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La metamorfosi di Licaone
Iconografia di Dialoghi con Leuco', di Cesare Pavese

di Tiziano Gorini

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La letteratura è un’idea, un’astrazione debolmente definibile, poiché quali che siano i criteri prescelti per definirla (formali, causali o sociali) comunque non possono ambire ad essere oggettivi e perentori; reale invece è il canone letterario, cioè quell'assortimento di testi e contesti, scrittori e lettori, che viene elaborato esteticamente ed ideologicamente da una comunità culturale e si manifesta in istituzioni, attività editoriali, programmi scolastici, ecc. I suoi elementi fondamentali sono i quadri ideologici (come i vari –ismi; Illuminismo, Romanticismo, Verismo, ecc.), gli autori (Dante, Ariosto, Parini, Foscolo, ecc.), le opere (la Commedia, il Canzoniere, I promessi sposi, ecc.), nonché la giustificazione della  gerarchia che lo struttura.

Infatti il canone esibisce opere ed autori maggiori e minori, che sono ritenuti tali certamente per la loro qualità artistica ma pure per l’influenza delle istituzioni e delle tradizioni che decidono dei metodi critici, del ruolo e del merito degli intellettuali, quindi anche della loro rilevanza o irrilevanza; cosicché, poiché  nonostante esso ambisca ad essere pedagogicamente impegnativo e addirittura normativo, tanto da credere di poter informare culturalmente e moralmente la società, ha un carattere storicamente mutevole ed esteticamente controvertibile, può succedere e anzi sovente succede che taluni autori o talune opere soffrano di una sopravvenuta distrazione, magari eccessiva. Ad esempio Francesco Algarotti era famoso nel ‘700 ed ora è quasi dimenticato e la Semana di Folgore da San Gimignano è ormai relegata allo specialismo filologico medievista.

Ci sono dunque opere neglette che, per qualche  motivo che sarebbe utile indagare, sembrano abbandonate ai margini del canone letterario o che addirittura ne sono espulse. Mi pare che ciò stia, ingiustamente, accadendo anche a Dialoghi con Leuco’ di Cesare Pavese. Forse, suppongo, perché richiederebbe lettori come quelli che Nietzsche cercava per sé: ruminanti, disposti a penetrare nei recessi di un testo labirintico, a circuirlo, comprenderlo, meditarlo lentamente.

Poiché ogni volta che si discorre di Cesare Pavese si rammenta questo circostanza, il rammentarla è diventato quasi una banalità, a cui non mi sottraggo: quando, il 27 Agosto del 1950, lo scrittore si suicidò in un camera di un albergo torinese, aveva accanto a sé una copia di Dialoghi con Leuco’, sulla cui prima pagina aveva scritto le sue ultime parole. Perché ce l’avesse non si sa, forse fu solo un caso, ma è ragionevole ipotizzare che invece a quel libro fosse particolarmente legato, perché l’ipotesi è coerente con l’interesse che Pavese aveva per la mitologia, ma anche, e soprattutto, perché può confermare alcuni elementi peculiari del suo stile e della sua poetica; infatti se si guarda all’insieme della sua opera, si può assegnare a Dialoghi con Leuco’ una specifica funzionalità, quella di esprimere il sostrato tematico, ideologico e simbolico di quasi tutti gli altri suoi testi narrativi, che ha informato e stilisticamente determinato, fino ad acquisire una pregnanza tale da richiedere una propria autonoma compiutezza espressiva.

Provo a spiegare ricorrendo ad un elemento autobiografico: ricordo che quando - una vita fa - all’Università, nel corso di “Storia della letteratura italiana contemporanea”,  mi fu presentato per lo studio Paesi tuoi, la prospettiva adottata fu quella allora prevalente del Neorealismo, di cui Pavese, con Vittorini e Moravia, era da ritenersi un precursore, con l’imprimatur di Italo Calvino, che nella prefazione del 1964 al suo Il sentiero dei nidi di ragno aveva indicato quale fonte di ispirazione la triade I Malavoglia, Conversazione in Sicilia e, appunto, Paesi tuoi; ma a me, leggendo il romanzo, realistico non sembrò. Perché c’è la campagna, c’è il lavoro dei campi, c’è quella civiltà contadina rappresentata come un mondo a parte, c’è insomma quel cronotopo idilliaco pronto a dissolversi per l’irruzione e la corruzione della modernità, così come l’ha magistralmente rappresentato Verga, ma il pathos di Paesi tuoi con la modernità non c’entra; a sconvolgere quell’ambiente in cui si manifestano azioni e passioni tremende non è l’avvento dei tempi nuovi bensì proprio lo sprofondare nel passato remoto dei sentimenti ancestrali. Perciò a me più che un racconto realistico parve l’eco della tragedia greca, una rappresentazione moderna del mito antico. D’altronde gli elementi mitologici lo dominano: la dimensione simbolica della natura, la paternità crudele, il sesso incestuoso, la violenza sanguinaria, il sacrificio della donna.

Dunque, sottraendomi all’interpretazione dell’opera di Pavese sub specie neorealistica, quando lessi Dialoghi con Leuco’ mi parve proprio il testo che la confuta, o comunque la delimita, poiché in esso il mito si presenta nella propria essenziale astoricità, nell’ombroso e sofferto palesarsi di una umanità attonita e inquieta in cerca della propria dimensione ontologica ed esistenziale, intrigata nel complesso rapporto tra l’umano, il bestiale e il divino. E questo è ciò che ne fa un’opera unica nella letteratura italiana contemporanea, perfino sconcertante.

Per l’anno, il 1947 (il periodo della rottura dell’unità antifascista), e per il contesto culturale in cui fu pubblicato (il progressivo arroccamento ideologico del Neorealismo), fu quasi una provocazione (da aggiungersi all’altra compiuta come direttore editoriale della casa editrice Einaudi: la “Collana viola”, in cui Pavese ed Ernesto De Martino pubblicarono testi etnologici e psicologici di autori estranei al marxismo e allo storicismo allora dominanti, come Eliade, Kerény e Jung): che nel momento in cui era dominante l’imperativo dell’impegno politico ed intellettuale, a cui peraltro era richiesta una adesione ideologica (cioè che si dovesse – come protestò Vittorini nel suo scontro con Togliatti – “suonare il piffero della rivoluzione”) qualcuno si baloccasse con una insolita mitologia invece che con la Storia, le condizioni del popolo e la lotta di classe, fu giudicato un incomprensibile ed eretico anacronismo. D’altronde Pavese era consapevole dell’eccentricità del testo, tant’è che fu pubblicato nella collana einaudiana “Saggi”, come a voler segnalare una deviazione dall’ambito propriamente letterario, mentre il quasi contemporaneo romanzo Il compagno – un obolo offerto dallo scrittore all’imperante clima politico e culturale – fu pubblicato nella neonata collana di narratori contemporanei “I coralli”, e nell’Avvertenza che precede i dialoghi ironicamente scrisse: “Potendo si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia”. Ma evidentemente non si poteva, perché il mito – aggiunge -  rappresenta “un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano”, ovvero esprime una primigenia e veridica, seppure enigmatica ed inquieta, autenticità dell’essere umano.

Del mito Pavese era edotto, per la sua formazione classica, per la sua intensa attività di traduttore di Omero e dei tragici nel confino di Brancaleone Calabro, per le sue letture etnologiche, tra cui  Il ramo d’oro di Frazer, ma io credo che soprattutto l’abbia compreso nella sua essenza di racconto che reca in sé un’esperienza antepredicativa che si  deposita nel fondo, lasciata nell’ombra dalla narrazione, nascosta; perciò conclude così la sua prefazione:

Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.

Suppongo che Pavese abbia fissato il mito e che dunque il mito si sia dischiuso ad uno nuovo sguardo, che lo ha spinto a sperimentarne la sua rinascita mimetica, nella forma del dialogo tra personaggi a cui corrisponde una storia da riscrivere in modo che vi riaffiori ciò era nascosto. Volessi usare una prospettiva freudiana direi: l’ unheimlic, il “perturbante”.

La spiegazione che generalmente l’analisi letteraria dà della scelta del genere dialogico facendo riferimento a Platone e al Leopardi delle Operette morali a me pare proprio sbagliata: seppure qualche tenue legame si possa ovviamente rintracciare non è al filosofo drammatico o al prosatore ironico che Pavese deve aver guardato (piuttosto, eventualmente, ai narratori statunitensi contemporanei, come Hemingway); suppongo invece che abbia compiuto, consapevolmente o inconsapevolmente, l’autonoma e intima scelta stilistica e narrativa di rappresentare un vuoto, un’assenza di tempo e spazio realistici, dal cui oscuro silenzio emergessero quelle voci che nella loro essenzialità evocano storie, alludono a sventure, confidano dilemmi etici: come dei fantasmi. Dunque nell’autore di Dialoghi con Leuco’ sembra rivivere un po’ l’Ulisse omerico che dà voce alle anime dell’Ade.

Sono 27 dialoghi, prevalentemente in essi parlano due personaggi mitologici (ad esempio Litierse ed Eracle in L’ospite, Calipso ed Odisseo in L’isola, Edipo e Tiresia in I ciechi) le cui parole, direttamente o indirettamente, rimandano ai miti di cui sono i protagonisti: dei, eroi o umani; talvolta però sono personaggi anonimi a parlare, a commentare gli eventi (ad esempio i due pastori, padre e figlio, di I fuochi: che sono i roghi notturni dei sacrifici agli dei che ricompariranno nell’ultimo romanzo di Pavese, La luna e i falò); in due compare Leucotea: in Le streghe, dove con Circe è rievocato l’incontro con Ulisse, l’uomo che affascina le dee,  e in La vigna, dove alla disperata Arianna annuncia l’arrivo di Dioniso; Leucotea è la Leuco’ del titolo, la marina dea bianca in cui fu trasformata Ino (leukó: bianca, thea: dea), che perciò la critica letteraria a cui interessano le biografie degli autori associa a Bianca Garufi, una delle donne amate  – con la consueta sofferenza - da Pavese, la quale certamente ebbe un ruolo, marginale, nella genesi dell’opera, poiché anch’ella interessata alla mitologia e alla psicoanalisi junghiana.

Gli argomenti dei dialoghi sono pochi e  pregnanti nella loro sostanziale vitalità: il destino, il tempo, la morte, la vita, il dolore, l’amore; in ognuno tuttavia riverbera sempre l’allusione a qualcosa di impensabile, o incomprensibile, o indicibile; così, ad esempio, in La strada Edipo si lamenta con un mendicante non del suo atroce destino bensì proprio di avere un destino; in L’inconsolabile Orfeo svela a Bacca di aver voluto, per timore del gelo della morte che ella recava in sé, che Euridice tornasse indietro nell’Ade; in La belva Endimione racconta a uno Straniero – forse un dio anch’egli – la sofferenza causata dal privilegio dell’amore divino. Cogliere il loro senso perciò è difficile, la lettura deve confrontarsi con espressioni ermetiche dal significato allusivo e sfuggente, riverberanti il mito originario ma aperte alle ulteriori significazioni che vi sono state incluse da Pavese, che, tuttavia, ci porge una chiave di lettura nelle note che introducono ogni dialogo, una sorta di didascalia che indica una prospettiva interpretativa, un indizio ermeneutico. Ad esempio il dialogo Le cavalle è preceduto da questa nota:

Di Ermete, dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, tra i Titani e gli dei dell’Olimpo, non è il caso di parlare. Ma che cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale invece la pena di dirlo.

Asclepio è il figlio di Apollo e Coronide, salvato dal dio togliendolo dal grembo della madre che ha ucciso per punirla del suo tradimento, e fatto affidare da Hermes al centauro Chirone, che lo istruì all’arte medica: questo il mito (o meglio: una sua parte, perché poi fu ucciso da Zeus e trasformato nella costellazione di Ofiuco), infatti il dialogo è tra Hermes e Chirone e verte sul destino del bambino, tuttavia tramite le loro parole si comprende come Pavese abbia espanso il mito nel senso enunciato dalla nota, ovvero che Asclepio, figlio di un tempo originario in cui ogni cosa e ogni essere, bestia o dio o umano, è mescolata e promiscua, avrà per destino di vivere un nuovo tempo di separazione stabilito dagli dei olimpici, perché – come dice Hermes – «questi dei ogni volta che il caos trabocca alla luce, devon trafiggere e distruggere e rifare», dunque Asclepio vivrà in un mondo soltanto umano, «dovrà vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa, di carne corrotta, di sospiri e di febbri.» Questo è ciò che l’Olimpo ha destinato agli umani.

Benché i dialoghi scandaglino diversi temi, quello dominante è la dolente perdita di un mondo primigenio, l’età titanica, dove tutto era natura, un caotico  e vitale miscuglio, per sopportare un nuovo ordine divino, indifferente e crudele, in cui vige la separazione, la disgiunzione tra gli esseri, come annuncia Nefele a Issione nel primo dialogo, La nube:

La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra, non potete più stringerle a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.

 

I mostri quindi devono essere uccisi, come Bellerofonte uccide la Chimera e come Teseo uccide il Minotauro, anche se poi Bellerofonte inveisce contro gli dei che l’hanno indotto ad ucciderla (nel dialogo La Chimera) e Teseo comprende che «quel che si uccide si diventa» (nel dialogo Il toro). E non è più tempo di congiunzioni, di ibridazioni, di quelle che Michel Serres definisce «le dissolvenze incrociate della trasformazione» che esprimono gli esperimenti della natura, i feticci, ovvero il contingente manifestarsi del Caos a cui Zeus ha posto fine. Tuttavia ciò che non è più consentito agli umani può accadere ancora per volontà divina, per capriccio, ira o giustizia; gli dei possono violare l’ordine stabilito, trasformare un essere in qualcos’altro, come il bel Giacinto amato da Apollo che morendo è trasformato nel fiore: una metamorfosi che Eros e Tanatos raccontano in Il fiore, domandandosi dubbiosi se la morte di Giacinto non sia stata ancora una volta un capriccio divino.

Ma è in L’uomo lupo che Pavese rappresenta la metamorfosi nella sua complessità etica oltre che biologica, dilatando il mito di Licaone e commutandolo in un dilemma.
Come ogni mito anche questo ha diverse versioni e s’intreccia con altre storie mitiche, come quella del Diluvio, poiché Zeus vuol punire l’empietà del genere umano, di cui Licaone è un suprema dimostrazione; nel primo libro delle Metamorfosi Ovidio, narrando la comparsa di una nuova razza di umani, generata dal sangue dei Giganti che avevano ardito ribellarsi gli dei, vi incunea Licaone e il suo raccapricciante banchetto: poiché Zeus voleva una personale conferma della cattiveria degli uomini, si travestì da contadino e si recò alla reggia di Licaone chiedendone l’ospitalità; il re gliela concesse, ma volendo accertarsi se il suo ospite fosse davvero un dio, gli servì per pranzo la carne di un prigioniero; adirato per l’offesa patita e per quella pratica sanguinaria e disumana, Zeus tramutò Licaone in un lupo.
La mitologia e la susseguente letteratura sono affollate di metamorfosi, tant’è che se ne potrebbe tracciare una casistica e individuarne tipi specifici, ad esempio le metamorfosi ascendente e discendente: la prima è quella che avviene per premio, come la trasformazione di Filomene e Bauci in una quercia e in un tiglio ricompensati da Zeus per la loro grazia, la seconda quella che avviene per punizione, come la trasformazione in cervo di Atteone voluta da un’adirata Artemide. Quella di Licaone è ovviamente una punizione, una sorta di contrappasso che di fatto manifesta  la sua autentica natura di belva.
Questa la  nota introduttiva di Pavese:

Licaone, signore d’Arcadia, per la sua inumanità venne mutato in lupo da Zeus. Ma il mito non dice dove e come sia morto

Lo dicono, nel dialogo, i due cacciatori che l’hanno ucciso.

Sicuramente Pavese per la propria estensione del mito oltre che in  Ovidio ha trovato un elemento di riflessione nell’VIII libro della Repubblica di Platone, in cui il filosofo per argomentare la similitudine del tiranno come lupo rammenta gli oscuri riti arcadici del tempio di Zeus Liceo, in cui si svolgevano sacrifici umani e cannibalismo e perciò gli uomini diventavano lupi; dunque, ancora, il tema è lo scontro fra l’era titanica, naturalmente caotica, regno di mostri e creature indistinte nella loro natura, e il tempo degli dei olimpici, la separazione tra la bestialità e l’umanità, insomma: il tramonto  dello spirito dionisiaco e l’avvento di quello apollineo. Ma la dicotomia stabilita da Nietzsche fu una intelligente semplificazione filosofica della cultura greca che non ne rispettava la complessità: c’è un’oscurità mitica e religiosa in cui i due dei si confondono e fondono, una violenza apollinea che si mescola  alla crudeltà dionisiaca, così come c’è una bestialità umana che si sovrappone ad una umanità bestiale. Ed è appunto questa confusione o indistinzione biologica ed etica che s’esprime nelle parole dei due cacciatori che dopo aver ucciso Licaone s’interrogano sul fatto compiuto: caccia o assassinio?

1° cacciatore: «Non è la prima volta che s’ammazza una bestia.»
2° cacciatore: «Ma è la prima che abbiamo ammazzato un uomo.»

L’identità di Licaone insinua il dubbio, divarica i pensieri dei due uomini:

1° cacciatore: «Pensarci non è fatto nostro. Sono i cani che ce l’hanno stanato. Non tocca a noi dirci chi fosse. Quando l’abbiamo visto chiuso contro i sassi, canuto e insanguato, sguazzare nel fango,coi denti più rossi degli occhi, chi pensava al suo nome e alle storie di un tempo? Morì mordendo il giavellotto come fosse la gola di un cane. Aveva il cuore della bestia oltre che il pelo. Da un pezzo per queste boscaglie non si vedeva un lupo simile o più grosso.»

2° cacciatore: «Io ci penso, al suo nome. Ero ancora ragazzo e già dicevano di lui. Raccontavano cose incredibili di quando fu uomo – che tentò di scannare il Signore dei monti. Certo il suo pelo era colore della neve scarpicciata – era vecchio, un fantasma e aveva gli occhi come sangue.»

 Il 1° cacciatore è moralmente indifferente e impietoso, non si preoccupa di avere ucciso una bestia che fu un uomo, appunto perché soltanto bestia lo considera, quindi giudica secondo la legge della natura per cui ci sono prede e predatori e secondo la propria cultura di cacciatore; invece il 2° cacciatore è dubbioso, timoroso, perché non sa ignorare l’ originaria natura umana della sua vittima: non sa decidersi se è stato un cacciatore o un carnefice, perché Licaone è stato posto – letteralmente – in una no man’s land. E’ in questo spazio mitico che s’istaura una dialettica tra alterità e identità, umanità e disumanità, che Pavese fa enunciare ai due cacciatori nella sua sentimentale e poetica semplicità, lontana da complesse argomentazioni filosofiche ma proprio per questo più efficace.
Per il 1° cacciatore Licaone è una belva perché ancor prima di diventarlo lo era nell’animo, quindi di fatto la metamorfosi gli ha consentito d’essere veramente se stesso:

«Chi più in pace di lui, quando poteva accovacciarsi sulle rupi e ululare alla luna? Sono vissuto abbastanza nei boschi per sapere che i tronchi e le belve non temono nulla di sacro, e non guardano al cielo che per stormire o sbadigliare. C’è anzi qualcosa che li uguaglia ai signori del cielo: quantunque facciano, non han rimorsi.»

Trasformandosi in un lupo, in una bestia priva di intelligenza, coscienza e moralità, è dunque libero, è ritornato allo stato naturale pre-umano dell’età titanica. Ma l’altro cacciatore non è persuaso:

«Era vecchio, sfinito; tu stesso consenti che non seppe difendersi. Mentre moriva senza voce sulle pietre, io pensavo a quei vecchi pezzenti che si fermano a volte davanti ai cortili, e i cani si strozzano alla catena per morderli, Anche questo succede nelle case laggiù. Diciamo pure che è vissuto come un lupo. Ma morendo e vedendoci, capì di esser uomo. Ce lo disse con gli occhi.»

Tuttavia non è soltanto questione di pietà per una umanità che persiste nel fondo della perdizione e riaffiora nel momento estremo della morte; nell’animo del cacciatore s’insinua il timore che il discrimine tra la bestia e l’essere umano, su cui si fonda la civiltà, non sia così netta, per cui all’esempio che l’altro adduce come prova della sua disumana crudeltà:

«Si racconta di lui che cuoceva i suoi simili.»

replica:

«Conosco uomini che han fatto molto meno, e sono lupi – non gli manca che l’urlo e rintanarsi nei boschi. Sei così certo di te stesso da non sentirti qualche volta Licaone come lui? Tutti noialtri abbiamo giorni che, se un dio ci toccasse, urleremmo e saremmo alla gola di chi ci resiste. Che cos’è che ci salva se non che al risveglio ci ritroviamo queste mani e questa bocca e questa voce? Ma lui non ebbe scappatoie – lasciò per sempre gli occhi umani e le case. Ora almeno ch’è morto, dovrebbe avere pace.»

La bestialità, che il primo cacciatore rappresenta quale confine distintivo fra esseri umani e animali, è per il secondo ancora diffusa e persistente, non è stata definitivamente rimossa in un tempo lontano e leggendario; perciò anziché disprezzo Licaone meriterebbe compassione. Ma allora, conseguentemente, il giudizio compassionevole sottintende un sentimento più complesso: il timore che tra l’uomo e la bestia persista una fatale affinità. Pavese ha dunque saputo insinuare nel dialogo la crepa che incrina il fondamentale antropocentrismo che sostiene e definisce la nostra civiltà moderna occidentale, per cui l’umanità è determinata da una ontologica discontinuità dal mondo naturale e quindi dagli animali, da cui lo separa una eccezionale superiorità intellettuale e morale. Che sia il terribile capodoglio Moby Dick con cui ingaggiare una lotta mortale o la mansueta pecora che ignara dei suoi dubbi esistenziali pascola accanto al pastore errante che contempla la Luna, sempre l’animale rappresenta un’alterità: è solo un corpo dipendente da una fisiologica schiavitù e dalla datità del presente che gli disegna un orizzonte privo di senso, una macchina, infine, per Cartesio; e quindi diventa anche il ricettacolo degli istinti, dei desideri brutali, delle passioni. Tuttavia in questa oggettivazione del negativo biologico in cui consiste il naturalismo della cultura moderna rimane un residuo, qualcosa di latente che non può essere del tutto rimosso o non è stato del tutto estirpato dalla legge olimpica, cioè – fuor di metafora – dal processo di civilizzazione: una prossimità tra l’essere umano e l’animale di cui Licaone, l’uomo-lupo, il mostro, è l’emblema.

Perché, come Prometeo (nel dialogo La rupe) insegna al suo liberatore Eracle: «Non si uccidono, i mostri», e se i mostri non si possono uccidere, ciò significa che il processo di sottomissione dell’irrazionale mitico alla chiarezza del logos è destinato a essere sconfitto, l’animale a resistere e persistere nei recessi della mente e della vita dell’essere umano.


 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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