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Le due anime del Rinascimento: la lirica d'amore tra sublime serietà e giocosa leggerezza

di Raffaella Di Meglio

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Cos'è la parodia letteraria?
Il termine parodia deriva dal greco paroidìa (da parà, accanto e oidè, canto = cosa che somiglia al canto) ed indica un componimento letterario che imita la struttura formale di un'opera conosciuta, ma ne rovescia valori e ificati con intento comico o satirico.
Fin dall'antichità gli scrittori si sono divertiti a contraffare lo stile di opere illustri, appartenenti alla memoria collettiva dei lettori (i poemi di Omero e Virgilio). La condizione preliminare perché la parodia sia efficace è infatti la notorietà del modello (un'opera, un autore, uno stile): la parodia ne presuppone la perfetta conoscenza sia da parte dell'autore che del lettore, dunque è un'operazione colta e non meccanica, perché richiede capacità di reinterpretare, rimaneggiare e rinnovare il modello, attraverso l'uso di diverse tecniche (l'abbassamento, il rovesciamento, i giochi di parole e i doppi sensi).
La parodia letteraria è una riscrittura trasgressiva, che può avere intenti sia dilettevoli, burleschi, giocosi sia polemici e critici. È comunque sempre un procedimento che fa pensare, che stimola il pensiero autonomo e critico, è un invito ad aprire la mente, a guardare le cose da un altro punto di vista; è un'operazione eccentrica, irregolare, dissacrante, irriverente, provocatoria, “divertente” nel senso etimologico del termine (dal latino divertĕre, ossia “volgere altrove”, “deviare).

La letteratura “ufficiale” e dominante ha indotto ad associare al Rinascimento i concetti di misura, equilibrio, ordine, armonia, di classicismo, ma il panorama letterario cinquecentesco è molto più complesso, contraddittorio e inquieto, animato da tendenze irregolari, dissonanti e anticlassiciste, che coesistono non solo all'interno di uno stesso periodo storico ma anche nell'ambito della stessa corrente e spesso all'interno della produzione di uno stesso autore.
Questo breve percorso dedicato alla lirica d'amore intende far conoscere proprio l'anima diversa e divertente, irriverente e anticonformista, del Rinascimento.

 

La moda del petrarchismo: l'elogio della donna stereotipata

Nel Cinquecento il fenomeno del “petrarchismo”(l'imitazione della poesia di Petrarca) assume grande rilievo in Italia e si estende anche ad altri paesi europei, quali l'Inghilterra, la Francia e la Spagna. Il Canzoniere di Petrarca (1304-1374) diventa un repertorio di temi (amore idealizzato, bellezza femminile), di sentimenti e stati d'animo (inquietudine, tensioni interiori), di figure retoriche (metafore), di lessico raffinato e omogeneo.
È l'umanista e poeta veneto Pietro Bembo (1470-1547) nel trattato Prose della volgar lingua (1525) ad indicare Petrarca quale unico modello poetico di riferimento valido. Nelle sue Rime, pubblicate nel 1530, Bembo ne ricalca la poetica(non a caso il “petrarchismo” venne detto anche “bembismo”), come dimostra il sonetto Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,  uno dei testi fondamentali del petrarchismo cinquecentesco.

Bembo
Il modello di Bembo: Petrarca

Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (1342 ca.)

Crin d'oro crespo1 e d'ambra tersa e pura2,
ch'all'aura su la neve ondeggi e vole,3
occhi soavi e più chiari che 'l sole,
da far4 giorno seren la notte oscura,

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e l'vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi;

riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura5,
rubini e perle6, ond'7 escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle8,
man d'avorio, che i cor distringe e fura9,

e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

cantar, che sembra d'armonia divina,
senno maturo a la più verde etade, 10
leggiadria non veduta unqua11 fra noi,

Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

giunta a somma beltà somma onestade, 12
fur l'esca del mio foco13, e sono in voi
grazie, ch'a poche il ciel largo destina.14

Uno spirito celeste, un vivo sole
fu quel ch'i'vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana.

Pietro Bembo (1470-1547) Francesco Petrarca (1304-1374)

 

Il celebre Erano i capei d'oro a l'aura sparsi, come tutte leliriche del Canzoniere di Petrarca, celebra la bellezza fisica e morale della donna amata, Laura, che appare come una creatura soave e luminosa, dai biondi capelli splendenti, allo stesso tempo irraggiungibile e vicina, fonte di tomento e di conforto. Evidenti sonoalcuni elementi tipici della tradizione cortese e stilnovistica: l'amore impossibile, la donna irraggiungibile; l'esaltazione della donna rappresentata come creatura celeste; le sofferenze dell'amante. Tuttavia Petrarca introduce profonde e personali innovazioni, a cominciare proprio dalla figura della donna: Laura è più umana della Beatrice dantesca e delle creature femminili stilnoviste e, pur restando una figura evanescente e sfuggente, non è ferma in una dimensione atemporale, anzi è soggetta all'azione del tempo, che ne offusca la bellezza. La passione che il poeta prova per lei è umana, fisica, tormentata, fonte di conflitti interiori: è un sentimento insopprimibile, un desiderio irrealizzabile ma irrinunciabile.
Bembo in Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura si sforza di seguire il modello petrarchesco, con l'intento di fornire una perfetta definizione della bellezza femminile (il sonetto costituirà in effetti un riferimento esemplare per i trattatisti cinquecenteschi).


Nei primi dodici versi il poeta esalta la bellezza e le virtù della donna amata attraverso un lungo ed elegante elenco delle sue qualità fisiche e spirituali. I vari elementi dell'elenco (tutti soggetti del predicato “fur” al v. 13) sono collocati all'inizio dei versi: “crin” (v. 1), “occhi” (v. 3), “riso” (v. 5), “rubini e perle” (v. 6), “man” (v. 8), “cantar” (v. 9), “senno” (v. 10), “leggiadria” (v. 11), ognuno seguito da una specificazione, da cui emerge il ritratto di una creatura impareggiabile e rara per “beltà” e “onestade”.
Per celebrare la donna il poeta attinge a piene mani al repertorio di immagini e metafore petrarchesche: dal poeta aretino riprende le caratteristiche fisiche della donna (capelli biondi, occhi luminosi, sorriso rasserenante, mani candide, voce armoniosa, bellezza e leggiadria, saggezza e virtù); gli attributi metaforici (l'oro per i capelli, la neve per la pelle); il gusto dei contrasti e delle antitesi (“da far giorno seren la notte oscura”, “senno maturo a la più verde etade”); l'allusione alle sofferenze e ai dolori della vita che trovano conforto nella grazia femminile; sostantivi e aggettivi propri del vocabolario petrarchesco (“aura”, “esca”) o stilnovistico (“onestade”); interi versi, come l'ultimo, calco del verso iniziale del sonetto CCXIII Grazie ch'a pochi il ciel largo destina.
Si tratta di un procedimento rigido e impersonale, il cui esito è freddo e meccanico, esteriore e non autenticamente rivissuto, per cui la figura femminile descritta nel sonetto appare convenzionale, scontata, stereotipata. Non resta traccia della complessa interiorità, di quell'esperienza puramente soggettiva, privata, tesa all'esplorazione delle inquietudini dell'io poetico che le liriche di Petrarca esprimevano e che fanno di lui il primo poeta moderno europeo.

 

Burle in versi: l'elogio della bruttezza

La reazione al classicismo non tarda ad arrivare e dà vita nel corso del Cinquecento ad una controtendenza che rifiuta i modelli letterari, le regole prestabilite, il principio dell'imitazione codificati dalla cultura ufficiale.

Il principale bersaglio della polemica anticlassicista è proprio Pietro Bembo: a Firenze si afferma la parodia del “bembismo”, il cui principale interprete è il poeta Francesco Berni (1496-1535). Berni, ricollegandosi alla tradizione comico-giocosa toscana del Duecento, irride la ricerca del sublime propria del petrarchismo, che finisce per cadere nel ridicolo e per ridursi a luoghi comuni e parole vuote, limitandosi ad una scialba imitazione, ad una meccanica e arida applicazione di forme e contenuti del Canzoniere. Una delle sue parodie più note è il sonetto Chiome d’argento fine, irte e attorte, abile contraffazione e capovolgimento dell'ideale di bellezza femminile celebrato da Bembo.

Berni
Il modello di Berni: Bembo

Chiome d'argento fine, irte e attorte

Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura

Chiome d'argento fine1, irte e attorte
senz'arte,2 intorno ad un bel viso d'oro3;
fronte crespa4, u' mirando io mi scoloro5,
dove spunta i suoi strali Amore e Morte6;

Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,
ch'all'aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che 'l sole,
da far giorno seren la notte oscura,

occhi di perle vaghi7, luci torte
da ogni obbietto disuguale a loro8;
ciglia di neve9, e quelle, ond'io m'accoro10,
dita e man dolcemente grosse e corte;

riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond' escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,
man d'avorio, che i cor distringe e fura,

labbra di latte11, bocca ampia celeste12;
denti d'ebano rari e pellegrini13;
inaudita ineffabile armonia14;

cantar, che sembra d'armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
leggiadria non veduta unqua fra noi,

costumi alteri e gravi15: a voi, divini
servi d'Amor16, palese fo17 che queste
son le bellezze della donna mia.

giunta a somma beltà somma onestade,
fur l'esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch'a poche il ciel largo destina.

Francesco Berni (1497-1535) Pietro Bembo (1470-1547)

 

Chiome d'argento fine, irte e attorte ad una prima lettura sembra una seria e ortodossa lirica d'amore, ma in realtà rifà il verso a Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura. Berni lascia apparentemente intatto l'aspetto formale del modello, infatti riprende lo stile enumerativo usato da Bembo, ma le caratteristiche e le qualità elencate sono tutte negative e danno vita all'immagine di una donna vecchia, straordinariamente brutta, repellente e arrogante, una donna dai capelli bianchi e spettinati (chiome d'argento irte e attorte, ciglie di neve), rugosa (fronte crespa), dalla grossa bocca sdentata (bocca ampia celeste, denti d'ebano rari e pellegrini), dal colorito giallastro (bel viso d'oro), dallo sguardo strabico (luci torte da ogni obbietto disuguale a loro), dall'aria altera e superba (costumi alteri e gravi).
È una parodia ingannevole, perché la forma è talmente modellata sui canoni tradizionali da camuffare l'intento burlesco e polemico; è infatti costruita attraverso un sottile e ambiguo gioco di antitesi tra significante e significato: il significante (la forma) conserva apparentemente le caratteristiche della lode e dell'esaltazione della figura femminile, mentre il significato le nega. La strategia dell'autore consiste nel manipolare abilmente  le immagini e i termini consueti del repertorio della lirica d'amore, per ottenere un esito antitetico: l'esaltazione della bruttezza anziché della bellezza. Termini tipici del repertorio “cortese”, quali gli aggettivi “fine” (v. 1), “bel” (v. 2), “rari e pellegrini” (v. 10), l'avverbio “dolcemente” (v. 8), il sostantivo “armonia” (v. 11) nel sonetto di Berni sono usati e combinati in modo tale da indicare qualità tutt'altro che gentili e leggiadre. Il sonetto è un susseguirsi di doppi sensi, di espressioni ambigue ed equivoche, che depistano il lettore, celando, sotto un'apparente raffinatezza ed eleganza, sensi negativi e spregiativi:

  • “Chiome d'argento fine” (v. 1) sembra un'immagine leggiadra, invece indica i capelli bianchi;
  • l' “oro” del viso (v. 2) non allude alla luminosità, ma ad un malsano colorito giallastro;
  • il verbo “scolorarsi” (v. 3), spesso usato da Petrarca per indicare l'impallidire dell'uomo di fronte alle virtù della donna amata, in Berni indica la repulsione e lo spavento di fronte alla bruttezza della donna;
  • il riferimento agli “strali” di “Amore e Morte” (v. 4), classico binomio della tradizione lirica, è qui indizio della straordinaria bruttezza della donna, tale da respingere sia l'amore che la morte;
  • l'espressione “inaudita ineffabile armonia” (v. 11) potrebbe essere intesa in senso positivo (voce soave e armoniosa), ma il contesto le attribuisce un valore negativo (voce sgraziata);

Rispetto al modello Berni attua inoltre dei capovolgimenti in negativo o degli abbassamenti. Ecco alcuni esempi:

  • l'aggettivo crespo che in Berni indica l'ondulazione dei capelli viene usato per descrivere la fronte piena di rughe;
  • la metafora delle perle (“occhi di perle”), che Bembo usa per indicare il candore dei denti, associata agli occhi, indica una qualità sgradevole, ossia la loro cisposità.

 

La poesia comico-giocosa del Medioevo

Con la sua donna dalle chiome d'argento,come già detto, Berni siricollega alla tradizione medievale della poesia comico-giocosa nata in età comunale (fine Duecento - inizio Trecento) in ambito toscano, in particolare riprende la cosiddetta “lode” della donna brutta o vituperium in vetulam (invettiva contro la vecchia), vero e proprio capovolgimento dell'elogio della figura femminile bella, giovane e cortese, alla quale subentra una ben poco ortodossa vecchia, figura di uno spietato realismo.
Ecco la vecchia descritta dal poeta fiorentino Rustico Filippi (1230 ca. - 1291 ca.), l'iniziatore della poesia comica in volgare, in un suo sonetto:

[...] buggeressa vecchia puzzolente, quale-unque persona ti sta presso/si tura il naso e fugge inmantenente./[...] Ch'e' par che s'apran mille monimenta/ quand'apri il ceffo: perché non ti spolpe/o ti rinchiude, sì ch'om non ti senta? [...]
(vecchia zozzona e puzzolente, chiunque ti si avvicina/ si tura il naso e subito fugge a gambe levate./ Perché sembra che abbiano scoperchiato mille tombe/ quando apri bocca: perché non crepi/ o vai a rinchiuderti, in modo da non impestare più la gente?
).

La vicinanza della vecchia produce un effetto a dir poco degradante, opposto a quello miracoloso e salvifico della donna stilnovistica. In questo caso anche il linguaggio diventa violentemente espressivo e aggressivo, in aperto contrasto con quello fine e rarefatto della poesia cortese e dello stilnovismo.
La poesia comico-giocosa medievale nasce proprio come rifiuto e rovesciamento delle convenzioni della poesia cortese e dello “stil novo”: i valori della cortesia e dell'amore vengono capovolti e ridicolizzati; i sentimenti elevati cedono il posto ad argomenti volgari, terreni o addirittura blasfemi; il desiderio sessuale prende il posto dell'amore spirituale e nobilitante, la donna plebea, sensuale e rozza soppianta la dama gentile e idealizzata, l'elogio del vizio sostituisce quello della virtù.
La tecnica più utilizzata dalla poesia burlesca è la parodia, che consiste appunto nel trattare soggetti vili e spregevoli con una struttura formale rispettosa delle regole metriche e retoriche della poesia tradizionale. L'elaborata costruzione formale e la presenza di precise norme stilistiche dimostrano che, nonostante l'argomento “basso”, non si tratta di opere trasandate o improvvisate. Ulteriore prova della raffinatezza e della letterarietà dell'operazione è il fatto che spesso lo stesso poeta pratica sia la maniera “alta” sia quella “bassa”: sia pur occasionalmente, sperimentarono la tendenza burlesca, talora persino sotto forma di autoparodia,  gli stessi Guinizzelli (Chi vedesse a Lucia un var capuzzo) Cavalcanti (Guata, Manetto, quella scrignutuzza) e Dante Alighieri, gli iniziatori della maniera delle rime “dolci e leggiadre”. 
Non si può non ricordare un altro esponente di spicco del genere comico-parodico medievale: il senese Cecco Angiolieri (1260 ca. -1312 ca.), autore del celebre sonetto S'i fosse foco, tanto moderno per la sua irrequieta carica anticonformista e anarchica, per il gusto beffardo della protesta, da essere riproposto in un suggestivo adattamento musicale dal cantautore Fabrizio De André nel “caldo” 1968. Contemporaneo di Dante, Cecco è autore di poesie vivaci, canzonatorie e irriverenti, dalle quali emerge l'immagine di una vita irregolare e inquieta, spesa tra le taverne, il gioco, le donne: Tre cose solamente m'ènno in grado,/[...] cioè la donna, la taverna e 'l dado. La donna celebrata nei suoi versi è Becchina, una specie di anti-Beatrice, che non ha proprio nulla di angelico (oncia di carne, libra di malizia); l'amore cantato dal poeta è un piacere puramente sensuale (S'i fosse Cecco, com'i sono e fui,/torrei le donne giovani e leggiadre:/le zoppe e vecchie lasserei altrui).

L'intento giocoso e il divertimento letterario sono solo un aspetto di questo genere letterario, dietro il quale affiora il carattere anticonformista, trasgressivo e provocatorio di un'ideologia contraria ai rigidi condizionamenti della cultura ufficiale. Ciò fa della poesia comico-parodica un filone importantissimo, pur se marginale e poco noto, della letteratura europea tra Medioevo e Rinascimento.

 

Dalla vecchia di Berni alla dark lady di Shakespeare: l'elogio dell'“imperfezione”

Persino William Shakespeare non resistette alla tentazione anticonformista della poesia comica: all'antipetrarchismo di Berni si rifà con My mistress' eyes are nothing like the sun, uno dei suoi rari sonetti di tono umoristico. È una parodia del tipico sonetto di tema amoroso, a cui il poeta si era conformato in altri componimenti (il petrarchismo nel corso del Cinquecento si diffuse infatti anche in Inghilterra).

My mistress' eyes are nothing like the sun

My mistress' eyes are nothing like the sun;
coral is far more red, than her lips red:
if snow be white, why then her breasts are dun;
if hairs be wires, black wires grow on her head.

I have seen roses damask'd, red and white,
but no such roses see I in her cheeks;
and in some perfumes is there more delight
than in the breath that from my mistress reeks.

I love to hear her speak, yet well I know
that music hath a far more pleasing sound.
I grant I never saw a goddess go,—
my mistress, when she walks, treads on the ground.

And yet by heaven, I think my love as rare,
as any she belied with false compare.

William Shakespeare (1564-1616)

Gli occhi della mia donna non sono come il sole

Gli occhi della mia donna non sono come il sole;
il corallo è assai più rosso del rosso delle sue labbra;
se la neve è bianca, allora i suoi seni sono bigi
[di un grigio smorto];
se i capelli sono fili, fili neri crescono sul suo capo.

Ho visto rose damascate, rosse e bianche,
ma tali rose non vedo sulle sue guance;
e in certi profumi c'è maggior delizia
che nel fiato che la mia donna esala.

Amo sentirla parlare, eppure so
che la musica ha un suono molto più gradito.
Ammetto che non ho mai veduto incedere una dea,
ma la mia donna, quando cammina, calca la terra.

Eppure, per il cielo, credo il mio amore  tanto raro
quanto qualsiasi donna travisata con falsi paragoni.

Da William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 1995

 

La prima parte del sonetto (le tre quartine) capovolge il tradizionale modello della lode  della donna; la seconda (il distico finale) contiene l’esaltazione della donna amata dal poeta, una donna vera e rara. Shakespeare riprende le immagini tipiche, le iperboli e i più abusati luoghi comuni della lirica d'amore (la lucentezza degli occhi paragonata al sole, il rosso delle labbra al corallo, e così via), ma li capovolge con una serie di negazioni o antitesi (vv. 1, 6, 11), perché il sole, la neve, la rosa, i profumi e la musica sono ormai similitudini e metafore ovvie, abusate, aride o così esagerate da essere incredibili, insincere e false (“false compare”, v. 14). La sua donna, invece, non è pari ma inferiore alle cose più belle. È una figura in flesh and blood, un'immagine femminile che non ha nulla di convenzionale, di stereotipato, di “divino”: l'incarnato chiaro e luminoso e i capelli biondi lasciano il posto ai “seni bigi” (v. 3) e ai “fili neri” (v. 4); in più compaiono dettagli tutt'altro che ideali e idealizzati, come l'alito non certo profumato (vv. 7-8), la voce poco armonica e l'andatura goffa e pesante (vv. 9-12).
Dalla negazione di tutte le qualità che avevano fissato nella tradizione letteraria un modello di bellezza ideale emerge il ritratto sincero di una donna imperfetta, perciò autentica, reale, che nulla ha da invidiare a quella esaltata con falsi paragoni: agli occhi del poeta appare unica, anche per i suoi difetti.

 

Bibliografia

AA.VV., Letteratura, vol. II, Garzanti, 2003.
Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Paravia, 1993.
Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, A. Mondadori, 1991.
Gino Tellini, Rifare il verso. La parodia nella letteratura italiana, Oscar Mondadori, 2008.

 

Raffaella Di Meglio (classe 1971) si è laureata in Lettere moderne e insegna materie letterarie in un liceo. Ama camminare e fare trekking, ama il contatto con la natura, viaggiare, leggere.

 





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