di Raffaella Di Meglio
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La letteratura “ufficiale” e dominante ha indotto ad associare
al Rinascimento i concetti di misura, equilibrio, ordine, armonia, di
classicismo, ma il panorama letterario cinquecentesco è molto
più complesso, contraddittorio e inquieto, animato da tendenze
irregolari, dissonanti e anticlassiciste, che coesistono non solo all'interno
di uno stesso periodo storico ma anche nell'ambito della stessa corrente
e spesso all'interno della produzione di uno stesso autore.
Questo breve percorso dedicato alla lirica d'amore intende far conoscere
proprio l'anima diversa e divertente, irriverente e anticonformista,
del Rinascimento.
Nel Cinquecento il fenomeno del “petrarchismo”(l'imitazione
della poesia di Petrarca) assume grande rilievo in Italia e si estende
anche ad altri paesi europei, quali l'Inghilterra, la Francia e la Spagna.
Il Canzoniere di Petrarca (1304-1374) diventa un repertorio
di temi (amore idealizzato, bellezza femminile), di sentimenti e stati
d'animo (inquietudine, tensioni interiori), di figure retoriche (metafore),
di lessico raffinato e omogeneo.
È l'umanista e poeta veneto Pietro Bembo (1470-1547)
nel trattato Prose della volgar lingua (1525) ad indicare Petrarca
quale unico modello poetico di riferimento valido. Nelle sue Rime,
pubblicate nel 1530, Bembo ne ricalca la poetica(non a caso il “petrarchismo” venne
detto anche “bembismo”), come dimostra il sonetto Crin d'oro
crespo e d'ambra tersa e pura, uno dei testi fondamentali del petrarchismo
cinquecentesco.
Bembo
|
Il modello di Bembo: Petrarca
|
Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura |
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (1342 ca.) |
Erano i capei d'oro a l'aura
sparsi che 'n mille dolci nodi gli avolgea, e l'vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi; |
|
e 'l viso di pietosi color'
farsi, non so se vero o falso, mi parea: i' che l'ésca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di sùbito arsi? |
|
Non era l'andar suo cosa mortale, ma d'angelica forma; et le parole sonavan altro, che pur voce humana. |
|
Uno spirito celeste, un vivo
sole fu quel ch'i'vidi: et se non fosse or tale, piagha per allentar d'arco non sana. |
|
Pietro Bembo (1470-1547) | Francesco Petrarca (1304-1374) |
Il celebre Erano i capei d'oro a l'aura sparsi, come tutte
leliriche del Canzoniere di Petrarca,
celebra la bellezza fisica e morale della donna amata, Laura, che appare
come una creatura soave e luminosa, dai biondi capelli splendenti, allo
stesso tempo irraggiungibile e vicina, fonte di tomento e di conforto.
Evidenti sonoalcuni elementi tipici della tradizione cortese e stilnovistica:
l'amore impossibile, la donna irraggiungibile; l'esaltazione della donna
rappresentata come creatura celeste; le sofferenze dell'amante. Tuttavia
Petrarca introduce profonde e personali innovazioni, a cominciare proprio
dalla figura della donna: Laura è più umana della Beatrice
dantesca e delle creature femminili stilnoviste e, pur restando una figura
evanescente e sfuggente, non è ferma in una dimensione atemporale,
anzi è soggetta all'azione del tempo, che ne offusca la bellezza.
La passione che il poeta prova per lei è umana, fisica, tormentata,
fonte di conflitti interiori: è un sentimento insopprimibile,
un desiderio irrealizzabile ma irrinunciabile.
Bembo in Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura si sforza
di seguire il modello petrarchesco, con l'intento di fornire una perfetta
definizione della bellezza femminile (il sonetto costituirà in
effetti un riferimento esemplare per i trattatisti cinquecenteschi).
Nei primi dodici versi il poeta esalta la bellezza e le virtù della
donna amata attraverso un lungo ed elegante elenco delle sue qualità fisiche
e spirituali. I vari elementi dell'elenco (tutti soggetti del predicato “fur” al
v. 13) sono collocati all'inizio dei versi: “crin” (v. 1), “occhi” (v.
3), “riso” (v. 5), “rubini e perle” (v. 6), “man” (v.
8), “cantar” (v. 9), “senno” (v. 10), “leggiadria” (v.
11), ognuno seguito da una specificazione, da cui emerge il ritratto
di una creatura impareggiabile e rara per “beltà” e “onestade”.
Per celebrare la donna il poeta attinge a piene mani al repertorio di
immagini e metafore petrarchesche: dal poeta aretino riprende le caratteristiche
fisiche della donna (capelli biondi, occhi luminosi, sorriso rasserenante,
mani candide, voce armoniosa, bellezza e leggiadria, saggezza e virtù);
gli attributi metaforici (l'oro per i capelli, la neve per la pelle);
il gusto dei contrasti e delle antitesi (“da far giorno seren la
notte oscura”, “senno maturo a la più verde etade”);
l'allusione alle sofferenze e ai dolori della vita che trovano conforto
nella grazia femminile; sostantivi e aggettivi propri del vocabolario
petrarchesco (“aura”, “esca”) o stilnovistico
(“onestade”); interi versi, come l'ultimo, calco del verso
iniziale del sonetto CCXIII Grazie ch'a pochi il ciel largo destina.
Si tratta di un procedimento rigido e impersonale, il cui esito è freddo
e meccanico, esteriore e non autenticamente rivissuto, per cui
la figura femminile descritta nel sonetto appare convenzionale,
scontata, stereotipata. Non resta traccia della complessa interiorità,
di quell'esperienza puramente soggettiva, privata, tesa all'esplorazione
delle inquietudini dell'io poetico che le liriche di Petrarca esprimevano
e che fanno di lui il primo poeta moderno europeo.
La reazione al classicismo non tarda ad arrivare e dà vita nel corso del Cinquecento ad una controtendenza che rifiuta i modelli letterari, le regole prestabilite, il principio dell'imitazione codificati dalla cultura ufficiale.
Il principale bersaglio della polemica anticlassicista è proprio Pietro Bembo: a Firenze si afferma la parodia del “bembismo”, il cui principale interprete è il poeta Francesco Berni (1496-1535). Berni, ricollegandosi alla tradizione comico-giocosa toscana del Duecento, irride la ricerca del sublime propria del petrarchismo, che finisce per cadere nel ridicolo e per ridursi a luoghi comuni e parole vuote, limitandosi ad una scialba imitazione, ad una meccanica e arida applicazione di forme e contenuti del Canzoniere. Una delle sue parodie più note è il sonetto Chiome d’argento fine, irte e attorte, abile contraffazione e capovolgimento dell'ideale di bellezza femminile celebrato da Bembo.
Berni |
Il modello di Berni:
Bembo
|
Chiome d'argento fine, irte e attorte |
Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura |
Crin d'oro crespo e d'ambra
tersa e pura, ch'all'aura su la neve ondeggi e vole, occhi soavi e più chiari che 'l sole, da far giorno seren la notte oscura, |
|
riso, ch'acqueta ogni aspra
pena e dura, rubini e perle, ond' escono parole sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle, man d'avorio, che i cor distringe e fura, |
|
cantar, che sembra d'armonia
divina, senno maturo a la più verde etade, leggiadria non veduta unqua fra noi, |
|
giunta a somma beltà somma
onestade, fur l'esca del mio foco, e sono in voi grazie, ch'a poche il ciel largo destina. |
|
Francesco Berni (1497-1535) | Pietro Bembo (1470-1547) |
Chiome d'argento fine, irte e attorte ad una prima lettura
sembra una seria e ortodossa lirica d'amore, ma in realtà rifà il
verso a Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura. Berni
lascia apparentemente intatto l'aspetto formale del modello, infatti
riprende lo stile enumerativo usato da Bembo, ma le caratteristiche e
le qualità elencate sono tutte negative e danno vita all'immagine
di una donna vecchia, straordinariamente brutta, repellente e
arrogante, una donna dai capelli bianchi e spettinati (chiome
d'argento irte e attorte, ciglie di neve), rugosa (fronte
crespa), dalla grossa bocca sdentata (bocca ampia celeste, denti
d'ebano rari e pellegrini), dal colorito giallastro (bel viso
d'oro), dallo sguardo strabico (luci torte da ogni obbietto
disuguale a loro), dall'aria altera e superba (costumi alteri
e gravi).
È una parodia ingannevole, perché la forma è talmente
modellata sui canoni tradizionali da camuffare l'intento burlesco e polemico; è infatti
costruita attraverso un sottile e ambiguo gioco di antitesi tra significante
e significato: il significante (la forma) conserva apparentemente le caratteristiche
della lode e dell'esaltazione della figura femminile, mentre il significato
le nega. La strategia dell'autore consiste nel manipolare abilmente le
immagini e i termini consueti del repertorio della lirica d'amore, per ottenere
un esito antitetico: l'esaltazione della bruttezza anziché della
bellezza. Termini tipici del repertorio “cortese”, quali gli aggettivi “fine” (v.
1), “bel” (v. 2), “rari e pellegrini” (v. 10), l'avverbio “dolcemente” (v.
8), il sostantivo “armonia” (v. 11) nel sonetto di Berni sono
usati e combinati in modo tale da indicare qualità tutt'altro che gentili
e leggiadre. Il sonetto è un susseguirsi di doppi sensi,
di espressioni ambigue ed equivoche, che depistano
il lettore, celando, sotto un'apparente raffinatezza ed eleganza, sensi negativi
e spregiativi:
Rispetto al modello Berni attua inoltre dei capovolgimenti in negativo o degli abbassamenti. Ecco alcuni esempi:
Con la sua donna dalle chiome d'argento,come già detto,
Berni siricollega alla tradizione medievale
della poesia comico-giocosa nata in età comunale (fine
Duecento - inizio Trecento) in ambito toscano, in
particolare riprende la cosiddetta “lode” della donna
brutta o vituperium in vetulam (invettiva
contro la vecchia), vero e proprio capovolgimento dell'elogio della figura
femminile bella, giovane e cortese, alla quale subentra
una ben poco ortodossa vecchia, figura di uno spietato
realismo.
Ecco la vecchia descritta dal poeta fiorentino Rustico Filippi (1230
ca. - 1291 ca.), l'iniziatore della poesia comica in volgare, in un suo
sonetto:
[...] buggeressa vecchia puzzolente, quale-unque persona ti sta
presso/si tura il naso e fugge inmantenente./[...] Ch'e' par che s'apran
mille monimenta/ quand'apri il ceffo: perché non ti spolpe/o
ti rinchiude, sì ch'om non ti senta? [...]
(vecchia zozzona e puzzolente, chiunque ti si avvicina/ si tura
il naso e subito fugge a gambe levate./ Perché sembra che abbiano
scoperchiato mille tombe/ quando apri bocca: perché non crepi/
o vai a rinchiuderti, in modo da non impestare più la gente?).
La vicinanza della vecchia produce un effetto a dir poco
degradante, opposto a quello miracoloso e salvifico della donna stilnovistica.
In questo caso anche il linguaggio diventa violentemente espressivo e
aggressivo, in aperto contrasto con quello fine e rarefatto della poesia
cortese e dello stilnovismo.
La poesia comico-giocosa medievale nasce proprio come rifiuto
e rovesciamento delle convenzioni della poesia cortese e dello “stil
novo”: i valori della cortesia e dell'amore vengono capovolti
e ridicolizzati; i sentimenti elevati cedono
il posto ad argomenti volgari, terreni o addirittura blasfemi;
il desiderio sessuale prende il posto dell'amore spirituale
e nobilitante, la donna plebea, sensuale e
rozza soppianta la dama gentile e idealizzata, l'elogio del
vizio sostituisce quello della virtù.
La tecnica più utilizzata dalla poesia burlesca è la parodia,
che consiste appunto nel trattare soggetti vili e spregevoli con una
struttura formale rispettosa delle regole metriche e retoriche della
poesia tradizionale. L'elaborata costruzione formale e
la presenza di precise norme stilistiche dimostrano che, nonostante l'argomento “basso”,
non si tratta di opere trasandate o improvvisate. Ulteriore prova della
raffinatezza e della letterarietà dell'operazione è il
fatto che spesso lo stesso poeta pratica sia la maniera “alta” sia
quella “bassa”: sia pur occasionalmente, sperimentarono
la tendenza burlesca, talora persino sotto forma di autoparodia, gli
stessi Guinizzelli (Chi vedesse a Lucia un var capuzzo) Cavalcanti
(Guata, Manetto, quella scrignutuzza) e Dante Alighieri, gli
iniziatori della maniera delle rime “dolci e leggiadre”.
Non si può non ricordare un altro esponente di spicco del genere
comico-parodico medievale: il senese Cecco Angiolieri (1260
ca. -1312 ca.), autore del celebre sonetto S'i fosse foco, tanto
moderno per la sua irrequieta carica anticonformista e anarchica, per
il gusto beffardo della protesta, da essere riproposto in un suggestivo
adattamento musicale dal cantautore Fabrizio De André nel “caldo” 1968.
Contemporaneo di Dante, Cecco è autore di poesie vivaci, canzonatorie
e irriverenti, dalle quali emerge l'immagine di una vita irregolare e
inquieta, spesa tra le taverne, il gioco, le donne: Tre cose solamente
m'ènno in grado,/[...] cioè la donna, la taverna e 'l dado.
La donna celebrata nei suoi versi è Becchina, una specie di anti-Beatrice,
che non ha proprio nulla di angelico (oncia di carne, libra di malizia);
l'amore cantato dal poeta è un piacere puramente sensuale (S'i
fosse Cecco, com'i sono e fui,/torrei le donne giovani e leggiadre:/le
zoppe e vecchie lasserei altrui).
L'intento giocoso e il divertimento letterario sono solo un aspetto di questo genere letterario, dietro il quale affiora il carattere anticonformista, trasgressivo e provocatorio di un'ideologia contraria ai rigidi condizionamenti della cultura ufficiale. Ciò fa della poesia comico-parodica un filone importantissimo, pur se marginale e poco noto, della letteratura europea tra Medioevo e Rinascimento.
Persino William Shakespeare non resistette alla tentazione anticonformista della poesia comica: all'antipetrarchismo di Berni si rifà con My mistress' eyes are nothing like the sun, uno dei suoi rari sonetti di tono umoristico. È una parodia del tipico sonetto di tema amoroso, a cui il poeta si era conformato in altri componimenti (il petrarchismo nel corso del Cinquecento si diffuse infatti anche in Inghilterra).
My mistress' eyes are nothing like the sun My mistress' eyes
are nothing like the sun; I have seen roses
damask'd, red and white, I love to hear her speak, yet
well I know And yet by heaven,
I think my love as rare, William Shakespeare (1564-1616) |
Gli occhi della mia donna non sono come il sole Gli occhi della mia donna non sono
come il sole; Ho visto rose damascate, rosse e bianche, Amo sentirla parlare, eppure
so Eppure, per il
cielo, credo il mio amore tanto raro Da William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 1995 |
La prima parte del sonetto (le tre quartine) capovolge il
tradizionale modello della lode della donna; la seconda
(il distico finale) contiene l’esaltazione della
donna amata dal poeta, una donna vera e rara. Shakespeare
riprende le immagini tipiche, le iperboli e i più abusati luoghi
comuni della lirica d'amore (la lucentezza degli occhi paragonata
al sole, il rosso delle labbra al corallo, e così via), ma li
capovolge con una serie di negazioni o antitesi (vv.
1, 6, 11), perché il sole, la neve, la rosa, i profumi e la
musica sono ormai similitudini e metafore ovvie, abusate, aride o così esagerate
da essere incredibili, insincere e false (“false compare”,
v. 14). La sua donna, invece, non è pari ma inferiore alle
cose più belle. È una figura in flesh and blood,
un'immagine femminile che non ha nulla di convenzionale, di stereotipato,
di “divino”: l'incarnato chiaro e luminoso e i capelli
biondi lasciano il posto ai “seni bigi” (v. 3) e ai “fili
neri” (v. 4); in più compaiono dettagli tutt'altro che
ideali e idealizzati, come l'alito non certo profumato (vv. 7-8), la
voce poco armonica e l'andatura goffa e pesante (vv. 9-12).
Dalla negazione di tutte le qualità che avevano fissato nella
tradizione letteraria un modello di bellezza ideale emerge il ritratto
sincero di una donna imperfetta, perciò autentica, reale,
che nulla ha da invidiare a quella esaltata con falsi paragoni: agli
occhi del poeta appare unica, anche per i suoi difetti.
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