschio Angioino, dimostrazione
di potenza e nello stesso tempo di grazia artistica; e più a settentrione,
quasi a sconfinare col mare aperto, Castel dell'Ovo,
in dirittura della collina di Posillipo, che
dava l'impressione di vivere un bel sogno.
Castelnuovo o Maschio Angioino, il segno più appariscente dell'età
aragonese, fu fatto ricostruire da Alfonso I sulle precedenti
strutture angioine (di cui avanza la bellissima chiesa trecentesca che
si trova nel grande cortile), dall'architetto maiorchino Guglielmo
Sagrera, cui si deve, probabilmente, anche il disegno dell'Arco
di Trionfo: miracolo dell'antologia della scultura rinascimentale,
che va dal Sagrera stesso, che riproduce Alfonso I sul carro trionfale,
a Francesco Laurana, cui si deve la bellissima Giustizia,
da Domenico Gagini a Isaia da Pisa.
In questa ricca e armoniosa celebrazione del trionfo di Alfonso si inseriscono,
nelle porte di bronzo del francese Guglielmo Monaco,
i bassorilievi che tramandano la vittoria di Ferrante
sui baroni fedeli agli Angioini.
Per quanto riguarda le chiese pensiamo che il posto d'onore spetti a quella
di Monteoliveto (o Sant'Anna dei
Lombardi) che, fondata nel 1411, nel corso dei secoli andò
arricchendosi di magnifiche opere di scultura come l'altare
Mastrogiudice di Benedetto da Maiano, il
delicato e poetico presepio di Antonio
Rossellino, il monumento a Maria d'Aragona,
iniziato dallo stesso Rossellino e ultimato da Benedetto da Maiano, le
grandi figure di terracotta che costituiscono il gruppo della Pietà,
di Guido Mazzoni, il cui realismo impressionante è
molto affascinante, nel quale sono evidenti i ritratti di Alfonso I d'Aragona
e del Ferranti.
Ora
attraversiamo questa vastissima piazza Municipio.
Pensa, misura oltre 25.000 mq, abbelliti da aiuole e fontane. Mettendoci
con le spalle al Municipio sembra una grande platea che ha per quinte
il Teatro Mercadante, a sinistra, e il Maschio
Angioino a destra, quasi di fronte l'uno all'altro, e per
scena la Stazione marittima, il mare
e il Vesuvio.
Adesso, dammi la mano, imbocchiamo via Verdi per immetterci in via San
Carlo e andiamo a vedere, se non altro da fuori, il teatro lirico più
famoso del mondo (il San Carlo), la Galleria
Umberto I e Piazza del Plebiscito.
Alla
nostra destra è la Galleria Umberto I. E' stata costruita su disegno
di Emanuele Rocco, dal 1887 al 1890, ed elegantemente
arredata e decorata da Enrico di Mauro. Qui tutti i giorni,
nella tarda mattinata, si danno appuntamento persone dello spettacolo,
vuoi per trovare lavoro, vuoi per scambiarsi pareri critici su di uno
spettacolo visto la sera precedente, oppure "sparlare" del "Critico"
che ha redatto l'articolo sullo spettacolo. Qui si incontravano re e principianti;
qui i ragazzi che vogliono intraprendere la via dello spettacolo vengono
a chiedere consiglio a quelli affermati, o solo quelli che pur non essendo
bravi, come ostentano, lavorano nel cinema o nel teatro con famosissimi
personaggi. Qui qualche giovane pieno di speranze chiede consiglio ad
un maestro di musica sui suoi versi, che dopo qualche tempo li sente cantare
nei teatri, nei concerti e durante la Piedigrotta. Ma c'è ancora
questa manifestazione tanto cara a Don Salvatore Di Giacomo?
Dai,
entra nella Galleria Umberto I ti faccio ascoltare
le mura che parlano…
- Le mura che parlano?
- Sì, ed anche con civetteria e a volte con cattiveria… Avvicinati,
poggia l'orecchio al muro. Senti la voce?
- Dio, che suggestione incantevole, la sento veramente…
Avvicina anche lui l'orecchio al muro: Parla della cravatta di Ferdinando
Russo
"Un giorno, Ernesto Serao, redattore capo de "II
Mattino", ricevètte 'na lettera di
Ferdinando Russo, con la quale gli annunciava che "aveva
passato il Rubicone".
M'ha confidato Oreste Giordano, e l'ha scritto pure nella
biografia di Ferdinando Russo, che l'autore di "'N
Paraviso", con questa frase aveva voluto informare l'amico che
aveva sposato a Bologna, il 15 novembre 1902, la canzonettista, Rosa
Pezzi, in arte Rosa Saxe.
Non l'aveva sposata per amore, ma per "riconoscenza", perché
la cantante, durante una grave malattia, lo aveva assistito notte e giorno,
come soltanto una persona cara può assistere un malato: con dedizione
assoluta. Tornò a Napoli con la moglie. Il connubio, però,
non fu felice. Russo era uno spirito indipendente e non si sentiva monogamo:
di femmine ne aveva avute moltissime e ne voleva ancora! Frequentava i
ritrovi, quali lo Strasburgo, il Corfinio, il Gambrinus, i teatri di varietà
e i circoli dove si giocava d'azzardo. La moglie, che lo sapeva corteggiato
da sue rivali in arte, era gelosissima. I contrasti tra i due, talvolta
clamorosi, erano frequenti. Certe litigate ccà dint''a Galleria,
che stanne tremmanne ancora 'e mmura!
Un giorno Russo s'avvide che un uomo lo seguiva. Era un povero diavolo
non molto astuto messo alle sue calcagna dalla moglie. Finse di non accorgersene.
Un mattino vide che il pedinatore malaccorto indossava un suo vestito
smesso. Quasi ne rise. Ma giorni dopo, allorché s'accorse che il
"segugio" sfoggiava una sua cravatta di pura seta, che non gli
riusciva di trovare da più giorni nell'armadio, diventò
una furia. Si lanciò violentemente sul poveraccio spaventato, e
gridò:
- Chesta cravatta è 'a mia! - Gliela sfilò, lo
fece girare su se stesso e gli piazzò un paio di calci nel sedere.
Pochi mesi dopo, la navicella matrimoniale sulla quale si erano imbarcati
don Ferdinando e Rosa Pezzi, che già ballonzolava su flutti tempestosi,
naufragò miseramente!
- Ma lo sai che più ti guardo e più vedo che gli somigli
come goccia d'acqua…
- Che vulisse dicere? Che pur'j so' ghiucatore e sciupafemmene?
- No parlavo del fisico. Hai qualcosa che ti avvicina a lui, forse gli
occhi grandi e neri, i capelli folti e corvini da saraceno…
- Me vulesse accatta?
- No. Non farei tanti salamelecchi. Te lo direi e basta.
- Picceré, pecché vuò mettere pe' forza 'o dito
'int''a scazzotta d''o prevete?
- Avessi capito una parole!
- Non ti alterare, per piacere. Traduzione: - scandiva le sillabe e ciò
faceva arrabbiare maggiormente la ragazza - Ragazzì, perché
vuoi interessarti per forza dei fatti miei? Evidentemente, c'è
un legame e il mio DNA è simile al suo…
Dai, rilassati, ascolta qualche altra maldicenza, che doppo litigammo…
- Ah, Ah! Ecco che il muro parla ancora di Ferdinando Russo, questa volta
sta litigando con uno iettatore, che significa?
- Uomo malefico. Uno che con la sua presenza porta maleficio a chi gli
sta vicino.
"Ferdinando Russo era, si sa, uomo di vita: donnaiuolo
e giocatore. Nel suo romanzo "I ricordi del fante di picche"
descrive, con pennellate colorite, i circoli che frequentava e nei quali
giocava d'azzardo. Una sera fortunata: vinceva, come non mai! Aveva davanti
un bel mucchietto di banconote. "Questa volta la Fortuna l'ho
ghermita e l'ho messa in ginocchio ai miei piedi!", si diceva
mentalmente. Ma, d'improvviso, udì dietro di sé, la voce
d'un tremendo jettatore, allora sopraggiunto, che gridò: Salutiamo
gli amici! Don Ferdinando, avvertì un filo diaccio
scendergli lungo la schiena; impallidì, e, rivolto verso un amico
che gli era accanto, mormorò, cupo: - Ciccì, so' futtuto!"
- Questo di fronte non è il San Carlo? - Disse la ragazza, cambiando
discorso.
-
Sì, è il Teatro San Carlo, fu
costruito nel 1737 per volere di Carlo III di Borbone,
su disegno di Giovanni Antonio Medrano, ritenuto, come
dicevo, uno dei più famosi teatri lirici del mondo. Nota la bellezza
architettonica e decorativa della facciata e l'elegante loggia che sovrasta
l'atrio. Fu costruita in epoca neoclassica, sembra dal 1810 al 1812, da
Antonio Niccolini. Nel 1816 fu distrutto da un pauroso
incendio e rifatto. Internamente, i palchi sono sistemati in un ordinamento
come era di moda nel Settecento, con al centro il palco d'onore. Questa
sala, disegnata, dal Medrano, e costruita da Angelo
Carasale nel 1737, possiede un'acustica eccezionale, la cui sonorità
fu aumentata durante i lavori eseguiti da Giovanni Maria Bibiena
nel 1841, dopo l'incendio del 1816.
Dai usciamo dalla Galleria e avviamoci verso via Roma. Questa è
piazza Trieste e Trento, la fontana che vedi
è recente, risale agli anni Cinquanta. Ma... attraversiamo. Stai
attenta, che qui le auto sbucano da tutti i lati, non c'è semaforo
che le trattenga. Che bella questa piazza! È Piazza
del Plebiscito con lo scenografico portico che chiude la
vastissima piazza; fu iniziato da Leopoldo Laperuta nel
1810, per ordine di Gioacchino Murat, mentre la basilica
dedicata a San Francesco di Paola, dalla quale si diramano
le due file di colonne: ali del porticato, fu fatta erigere da Ferdinando
di Borbone come ex voto per aver recuperato il suo regno. Iniziata
da Pietro Bianchi nel 1817, fu compiuta nel 1846. I due
monumenti equestri al centro dell'emiciclo del colonnato, quasi abbracciati
dallo stesso colonnato, quello di destra è opera di Antonio
Canova e raffigura Carlo III di Borbone, quello
di sinistra, invece, è opera di Antonio Calì
che perpetua le cavalcate di Ferdinando I.
Entriamo nella Basilica. Come vedi è
costruita a pianta circolare, a imitazione del Pantheon di
Roma. L'interno grandioso e solenne, dovuto ad Anselmo
Cangiano, ha un diametro di trentaquattro metri. La cupola alta
cinquantatre metri è sostenuta da trentaquattro colonne Corinzie
di undici metri, ricche di lapislazzuli ed altre pietre dure. Quelle sopra
il colonnato sono le tribune di corte. L'altare maggiore, severo e imponente,
proviene dalla chiesa dei SS. Apostoli.
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