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Un filo rosso unisce il genio maledetto di Caravaggio a due talenti dell'universo culturale e letterario, italiano ed europeo: Galileo, suo contemporaneo, e Manzoni. Tante, talvolta sorprendenti sono le corrispondenze tra di loro. Coraggiosi innovatori nei loro rispettivi campi, furono capaci di rivoluzionare linguaggi e ideologie, di sfidare privilegi, pregiudizi, censure, autoritarismi. Cultori del vero, del reale e della dimensione visiva, con le loro scelte innovative vollero raggiungere il maggior numero possibile di persone e si dedicarono con passione e rigore a una missione difficile e rischiosa nelle loro rispettive epoche: quella di illuminare le menti, svegliare le coscienze, scuoterle dalla pigrizia o dall'ignoranza, regalare alla gente la conoscenza e la bellezza, e, per dirla con Manzoni, "rendere in questo modo le cose un po' più come dovrebbono essere".
Proviamo dunque a dipananare questo filo rosso e a immergerci in una vicenda appassionante in cui si intrecciano scienza, pittura, letteratura, fede.
PARTE I: Caravaggio e Galilei, "due increduli"
PARTE II: Caravaggio e Manzoni, due coraggiosi realisti
Riportare il sacro a una dimensione di veridicità storica, di fatto umano, di fatto realmente accaduto, in un contesto di quotidianità: il realismo cristiano di Caravaggio è uno dei punti di contatto con un altro grande innovatore della letteratura italiana, Alessandro Manzoni (Milano, 1785-Milano, 1873). Anche lui, come Galileo, illuminista dentro (sebbene come erede e non più come precursore), nemico di privilegi, pregiudizi e superstizioni, anche lui fervente credente che non tace gli errori della Chiesa. Anche lui cultore del "vero".
A dispetto dell'immagine mite e rassicurante consegnataci da certa tradizione, l'autore del romanzo italiano più celebre fu a suo modo un rivoluzionario e i suoi Promessi sposi, proprio come l'opera di Caravaggio, diventò subito un punto di non ritorno per i suoi successori.
La scelta stessa di scrivere un romanzo fu di per sé coraggiosa e innovativa per vari motivi.
Manzoni, estremamente scrupoloso nella ricostruzione dell'epoca del romanzo, appassionato di dettagli, sicuramente conosceva l'opera di Caravaggio, ne doveva ammirare non solo l'attitudine al realismo, l'aderenza al vero, naturale e storico, ma anche il riscatto degli umili, il recupero del messaggio evangelico e pauperistico, la ricerca di un nuovo linguaggio 'democratico'. Sorprendenti convergenze emergono, dunque, anche tra le poetiche di questi due artisti lombardi, pur se separati da due secoli, recentemente oggetto di analisi da parte di Daniela Brogi nel saggio Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci Editore, 2018).
Del resto è innegabile la forza visiva dello stile manzoniano. Ne sono una prova le innumerevoli versioni iconografiche, cinematografiche e teatrali che hanno trovato nell'opera manzoniana un'inesauribile fonte di ispirazione tuttora in vita. È significativo che Manzoni abbia usato il termine "dipingere" in riferimento al suo 'quadro' del Seicento: "Ho cercato di conoscere esattamente e di dipingere sinceramente l'epoca e il paese in cui ho situato la mia storia" (lettera a C. Fauriel, 1823).
E non dimentichiamo che la cosiddetta "Quarantana" era corredata dai disegni del pittore torinese Francesco Gonin, realizzati sotto l'attenta supervisione di Manzoni stesso, che ne scelse personalmente i soggetti. La cura meticolosa dedicata dallo scrittore al progetto grafico è testimoniata da 55 fogli contenenti istruzioni precise e dettagliate per il disegnatore: l'atteggiamento o il gesto dei personaggi, il punto in cui inserire la vignetta, la dimensione dei disegni.
Le illustrazioni di Gonin, volute da Manzoni anche per contrastare le edizioni pirata, costituiscono un racconto iconico strettamente coeso con quello verbale e fanno dell'ultima edizione del romanzo una sorta di graphic novel ante litteram.
Ritorna quindi il ruolo primario della dimensione visiva, altro filo conduttore che lega i tre protagonisti di questa vicenda in cui si intrecciano scienza, pittura, letteratura, fede.
In alcune scene e in alcune vignette gli echi caravaggeschi appaiono particolarmente evidenti. Nella prima immagine del capitolo XXI, quello della notte angosciosa di Lucia rapita e dell'innominato in crisi di identità, la diagonale di luce lunare che penetra dalla finestra nel castello diventa segno premonitore del cambiamento radicale del "terribile uomo", rappresentato in piedi con lo sguardo assorto, abbassato verso il quadrato di luce sul pavimento e un'espressione tormentata e inquieta.
La nostra memoria visiva va alla diagonale di luce che attraversa la tela della Vocazione di San Matteo. Ancora la luce, l'uso teatrale e scenografico della luce, qui anche in funzione simbolica e salvifica, come nella vignetta successiva in cui è Lucia stessa portatrice di luce (nomen omen):
Ma è caravaggesca anche una delle scene più celebri del romanzo, quella della madre di Cecilia, inserita in uno dei capitoli della peste del 1630. Probabilmente Manzoni aveva in mente oppure inconsciamente agiva in lui il ricordo della Madonna dei pellegrini del pittore lombardo quando, prendendo ispirazione da un episodio di cronaca riportato dal cardinale Borromeo nel suo De pestilentia, scrisse quella struggente scena:
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale [...] Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno [...] Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina."
(A. Manzoni, cap. XXXIV)
Nel progettare l'illustrazione, in cui coesistono due immagini di forte intensità espressiva, una d'amore l'altra di orrore, e si contrappongono due punti di vista sulla morte, pare quasi che Manzoni abbia voluto rendere per immagini quanto aveva scritto circa vent'anni prima all'amico francese Claude Fauriel: "una peste che ha dato modo di manifestarsi alla scelleratezza più consumata e più svergognata, ai pregiudizi più assurdi, ed alle virtù più commoventi".
Una comune popolana assurge al ruolo archetipico di "madre" e di "idolo", capace di comunicare un'energia, una dignità, un'umanità che, come era successo tra Lucia e l'innominato, pare quasi convertire a un "nuovo sentimento", pur se solo per qualche attimo, il "turpe" monatto. L'inserviente è costretto a bloccare la rapidità e la meccanicità del gesto già pronto, a fermare lo sguardo, a guardare la donna negli occhi, a riconoscerla come essere umano, come madre orfana della figlia, a vedere il corpicino della bambina attraverso i suoi occhi, non più come un peso, un sacco da gettare, senza rispetto e senza cura, sul carro già ricolmo di cadaveri. Lo sguardo vince sull'indifferenza, sull'assuefazione, l'amore vince sull'orrore, la dignità sulla miseria umana.
La stessa atmosfera dimessa ma commossa circola nella tela di Caravaggio, che stravolge anche qui l'iconografia tradizionale: non più la Madonna in volo con la casa in cui era nato Gesù, trasportata dagli angeli dalla Palestina, ma una donna semplice sulla soglia di una casa povera dall'intonaco sbreccato, con il suo bambino in braccio. Inginocchiati di fronte a lei due poveri pellegrini con le vesti logore e sporche e il primo piano dei piedi sudici, ricoperti di piaghe, che suscitò scandalo: "Fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co' piedi fangosi e l'altra con una cuffia sdrucita e sudicia; e per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, da' popolani ne fu fatto estremo schiamazzo" (G. Baglione, Le vite de' pittori, 1642).
I veri protagonisti del quadro diventano gli umili popolani. La stessa trasgressione Manzoni la introduce in letteratura e nulla sarà più come prima. E il particolare dei piedi sporchi compare nella vignetta del cap. XXXV che raffigura don Rodrigo agonizzante al lazzaretto, a integrare la pur dettagliata descrizione verbale in cui nere sono le macchie sul viso, le labbra, le punte delle dita, senza alcun accenno ai piedi. Lo scorcio del corpo del tirannello con i piedi proiettati verso lo spettatore non può non ricordare l'opera audacissima di un altro pittore proiettato nel futuro, a cui piace sperimentare e stupire: il Cristo morto di Andrea Mantegna, risalente agli ultimi decenni del '400.
Come dice padre Cristoforo a Renzo, "può esser gastigo può esser misericordia". Quei piedi neri in primo piano fanno del nobile arrogante e prepotente un uomo tra gli uomini, solo un uomo di fronte al mistero della morte, che non conosce privilegi né ranghi, non fa distinzioni tra cappe sfarzose e cuffie sdrucite. È così che alla fine riesce a vederlo Renzo dopo l'aspro rimprovero del frate, che a stento riesce a placare la rabbia e i propositi di vendetta del giovane in cerca della sua Lucia, accecato dall'odio e dal bisogno di farsi giustizia da sé: quell'infermo non è più il "furfante birbone", è "uomo creato da Dio a sua immagine", è l'antico nemico da amare e da perdonare.
Daniela Brogi, nell'accostare la scena letteraria della madre di Cecilia al quadro di Caravaggio, nota che il "soggetto è anzitutto lo scambio di sguardi: tra i pellegrini e la Madonna, che scende anch'essa dei gradini, tra la madre di Cecilia e il monatto. Niente e nessuno, nel brano manzoniano come nella tela caravaggesca, sembra essere rimasto indifferente o inanimato".
In ogni epidemia, medica o metaforica, che sia di peste, di virus, di odio o di violenza, se incontriamo l'altro e lo guardiamo, se lo guardiamo negli occhi, riconosciamo la nostra comune umanità. E restiamo umani.
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