di Gioia Nasti
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• Introduzione
• La regina del gotico: Ann Radcliffe
• La scommessa di un capolavoro
• La forza dell'ironia: il modello contrapposto
di Jane Austen
Posto tra la fine del Settecento
e l'inizio dell'Ottocento,
il revival gotico
comincia come riscoperta dell'architettura medievale grazie all'impulso
che Christopher Wren ed i suoi allievi diedero a questa forma d'arte.
Prima il Castello del Conte di Manchester, poi la progettazione e la
costruzione delle torri dell'Abbazia di Westminster, infine la realizzazione
del Coro della Cattedrale di Gloucester segnarono il gusto artistico
di questo periodo, che in seguito non si limitò più alle
sole forme architettoniche, ma venne comunicato anche alla pittura e
ad altri ambiti artistici.
L'espansione di questo nuovo gusto fu anche
facilitata dai fratelli Warton. Era il 1762 quando Thomas Warton, nelle Observations
on the Faerie Queen, tentò di delineare una storia dell'architettura
gotica; egli, però, compì qualcosa di enormemente più
importante: accostando l'architettura al poema di Spenser, spianò
la strada ad un connubio che verrà poi approfondito da Horace
Walpole nello stesso anno in Anecdotes of Painting, in cui
un capitolo fondamentale fu dedicato proprio agli architetti medievali.
La
dimostrazione tangibile di questo gusto medievaleggiante fu la costruzione
di Strawberry Hill, la residenza che Walpole acquistò nel
1747 e che trasformò
completamente secondo i gusti del revival gotico. E fu proprio dalla
dimora che Walpole si fece costruire che il filone gotico partì per
trasmettersi dalle arti figurative ed architettoniche alla letteratura.
Questo ritorno al gusto medievale è dettato fondamentalmente
anche da una situazione politico-sociale e culturale particolare. Innanzitutto,
il positivismo, che aveva imperato durante la prima
parte del Settecento, ed il razionalismo, ad esso collegato, vengono
messi in discussione, mentre
l'immaginazione diventa la facoltà umana più apprezzata.
Anche il rapporto con la natura si evolve e diventa l'esprimersi della
varietà e della molteplicità. Cadono anche la rigidità
dell'ordine sociale, l'importanza degli elementi conservatori e le limitazioni
imposte dalle istituzioni.
In questo periodo di riscoperte e di negazioni, di progresso e di sconvolgimento,
due rivoluzioni tingono di colori strani e foschi la società e
l'ambiente: la Rivoluzione Industriale e la Rivoluzione
Francese.
Il primo sconvolgimento, la Rivoluzione Industriale,
accentuato dalla caduta dell'ancien régime, porta
come conseguenza la riorganizzazione della gerarchia sociale. I
nobili vengono
"spodestati" dai nuovi borghesi, le loro terre vendute per
fare posto agli stabilimenti e alle fabbriche, la loro ricchezza diventa
sempre più esigua. In pratica, l'aristocrazia si riduce ad un
mero titolo nobiliare, privo di ogni valore e significato. Sull'altra
sponda, la borghesia diventa il simbolo della società operosa,
della società
che conta. L'avvento dell'industria, però, porta con sé
un altro sovvertimento; l'uomo vede cambiare il
paesaggio circostante e, quindi, il suo rapporto con la natura.
La fabbrica prende il posto della campagna; le atmosfere angoscianti
delle miniere e del lavoro ripetitivo dell'industria lasciano nell'uomo
un senso di vuoto, o ancora meglio, un senso di terrore proveniente
dal primo approccio con una realtà
nuovissima e apparentemente terrificante, fatta di giganti di metallo
e di cunicoli bui.
Quello che la Rivoluzione Industriale ha creato nell'animo
umano a livello inconscio diventa invece una realtà di fatto
con la Rivoluzione Francese. Anche in questo caso, il sovvertimento
della gerarchia sociale diventa un punto cardine dell'esperienza umana.
Le atrocità
della Rivoluzione prima e del Terrore poi rivelano al mondo il lato oscuro
dell'uomo; la ghigliottina e la torture perpetrate ai danni di aristocrazia
e alto clero altro non sono che la riesumazione di angosce ataviche
insite nell'uomo e voce dei disagi del tempo.
Ed è proprio questo lato oscuro, questa angoscia, che il romanzo gotico esprime. Esso rivela la violenza che, tanto la Rivoluzione Industriale quanto quella Francese, hanno presentato al mondo intero. E ne mostra anche, come prima conseguenza, l'impossibilità di affidarsi a valori o a persone che, finora ritenute degne di fiducia, diventano, in realtà, nemici giurati. È, ad esempio, il caso di Manfred, oppure del monaco Ambrosio. Il primo, custode della giovane Isabella in quanto sua futura nuora, in realtà cerca di sedurla e costringerla a sposarlo dopo aver ripudiato la propria moglie. Il secondo, simbolo della purezza monacale e della rettitudine agli occhi dei concittadini, è invece un uomo mostruosamente corrotto e lascivo che non ha esitato a stringere un patto con il diavolo. È questo il risultato delle due rivoluzioni: uno sconvolgimento totale nei rapporti umani, nella gerarchia sociale, nei valori, nel rapporto con la natura e l'ambiente circostante.
Ufficialmente ritenuto il primo romanzo gotico, Il
castello di Otranto fu pubblicato nel 1764. Horace
Walpole, il suo
autore, nella prefazione alla seconda edizione, spiega molto chiaramente
il suo intento, nello scrivere il romanzo, di "mescolare due tipi
di romanzo, l'antico e il moderno", mettendo in pratica ciò
che aveva imparato da "un grande maestro della natura, Shakespeare".
E in effetti, il romanzo gotico, in generale, ha proprio questa ambizione:
voler essere un trait d'union tra il romanzo cavalleresco, tanto
caro alla tradizione aristocratica, ed il nuovo romanzo sentimentale e
didattico, simbolo della nuova classe borghese. Inoltre, Il castello
di Otranto contiene tutte quelle caratteristiche cui, più
o meno esplicitamente, faranno riferimento tutti i romanzi gotici a venire,
varcando la soglia del periodo canonicamente riconosciuto come tale (seconda
metà del Settecento - inizi dell'Ottocento) e allungandosi fino
alle opere di Edgar Allan Poe, di Hoffmann, Lovecraft, Emily Brontë
ed il suo Cime tempestose, giungendo al Dracula di Bram
Stoker e alla contemporanea Anne Rice (basti ricordare La Mummia
o tutta la serie di romanzi i cui protagonisti sono vampiri).
Il castello di Otranto quindi viene considerato in assoluto il
primo romanzo gotico della storia della letteratura e pone quegli elementi
peculiari che si ritroveranno, tutti o in parte, identici o modificati,
nella sua "progenie":
"Questa storia è la progenie letteraria del Castello di Otranto".
Con queste parole Clara Reeve, nella prefazione della
sua opera, Il vecchio barone inglese, riconosce in Il castello
di Otranto il modello a cui ispirarsi per il suo racconto.
Come
Walpole, anche Clara Reeve chiama la sua opera "gothic story" e,
come lui, ha l'obiettivo di "unire i vari meriti e grazie dell'antico
romanzo cavalleresco e del romanzo moderno". In realtà,
nel
Vecchio barone inglese di gotico c'è ben poco; forse
giusto l'ambientazione nel periodo medievale, ma, a ben guardare, è facile
scorgere nei personaggi, nel loro vivere quotidiano, nel loro modo di
agire e di pensare una chiara impronta settecentesca ed un filone sentimentale
e borghese che ha caratterizzato tutto il XVIII secolo e che ha avuto
il suo massimo splendore in Samuel Richardson e in opere come Pamela
o la Virtù ricompensata oppure Sir Charles Grandison.
Non a caso il titolo con cui l'opera della Reeve apparve per la prima
volta era Il campione di virtù. Quindi, sebbene muova
i primi passi a partire da Walpole, l'opera di Clara Reeve, in effetti,
se ne discosta tanto per l'assetto del romanzo, quanto per il ruolo
didattico che va ad assumere. Ruolo che tutti i romanzi borghesi
del Settecento, o quasi, avevano come scopo fondamentale. La classe
della nuova borghesia, infatti, aveva bisogno di rappresentare se
stessa in maniera completamente diversa dalla nobiltà, che
fino ad allora aveva dominato la letteratura con il romanzo cavalleresco.
Ecco, quindi, che, nel nuovo romanzo, essa si pone come una classe
sociale virtuosa e laboriosa, timorata di Dio e accettatrice delle
sue volontà, qualunque esse siano, con la
convinzione che la Provvidenza saprà ricompensare i sacrifici
compiuti al momento giusto.
Nell'ottica di fusione, operata da Walpole e continuata dalla Reeve, anche
molti nobili "diventano" virtuosi: il cavaliere del Regno Sir
Philip Harclay, il Barone Fitz-Owen ed i suoi figli, Lord Clifford e Lord
Graham sono tutti personaggi che si dedicano al trionfo del bene, anche
se questo vuol dire mettere a repentaglio la propria vita, l'onore ormai
macchiato dei propri familiari, le proprie ricchezze. Inoltre, molto chiarificatrice
è la conclusione del romanzo, con cui Clara Reeve compendia lo
scopo ultimo della storia che è stata appena scritta: fornire "una
straordinaria lezione alla posterità sulla mano della Provvidenza
che tutto governa e sulla certezza di una ricompensa". Un romanzo
didattico, dunque, che ha un leggero sapore gotico poiché alcuni
elementi vi si possono ritrovare: c'è un malvagio che ha compiuto
un delitto per impossessarsi di un titolo e dei beni che non gli spettano;
c'è un eroe che deve superare diverse prove; c'è un castello
in cui si svolge gran parte dell'azione; c'è l'intervento del soprannaturale,
sebbene mitigato rispetto al Castello di Otranto, perché
risulti almeno verosimile; c'è l'amore contrastato, che poi si
risolverà in matrimonio; c'è l'agnizione finale ed il ristabilirsi
delle cose naturali. Tuttavia, l'impronta schiettamente didattica, borghese
e sentimentale si avverte con molta forza attraverso tutto il romanzo
nella continua rassegnazione alla volontà divina, nell'affidamento
a Dio e al suo sostegno, nella misericordia e nella clemenza, pur perseguendo
le vie della giustizia, nei confronti nei nemici.
La regina del gotico: Ann Radcliffe
Il romanzo gotico classico trova la sua più grande
ed importante rappresentante in Ann Radcliffe. Eppure, la Radcliffe non
è un'autrice famosissima se non nel periodo in cui ha pubblicato
la sua produzione letteraria. I suoi romanzi furono scritti mescolando
essenzialmente il romance of sensibility con il gothic romance
e producendo delle opere che, sebbene presentino i caratteri tipici del
romanzo gotico walpoliano, pur tuttavia sono sostanzialmente diversi da
questo modello. In tutte le sue opere c'è sempre un'eroina bella
e solitaria che, dopo tante sofferenze ed incertezze, riesce infine a
coronare il suo sogno d'amore sposando l'eroe, nonostante le macchinazioni
del malvagio (o dei malvagi) di turno.
Ann Radcliffe costruisce i suoi romanzi in modo che la suspense sia mantenuta
costante per tutto lo svolgersi della narrazione. Sebbene il lettore sappia
fin dal principio che il lieto fine è assicurato, questa certezza
nulla toglie alla tensione che l'autrice riesce a creare lungo tutto il
romanzo. Le peripezie dell'eroe e dell'eroina continuano anche quando
tutto sembra essersi risolto; anzi, proprio quando la trama sembra prendere
una strada sicura, spunta un imprevisto che separa i due protagonisti
e li getta in nuove avventure fino alla felice conclusione, tipica del romance of sensibility. La suspense si acuisce in determinati
momenti, in cui sembra che tutto sia perduto. È il caso, ad esempio,
della forzata monacazione di Elena di Rosalba nel romanzo L'italiano,
alla quale la ragazza riesce a sfuggire soltanto grazie al suo coraggio
di negare tutto davanti alla folla che era intervenuta alla cerimonia
(volume primo, capitolo 11), nonostante sapesse quanto perfida potesse
essere la vendetta della badessa. Oppure è il caso dell'interrogatorio
di Vincenzo di Vivaldi nelle segrete dell'Inquisizione mentre gli aguzzini
preparano gli strumenti di tortura (volume terzo, capitolo 5) e alla quale
scampa soltanto perché gli pare di sentire la voce del monaco che
aveva visto nelle rovine di Paluzzi. E poi ancora piccoli episodi che
contribuiscono ad aumentare la tensione: il biglietto che Vincenzo passa
ad Elena quando è ancora prigioniera del Convento di S. Stefano
e che lei non riesce a leggere perché la lampada cade e si spegne;
la fuga di Elena e Vincenzo che si perdono in un labirinto e vengono salvati,
in extremis, da un monaco riluttante; il tentativo di assassinio
di Elena da parte di Schedoni mentre la ragazza dorme, che viene evitato
soltanto perché lui si accorge del medaglione e pensa che sia sua
figlia.
La creazione ed il mantenimento della suspense è
uno dei tratti peculiari dei romanzi della Radcliffe, che, però,
si distacca dal modello walpoliano per quel che riguarda altre caratteristiche:
l'utilizzo dei paesaggi, la concezione del soprannaturale, la creazione
dei personaggi.
A differenza di Walpole, Ann Radcliffe utilizza le descrizioni dei paesaggi
non come puro sfondo dell'azione, bensì come ambienti catartici
in cui i personaggi del romanzo possano specchiare i propri
sentimenti, possano trovare sollievo alle tribolazioni della vita. Le
numerose descrizioni presenti nel testo appaiono talvolta eccessive, tanto
nei dettagli quanto nella lunghezza, a scapito dei dialoghi, al contrario
del Castello di Otranto, in cui invece le descrizioni sono ridotte
al minimo ed i dialoghi abbondano. Eppure queste interminabili descrizioni
risvegliano i sentimenti di pace ed i ricordi nei diversi personaggi.
Basti pensare, ad esempio, al sollievo che Elena riceve dall'ammirare
il paesaggio roccioso dalla torre del Convento di S. Stefano quando vi
è prigioniera (volume primo, capitolo 8) oppure ai ricordi di Paolo
della sua Napoli che la vista del lago di Celano e dei villaggi d'intorno
suscitano in lui (volume secondo, capitolo 2).
Anche il soprannaturale nei romanzi della Radcliffe ha uno scopo del tutto
particolare. Mentre Walpole fa un uso continuo e costante di eventi soprannaturali
inspiegabili, la Radcliffe getta qua e là dei dubbi su eventi che
appaiono inspiegabili e li lascia insoluti perché l'atmosfera di
terrore aumenti, salvo spiegarli poi alla fine del romanzo, quando tutti
i capi rimasti sospesi vengono finalmente portati a termine. Un caso emblematico
è quello del monaco che Vincenzo, prima da solo e poi con Paolo,
il suo servitore e amico, vede nelle rovine di Paluzzi. Questo monaco
sembra spuntare dal nulla quando avverte Vincenzo delle disgrazie che
stanno per abbattersi su Villa Altieri, la dimora di Elena, e sulla sua
famiglia. Di questo stesso monaco egli sentirà la voce nelle segrete
dell'Inquisizione, a Roma, dove si comporterà da vero e proprio
"fantasma": durante uno degli interrogatori di Vincenzo sarà
solo una voce che nessuno degli altri presenti ode; durante il trasporto
di Vincenzo dalla sua cella alla camera della tortura sarà un essere
che soltanto lui riesce a vedere, mentre resta invisibile ai carcerieri
che lo accompagnano; durante le sua prigionia sarà un essere che
si materializzerà nella sua cella pur non passando dalla porta
dove sostano i guardiani. Soltanto alla fine del racconto Vincenzo scoprirà
che è un monaco in carne ed ossa, complice dei delitti di Schedoni,
che riusciva ad apparire dove voleva grazie ad un intrico di passaggi
segreti esistente nelle carceri dell'Inquisizione.
I personaggi del romanzo L'italiano si presentano tutti come personaggi piatti, fatta eccezione per Schedoni. I marchesi di Vivaldi, la signora Bianchi, Paolo, i personaggi minori, perfino Elena e Vincenzo sono infatti dei personaggi disegnati con pochi tratti essenziali, che non si evolvono, né sono soggetti a conflitti interiori. Tuttavia, essi sono descritti in maniera molto dettagliata. Di questi, Olivia, Zampari e padre Ansaldo nascondono dei segreti che verranno poi alla luce (Olivia si rivelerà essere la madre, creduta morta, di Elena; Zampari si rivelerà il monaco delle rovine di Paluzzi, ex-complice di Schedoni e poi suo accusatore; padre Ansaldo si rivelerà l'innamorato di Olivia, che poi ha preso i voti ed è divenuto depositario della confessione di Schedoni) e per questo sono, in un certo senso, più interessanti. Elena, in un certo modo, evolve durante la narrazione, nel senso che diventa più cosciente del mondo che la circonda, perché, da uno stato di grazia e di protezione in cui si trova prima di conoscere Vincenzo, deve poi affrontare le diverse e pericolose peripezie della vita sociale, mettendo a rischio anche la sua incolumità, per giungere all'agognato lieto fine, percorrendo così un sentiero di iniziazione all'età adulta. Schedoni è, invece, l'unico personaggio ad avere una personalità forte; egli è un uomo malvagio, capace di gestire gli altri personaggi a suo piacimento e per i suoi scopi: la marchesa di Vivaldi, Spalatro, perfino Zampari sono tutti burattini che egli manovra per arrivare ai suoi obiettivi personali. Eppure, Schedoni non è immune da sentimenti, sebbene faccia di tutto per nasconderli. Non solo la rabbia, l'ira e la voglia di vendetta albergano in lui, ma anche la pietà (addirittura piange quando vede il medaglione di Elena e la riconosce come sua figlia), la confusione, quando Elena gli pone domande sul mandante del suo assassinio, la vergogna per la gratitudine che Elena gli dimostra convinta che lui l'abbia salvata da morte sicura.
Lo stravolgimento più importante rispetto ai canoni fissati da Walpole viene operato nella triade eroe-eroina-malvagio; mentre nelle opere gotiche classiche l'agnizione finale è un momento importante per il giovane eroe, che finalmente vede riconosciuto i suo ruolo ed il suo stato sociale, nel romanzo L'italiano ad essere riconosciuta come discendente di una famiglia nobile è l'eroina. Elena di Rosalba affronta un primo vago, e, come poi si vedrà, sbagliato, riconoscimento da parte di Schedoni durante il capitolo 9 del volume secondo, quando il monaco, per compiere il volere della marchesa, si appresta ad uccidere la ragazza e si ferma soltanto perché scorge il medaglione con il suo ritratto. Elena viene così a sapere che è discendente di un nobile casato, i Marinella, e pertanto degna di sposare Vincenzo. In realtà, la verità completa viene fuori soltanto nel capitolo 9 del volume terzo, quando Beatrice, la serva di Villa Altieri, riconosce in Olivia la moglie del conte di Bruno (fratello di Schedoni), che credeva morta; è solo allora che Olivia si svela per essere la madre di Elena e la sua storia viene alla luce. Eppure, manca ancora un pezzo perché tutto sia perfetto. Presentendo la sua morte, la marchesa di Vivaldi si era fatta promettere da suo marito che non avrebbe ostacolato più il matrimonio tra Vincenzo ed Elena, che essa reputa la causa della sua rovina; il marchese, pur riluttante, acconsente, ma quando scopre che il padre di Elena altri non è che Schedoni, che si è macchiato di orrendi delitti, tra cui un fratricidio, si rifiuta di mantenere fede alla promessa fatta alla moglie in punto di morte. Sarà allora soltanto lo svelarsi della verità detta da Olivia che permetterà alla storia di essere spiegata fino in fondo e ai due giovani di giungere finalmente ad un matrimonio tanto osteggiato e tanto desiderato, che, come in ogni romanzo gotico che si rispetti, conclude felicemente la narrazione.
Nasce per una scommessa tra amici uno dei più grandi
capolavori della letteratura inglese, il Frankenstein di Mary
Shelley. Dal diario di John Polidori, infatti, si sa che i coniugi Shelley,
ospiti di Lord Byron a Villa Diodati, nei pressi di Ginevra, insieme allo
stesso Polidori, discutevano di teorie filosofiche sull'uomo, di Darwin,
del galvanismo e leggevano la Fantasmagoriana, una raccolta di racconti
di fantasmi tradotta dal tedesco in francese. Fu su suggerimento di Byron
che i partecipanti decisero di scrivere una storia di fantasmi ciascuno,
da cui ebbe origine il capolavoro della Shelley.
L'opera si pone a cavallo tra il periodo gotico
ed il romanticismo; in essa
infatti troviamo caratteristiche peculiari sia dell'uno che dell'altro.
Frankenstein si pone anche come spartiacque nello stesso romanzo
gotico; prima di quest'opera il personaggio del malvagio era un essere
umano e l'intervento soprannaturale era essenzialmente costituito da apparizioni
di fantasmi e profezie. Con Frankenstein appare per la prima volta il
"diverso"; il Mostro non si può definire un essere umano,
benché sia stato creato con pezzi di cadaveri ed abbia in sé
più umanità delle persone che incontra sulla sua strada.
E dopo di lui appariranno altri esseri con sembianze umane ma sostanzialmente
diversi: uomini-lupo (detti anche lupi mannari o licantropi), vampiri,
streghe, demoni, morti viventi, ecc. che costituiranno i personaggi principali
del nuovo romanzo gotico e dell'orrore e che prenderanno il posto dello
stereotipo malvagio dei romanzi gotici del primo periodo.
La stesura del Frankenstein dimostra le numerose
influenze che ha subito, sia dalle tendenze scientifiche e filosofiche
del tempo, sia dai personaggi della tradizione letteraria, primi fra tutti
il Satana del Paradise Lost di Milton e il Faust dell'omonima
tragedia di Marlowe, sia dalla mitologia antica e precisamente dal personaggio
di quel Prometeo, presente nel sottotitolo, che ben spiega l'atteggiamento
di Victor Frankenstein. Prometeo è un ribelle che, per permettere
agli uomini di essere come Dio, ruba il fuoco dall'Olimpo e lo dona all'umanità.
Allo stesso modo Victor, come Prometeo, decide di condurre degli esperimenti
per donare agli uomini la possibilità di annullare la morte, di
essere capaci di creare dal nulla un nuovo essere umano con l'ausilio
della scienza. Purtroppo, il suo si rivela un fallimento. Non è
quindi un dono che il moderno Prometeo fa all'umanità, ma un incubo
divenuto realtà, che semina terrore e morte. Le scoperte scientifiche del periodo, chiaramente, hanno un grande peso nella creazione del personaggio
di Victor, uno scienziato puro, che vuole oltrepassare i limiti dell'umana
conoscenza (come Jekyll d'altronde), che sacrifica tutto, l'amore, gli
affetti, la famiglia, per dedicarsi interamente ai suoi esperimenti. Anche
l'isolamento è determinante nella costruzione del personaggio e
nell'economia del racconto. Frankenstein ha bisogno di essere solo per
creare, come Dio lo è stato nel creare gli uomini; tutti i suoi
sforzi devono concentrarsi sul suo compito, e quando il risultato si dimostra
essere deludente, come era stato solo nell'atto creativo, deve rimanere
solo nella verità, non può condividerla con nessuno, anche
perché il segreto è troppo grande e l'errore troppo terribile
per poterne mettere al corrente amici e familiari. L'isolamento e la solitudine
alle quali si costringe si evidenziano nell'impotenza di fronte alla morte
di Justine, accusata ingiustamente dell'assassinio di William, provocata
dall'impossibilità di comunicare agli altri la sua creazione, e
culminano nella negazione di una paternità naturale a causa dell'omicidio
di Elizabeth nella prima notte delle nozze.
La creazione di Frankenstein è però un atto senza alcun
sentimento; per lui è soltanto un esperimento scientifico al quale
non è neanche necessario dare un nome. Al contrario del Mostro,
il quale nutre per Frankenstein un sentimento di amore-odio tipico del
rapporto padre-figlio, chiarissimo nell'ultimo capitolo del libro, quando
il capitano Walton sorprende il Mostro nella cabina dove si trova il cadavere
di Frankenstein, pentito e piangente per aver ucciso tutti quelli che
gli erano più cari, lo scienziato vorrebbe liberarsi di lui; lo
considera un fallimento, eppure è l'unico "figlio" che
gli viene permesso, in quanto gli è stata preclusa la via naturale
di concepimento.
Frankenstein è l'eroe del romanzo. E anche Walton lo è nel
suo microcosmo. Il capitano, fin dalla prima lettera alla sorella, rende
palese il suo intento di navigare verso i ghiacci del Nord per compiere
un'impresa memorabile, che si faccia ricordare, proprio come Frankenstein
intende, attraverso, la creazione di un essere umano, donare all'umanità
una immortalità ottenuta attraverso esperimenti scientifici e non
attraverso il concepimento naturale. Eppure, dopo aver ascoltato la storia
di Frankenstein, il capitano Walton cambia idea; alla richiesta dei suoi
marinai di tornare indietro, egli acconsente infine, rinunciando alla
sua impresa folle ed incredibile. Come la maggior parte dei romanzi gotici,
anche Frankenstein quindi ha uno scopo didattico, quello di insegnare
agli uomini che la ricerca di esperienze che oltrepassano il limite umano,
la volontà di osare, di farsi uguale a Dio portano inevitabilmente
alla distruzione.
Frankenstein è un eroe gotico atipico perché, al contrario
dell'eroe gotico classico, non solo non riesce a proteggere la donna che
ama (Elizabeth, l'eroina) dal malvagio (il Mostro), ma è proprio
lui a crearlo e a metterlo nel mondo, provocando quella serie di assassini
che culmineranno proprio nella morte di Elizabeth. Inoltre, a differenza
del romanzo gotico classico, in cui il matrimonio tra l'eroe e l'eroina
mette fine alle loro peripezie e al romanzo, nell'opera della Shelley
il matrimonio tra Victor ed Elizabeth non produce frutto in nessun senso:
non pone fine alle disavventure dell'eroe e soprattutto non determina
quell'atmosfera di felicità che, invece, ci si aspetterebbe in
un romanzo gotico classico. La morte di Elizabeth, invece, esaspera ancora
di più il dolore di Frankenstein e l'odio nei confronti del Mostro;
ora non ha più nulla da perdere ed il suo unico scopo, fino alla
morte, è cercare, trovare ed eliminare la sua orribile creazione.
La forza dell'ironia: il modello contrapposto di Jane Austen
Romanzo della giovinezza di Jane Austen, L'Abbazia di Northanger si pone immediatamente come una parodia dei romanzi sentimentali e soprattutto gotici del periodo che va tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. Scritto nel 1797, ma pubblicato soltanto nel 1818, il romanzo inizia con la descrizione della sua protagonista, la giovane Catherine Morland; la descrizione che il narratore fa della protagonista proietta volutamente il lettore immediatamente nell'ambito del romanzo gotico:
"Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua prima infanzia avrebbe mai supposto che il suo destino sarebbe stato quello di essere un'eroina. Tutto era contro di lei."
Austen quindi prosegue specificando cosa Catherine NON
ha dei tratti dell'eroina: non ha un padre cattivo, ma rispettabile, non
è orfana di madre, anzi, ha altri sei fratelli dopo di lei, non
ha sorelle segregate nelle proprie stanze dal padre, non ha interessi
da eroina, bensì da "maschiaccio", non ha un aspetto
delizioso, né è pronta ed arguta. Insomma, si direbbe un
personaggio quasi insignificante.
L'approccio della Austen alla sua protagonista è volutamente ironico.
Jane Austen ben sapeva che, nel periodo in cui lei cominciava a scrivere,
imperava la moda del romanzo gotico, dove le eroine venivano presentate
con caratteristiche particolari e sempre ricorrenti. La presentazione
di Catherine ha quindi esattamente lo scopo di far sorridere proprio pensando
al confronto tra lei e le giovani protagoniste del filone gotico. La sua
avventura inizia quando i signori Allen la invitano a Bath ed i genitori
di lei accettano di mandarvela. Catherine, durante tutto il romanzo, vive
una sorta di iniziazione alla vita adulta e lo fa a spese proprie. Partendo
come accanita lettrice dei romanzi della Radcliffe e lasciandosi trasportare
dall'immaginazione, si troverà, a fine romanzo, a dover affrontare
la realtà rendendosi conto di quanto diversa sia dal mondo della
fantasia e dei romanzi.
Anche la nuova amicizia che Catherine stringe a Bath, quella con Isabella
Thorpe, è scandita da citazioni e rimandi ai romanzi gotici ed
in particolari alle opere di Ann Radcliffe. Le due ragazze letteralmente
"divorano" questi romanzi; Isabella addirittura compila una
lista di libri di questo genere per darla a Catherine. Sono fanatiche
del romanzo gotico, mentre disprezzano altri tipi di romanzi, tanto che
Isabella si riferirà all'opera di Richardson Sir Charles Grandison
con un commento poco lusinghiero: "Che libro orrendo". Ogni
occasione è buona per fare riferimenti a situazioni, personaggi
e dialoghi tipici di questi romanzi. Eppure il narratore non smette ogni
tanto di far ingresso nella trama, di effettuare delle vere e proprie
incursioni chiosatorie per sottolineare la posizione di Catherine rispetto
alle protagoniste della Radcliffe, come alla fine del capitolo del volume
1:
"E adesso posso lasciare la mia eroina alla notte insonne che è destino di una vera eroina: al cuscino cosparso di spine e bagnato di lacrime".
Il sogno di Catherine, di vedere finalmente da vicino un luogo come quelli descritti nei suoi romanzi preferiti, si concretizza quando il generale Tilney, padre di Henry, il ragazzo di cui lei è innamorata, la invita a trascorrere un periodo di tempo a Northanger Abbey, dove vivono. Catherine immagina già che i "lunghi umidi corridoi, le strette celle e la cappella in rovina sarebbero stati alla sua portata quotidianamente e non rinunciava neppure del tutto alla speranza di scoprire, sulla scorta di un'antica leggenda, qualche terribile traccia di una sventurata monaca oltraggiata". Perfino Henry la prende in giro presentandole scenari immaginari terrificanti all'interno dell'abbazia (cfr. capitolo 5, volume 2). Eppure, all'entrata a Northanger, Catherine neanche si accorge di essere arrivata a destinazione. A ben guardare le mura, gli arredi, le finestre, Catherine si accorge che l'abbazia non è proprio come se l'aspettava:
"Ad una immaginazione che aveva sperato in piccoli riquadri e in pesanti incassature in pietra, in vetri dipinti sporchi e pieni di ragnatele, la differenza appariva assai deludente".
Nonostante le premesse negative, Catherine VUOLE vedere
in ciò che l'attornia indizi di un mistero che si cela dietro ogni
oggetto. Una cassapanca, che in realtà nasconde solo una sovraccoperta
di cotone bianco, e uno scrittorio, difficile da aprire, ma contenente
soltanto una lista della biancheria, la deludono ma non forniscono alla
giovane protagonista un motivo deciso per distinguere bene la realtà
dalla fantasia.
Qualcosa di terribile ed insieme eccitante, però, sta per prepararsi
per Catherine. Da quando è arrivata a Northanger, desidera visitare
l'abbazia. Il primo indizio strano ai suoi occhi è il fatto che
il generale Tilney non vuole assolutamente che veda l'abbazia da sola.
A questo si aggiunge il fatto che la passeggiata preferita da Eleanor,
che poi è la stessa che prediligeva la madre morta, non piace affatto
al generale. E poi il ritratto della defunta signora Tilney, che il generale
non ha voluto in salotto, e la stanza della galleria che non riesce a
vedere proprio per il fortuito intervento del generale, la convincono
sempre più che egli nasconda la moglie segregata in quella stanza
remota. Ritornano quindi prepotenti i ricordi di ciò che ha letto.
Ecco quindi che nell'andare su e giù per il salotto egli viene
paragonato al protagonista perfido dei Misteri di Udolpho:
"Ma quando lo vide, alla sera, … camminare lentamente in salotto per un'ora di seguito in silenzio, pensieroso, a occhi bassi, con la fronte corrugata, fu sicura di non sbagliare. Quella era l'aria, l'atteggiamento di un Montoni".
E la morte improvvisa della signora Tilney ed il suo immediato
funerale sono, ai suoi occhi, altri tasselli che vanno formando il quadro
ineluttabile di una segregazione misteriosa della povera signora ad opera
del generale, anziché rivelarsi una prova sufficiente alla semplicità
della realtà: "Catherine aveva letto troppo per non essere
perfettamente consapevole della facilità con cui può essere
sostituita al corpo una figura di cera e può essere tenuto un falso
funerale".
A questo punto la delusione e lo scontro con la realtà sono in
agguato. Quando si trova, infatti, nella stanza che lei credeva chiusa
per nascondere un mistero, Catherine si imbatte in un appartamento normalissimo
dell'ala nuova dell'abbazia. Ma l'evidenza con cui sta per scontrarsi
le darà un colpo anche più duro. Uscendo dalla stanza della
galleria, si scontra con Henry Tilney che, parlando con lei, intuisce
lentamente tutta la verità di quella sua presenza lì: Catherine
si è lasciata suggestionare dal luogo, da ciò che ha visto
e dalla improvvisa morte della giovane e bella signora Tilney ed ha immaginato
che qualcosa di terribile il generale abbia potuto fare a sua moglie.
Il rimprovero che Henry le rivolge la costringe finalmente a capire che
ciò che legge nei romanzi non è la realtà e che questa
è tutt'altra cosa. Questa intuizione, che rappresenta per lei il
passaggio dall'età adolescenziale all'età adulta, come le
avventure e le disgrazie lo erano per le eroine della signora Radcliffe,
viene compendiata in una frase che finalmente le permette di uscire dal
bozzolo e diventare farfalla:
"Per quanto fossero affascinanti le opere della signora Radcliffe, …, forse non si doveva cercare in loro la rappresentazione veritiera della natura umana, almeno di quella delle contee dell'Inghilterra centrale".
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