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Nei sentieri di Antonia Pozzi

di Maria Barchiesi

Nella categoria: HOME | Articoli critici

 

Una ri-lettura dell’opera di Antonia Pozzi, poetessa che morì suicida, nel 1938, giovanissima.

 

Poesia che mi guardi

Un film di Marina Spada

Poesia che ti doni
Soltanto a chi con occhi di pianto
Ti cerca
Rifammi tu degna di te,
Poesia che mi guardi.

Antonia Pozzi

“Poesia che mi guardi” propone una rilettura dell’opera di Antonia Pozzi, poetessa che morì suicida, nel 1938, appena ventiseienne, attraverso la lettura di alcuni suoi testi, di scene che la ritraggono nella vita familiare, con amici, mentre gioca a tennis, mentre nuota e propone fotografie in bianco e nero che l’artista scattò e che raffigurano paesaggi, spesso solitari.

A questo piano narrativo se ne sovrappone uno contemporaneo. Maria, una regista di cinema, voce narrante del film, è affascinata dalla poesia di Antonia Pozzi, ne studia l’opera e decide di ricercare il mondo e i personaggi della sua vita. Nel suo progetto di riscoperta dell’opera della poetessa milanese ai giorni nostri, Maria riesce a coinvolgere un gruppo di studenti universitari che, nel capoluogo lombardo, sui muri della città, scrivono e quindi diffondono le loro poesie in forma anonima. La scelta dell’anonimato da parte della regista ripropone un aspetto della vita e della produzione poetica di Antonia Pozzi rimasta appunto ai margini della critica ufficiale per alcuni anni.
Marina Spada alterna il suo lavoro di docente presso la Scuola di Cinema di Milano con l’attività di regista; ha esordito nel lungometraggio con “Forza cani” e il suo lavoro successivo, “Come l’ombra” è stato presentato alle Giornate degli Autori, nel 2006.

Stilisticamente ricercato, “Poesia che mi guardi”, nelle intenzioni della regista, vuole essere una riflessione sulla poesia e sulla sua necessità.

Amo la poesia e amo i poeti perché danno voce, coraggiosamente, a ciò che di solito è taciuto. Antonia Pozzi, in particolare, mi aveva fulminata perché la sua poesia è libera, carnale, sincera.

Il film riesce a restituire almeno parzialmente l’ispirazione e la ricerca della poetessa, nonostante la sovrapposizione dei giovani universitari con le loro velleità poetiche, tolga spazio all’espressività e alla liricità dei testi e alla loro potenza evocativa.

 

Antonia

Un film di Ferdinando Cito Filomarino.

Il film di Ferdinando Cito Filomarino propone la vita di Antonia Pozzi nei suoi ultimi dieci anni, da liceale a universitaria a giovane insegnante; l’attrice, Linda Caridi, la interpreta senza cedere alla necessità di esprimere verità assolute. Lo sfondo è Milano, i luoghi cari ad Antonia, ai tempi bui del fascismo, che appare nel film in trasparenza. Per  Antonia, dell’alta borghesia, sono anni di formazione, di amicizie, di studio, di scoperta, di scrittura e d’amore. Le riprese privilegiano specchi, finestre e un punto d’osservazione basso parallelo al pavimento.

Il film ha un cuore ed è una scena lunga quanto una canzone: Antonia è di spalle adagiata su un fianco, nuda (poco probabile per chi conosce la sensibilità della poesia di Antonia Pozzi), con le gambe rannicchiate e il viso girato di profilo verso lo spettatore; non è sola (un poco di forzatura: la poetessa ha sofferto di solitudine), la voce e la musica di P. Ciampi irrompono e l’accompagnano: si tratta dell’interpretazione di Va, canzone del 1976; il pezzo intende evidenziare un incontro perfetto. I versi dipanano il racconto. Ci sono forza e dolcezza, ci sono sguardi e immaginazione, musica e poesia si compenetrano e tutto sembra attraversare il corpo, ma di quale corpo? Della poetessa o della poesia? E’ una magia che il regista compie e a cui va riconosciuto il merito per originalità e coraggio.

Il film colpisce per stile, essenzialità; la natura, amata dalla poetessa, è attraversata nella quotidianità: fiori, bosco e montagna che viene scalata fin sulla vetta e quasi senza fatica, senza sudore. Anche la passione amorosa (sognata ma poco reale nella vita della poetessa) sembra non sentire stanchezza. I desideri si stemperano senza che vengano appagati in pieno. La poesia è mostrata in più punti manoscritta e stampata, ma sempre silenziosa, mai declamata. Il corpo è poetico, per questo musicale, ma trattasi di poesia scabra ed essenziale, quotidiana e alla ricerca di “parole leggere”. E’ poesia del novecento, letta dallo stesso Montale nella giusta luce. 

 

 

Uno spazio di vita. Su Antonia Pozzi

Antonia Pozzi si uccide nel 1938, in un’età della vita che difficilmente sfugge alla connotazione sociale di giovane. La poetessa nasce nel 1912, ha soltanto ventisei anni al momento della scomparsa. Nell’ambito della successiva ricezione critica della sua opera, la sua morte sembra aver canalizzato le prospettive analitiche come un’indicazione di per sé. Come se, in altre parole, nel suicidio della giovane poetessa risieda una chiave di lettura aprioristica della sua opera in versi. Uno degli elementi che ha contribuito a ciò è certamente costituito dalla matrice “crepuscolare”, se proprio si vuole utilizzare un canone letterario, delle sue poesie. La rilevanza in essi di nuclei tematici come quello della malinconia, della morte e dell’inaccessibilità della felicità, ha costituito l’innesco di un meccanismo di sovrapposizione “antropologica-poetica” nella lettura critica. Come se il suicidio di Antonia Pozzi sia da leggersi scientemente nella prospettiva di traduzione di significato, cioè di tristezza identitaria, crepuscolare: dalla dimensione oggettuale-estetica della composizione a quella fisiologica della vita concreta. Tale meccanismo associativo è espressione di miopia in ambito critico. La connotazione dell’identità stessa di Antonia Pozzi mediante il prisma del suicidio rischia di assumere il carattere di una prassi critica molto limitante ed il suicidio diventa così categoria interpretativa, più che notizia biografica. Sicuramente il tema della fine della vita occupa uno spazio cospicuo nei suoi versi, infatti il conto dei termini connessi alla parola morte, che da sola appare trenta volte, supera le cento unità. Se ci lasciamo coinvolgere da tali valutazioni linguistiche o numero di lessemi, cadiamo facilmente nell’errore di sovrapporre biografia e opera poetica in un rapporto di interdipendenza e non problematizzata. La questione interpretativa si aggrava se si considera che, riferendosi ad Antonia Pozzi, si sta guardando ad una figura sulla quale oltre il suicidio pesa l’insieme dei condizionamenti aprioristici derivati dalla femminilità. Vi è il rischio di una lettura critica condizionata da questa situazione: non un poeta suicida, ma una donna suicida e poeta solo in seconda battuta. La portata epocale di questa problematica è stata ampliamente sottolineata, e trova oggi nei presupposti della critica femminista delle istanze di decostruzione. Nello specifico delle questioni testuali, letture come quella offerta da Tania Modleski in "Feminism and the Power of  Interpretation: Some Critical Readings" costituiscono un punto di partenza per riprendere contatto con una dimensione critico-interpretativa declinata nella specificità del caso identitario femminile. In polemica con il rifiuto di alcuni teorici di riconoscere il concetto di “ground”, di “retroterra” come luogo da cui è possibile teorizzare, costruire, modificare e rendere consapevole l’esperienza femminile.

E’ fondamentale sottolineare questa nozione di retroterra perché essa è relazionale, quindi usata per designare un processo mediante il quale, per tutti gli esseri sociali, viene costruita la soggettività. Per ogni persona la soggettività è una costruzione continua, non un punto fisso di partenza o di arrivo da cui poi si interagisce con il mondo.

L’attribuzione di un valore primario alla dimensione esperienziale del soggetto scrivente diventa, nella prospettiva di Modleski, un’azione necessaria nell’ambito del superamento di impostazioni critiche fortemente condizionate in senso vetero-patriarcale. La focalizzazione sulla singolarità ontologica femminile, tuttavia, non costituisce nel contesto critico letterario uno strumento per l’interpretazione dell’esperienza stessa. Al contrario, si rende utile nella lettura dell’opera: permette di identificare e penetrare analiticamente, a livello concettuale e stilistico, i punti fissati dalla singolarità femminile del soggetto scrivente. Il senso di svincolare, nel discorso critico, l’opera di Antonia Pozzi dal suicidio della sua autrice, non è dunque quello di ricavare una prospettiva che stravolga la consueta attribuzione di valore letterario all’atto, come si legge nella riflessione di Adele Ricciotti: “parte di una poesia solitaria subita fino alla fine, attraverso la purezza e la verità dello spirito che l’ha scritta”. S’impone, invece, come un’azione necessaria all’approfondimento del complesso ontologico e concettuale della sua poesia, in specifica considerazione della centralità nodale, in essa, dell’elemento dell’identità.

Io credo questo:
che non si può cambiar nome,
cambiar volto,
alle creature già nate
nel cuore.

Così si apre “Unicità”, poesia del 1933. L’immutabilità dell’essenza del singolo è affermata come credenza particolare, personale, che riguarda tanto il piano dell’esistenza materiale (cambia volto) quanto quello dell’identità logica (cambiar nome). L’essere nati reca così un senso di invariabilità esistenziale. Il dolore che connota l’esperienza umana non è direttamente generato da questa verità, ma costituisce una conseguenza empirica dell’invariabilità stessa, del dover-essere “nel cuore” privi di cambiamento. Un ulteriore aspetto del tema dell’immobilità dell’essenza singolare nell’esser nati giunge nel 1935 in “Rinascere”, composizione di sessantadue versi in cui,  in un’esistenza singolare di vite “chiuse” v.9, la rinascita consiste in un miraggio relativo all’innamoramento per l’altro.

Uccello lieve
Il mio cuore
ed ogni tuo sguardo
un suo volo profondo
in un remoto tempo
azzurro-
solo la mia
gioia
e rinascere in te.

Il cuore, che ritorna come immagine topicamente legata alla singolarità emotiva, incontra nell’altro una possibilità di leggerezza. Questa è, tuttavia, proibita dall’incapacità di rinascere, atto che l’io non conosce: il verso interno “rinascere non sai” è presente per ben due volte. La percezione della propria identità trova così una espressione, una descrizione nell’incontro con l’altro da sé, amato. La declinazione dello sguardo diventa poesia; è una peculiarità di molte poesie di Antonia Pozzi; l’autodefinizione e le sensazioni del sé trovano una collocazione lirica.  Nel 1933, come sottolinea Matteo Vecchio, elabora una poetica in cui la poesia diventa pura catarsi del dolore, la poetessa scriverà “lo sforzo immane di vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vivere”. La tensione sacrificale si accentua e nella poiesis del verso esprime della sua esistenza questa pratica del dolore ed è proprio nel 1933 che il numero delle poesie si fa cospicuo, 89 liriche. Si coglie comunque la ricerca di un distacco, di una oggettivizzazione, il sottrarre la poesia al dato immediato e intensità del sentire e ad un aspetto acriticamente autobiografico. E’ in particolare la lezione filosofica di Antonio Banfi a fornire la consapevolezza della frattura quasi epocale tra vita e scrittura. L’esperienza della vita non è tacitata ma certo potremmo dire condensata, limitata, limata, ciò si coglie nella poesia “Copiatura”:

Nel giallore temporalesco
Le mie poesiucole
Ricopiate su un quaderno di scuola
per te. 
L’anima s’appiattisce
tra passato e presente
come un’avvizzita corolla di papavero
a ricordo d’ un idillio di viaggio-
fra le pagine di una guida turistica.

La poetessa è immersa nella realtà che descrive, il suo punto focale è immerso nella concretezza di uno spazio e di un tempo; tale concretezza si riscontra in questi sintagmi giallore temporalesco, poesiucole ricopiate e quaderni di scuola. In questa lirica la dimensione della vita concreta e il riferimento alla persona amata coesistono. In questa poesia il ricordo è solo accennato, mentre un mese prima concludeva “La discesa” declinandosi in questi termini:

Nel mio ricordo stanco, disperato,
tu ti frantumi d’ombra e di silenzio.

La sostanza identitaria dell’atto poetico-creativo di Antonia Pozzi oscilla nella frattura, declinata da Banfi, tra vita e scrittura. Una chiave di lettura della disamina compositiva della poetessa giunge, nella contemporaneità recente, da Giorgio Agamben nel suo trattato filosofico “L’uomo senza contenuto”. La soggettività artistica è l’essenza assoluta, per la quale ogni materia è indifferente. Se l’artista cerca ora in un contenuto o in una fede determinata la propria certezza, è nella menzogna, perché sa che la pura soggettività artistica è l’essenza di ogni cosa; ma se cerca in questa la propria realtà, si trova nella condizione paradossale di dover trovare la propria essenza proprio in ciò che è inessenziale, il proprio contenuto in ciò che è soltanto forma. La sua condizione è, perciò, la lacerazione radicale: e, fuori di questa lacerazione, in lui tutto è menzogna.

Ho qui inteso riportare nella sua interezza un passaggio che racchiude il senso di una riflessione articolata nel capitolo in particolare “Un nulla che annienta se stesso”. Nelle parole di Agamben, dense della radicalità teoretica della prospettiva estetica romantica, la poesia è posta come oggetto in cui l’identità artistica raggiunge il suo assoluto non nella totale negazione della contingenza della vita, ma nello scarto di ogni creazione realizzata a partire da essa. Nel trascrivere nell’opera il contenuto esperienziale singolare, determinato al di fuori della stessa creazione, il poeta si orienta, per così dire, verso la “menzogna”. L’esteriore, empirico, è dunque inessenziale, e porta il poeta a quella stessa lacerazione espressa da Banfi. L’assoluto dell’esperienza poetica è così assoluto identitario, che non annulla la personalità singolare ma ne definisce l’essenza, quasi scolpendola esteticamente. La consapevolezza della “trascendenza del principio creativo-formale” reca con sé, per l’artista, la chiarissima riprova della frattura tra vita e scrittura. Così questi è “uomo senza contenuto, che non ha altra identità che un perpetuo emergere sul nulla dell’espressione”. Ciò impone la propria presenza nell'orientamento della vita artistica stessa. A fronte di ciò, la concretezza della percezione emotiva e spirituale dell’assoluto da parte di Antonia Pozzi non stupisce. Al contrario, a distanza di novant’anni rimangono estremamente significative le parole di una poetessa molto giovane in cui la solidità di una visione teoretica incontra una profonda sensibilità artistica.

Anche se non riuscirò mai a vedere nel vostro Cristo più che l’uomo, pure saprò farmi buona, saprò camminare, saprò crearmi dentro sempre più il mio dio: e non cercherò di conoscerlo, perché conoscerlo è rimpicciolirlo. Sarà un camminare con una meta canora dentro, che non si può vedere ma senza posa si sente; un vivere la vita senza abbandoni, creandosene dentro, ad ogni istante, gli scopi.
(Lettera ad Antonio Maria Cervi, il 13 aprile 1930 in   Antonia Pozzi: “se Dio non è lontano”)

La riflessione estetica agambeniana indica così una via interpretativa che consente di comprendere e quindi leggere l’incontro di tendenze logiche ed emotive soggiacenti alla poetica di Antonia Pozzi. Si comprende, pertanto, come nei versi della poetessa vi sia un equilibrio almeno perseguito, ontologico-estetico nello scrivere. Uso le parole di Agamben nel “conciliare la propria lacerazione”.

allora hai voce
tu in me-
con quella nota ampia e sola
che dice i sogni sepolti
del mondo, l’oppressa
nostalgia della luce.

Nell’unica “nota” è racchiuso il mare infinito della soggettività: le speranze e le aspirazioni, i sogni, il dolore dell’altro, nostalgia oppressa. La voce dell’altro da sé penetra l’identità artistica e, con sincretismo, si fa motrice dell’atto compositivo in cui l’identità della poetessa afferma se stessa. La dimensione biografica ed esteriore della vita sfuma o più precisamente non domina, ma si pone a latere. In questo senso, Antonia Pozzi scansa “la menzogna agambeniana” rendendo lo scrivere stesso come il fulcro immanente all’espressione dei suoi sentimenti. In tal senso, in tale prospettiva critica vanno comprese le sue parole a Vittorio Sereni, suo compagno universitario ed amico, al racconto di un mondo che “non esiste neppure come mondo a sé, ma è solo il morire di tutto un lungo spazio di vita”.

Nel periodo estivo del 1933 Antonia Pozzi scrive alcune poesie che aprono uno spazio tra la sua prigionia amorosa, la ripetizione di un desiderio e della sua irrealtà che trasforma in una fedeltà ossessiva, e un sentimento dell’esistere che riesce a far fluire una scintilla diversa, una ripresa inattesa, che si manifesta sulla superficie del vivere tra la memoria di un proprio tempo innocente e una riflessione sulle possibilità che appartengono alla creatività originaria della vita, donatrice di doni inattesi, come dopo un anno sentirà dire all’Università da Banfi. La sofferenza, in questa prospettiva, può apparire un’abitudine al dolore.

Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
…..
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.

Compare qui la parola “sogno” che poi sarà il modo definitivo di Antonia per interpretare un lungo periodo di vita: un’adolescenza che corre verso un desiderio d’amore, una donazione, l’amore intenso e difficile, gli insuperabili ostacoli familiari, la rinuncia interiore con un’istanza morale di approvazione del gruppo di compagni a cui in verità desidera ribellarsi, l’esternazione dei sentimenti, la ragionevolezza dell’amato lontano, la rinascita dei fantasmi funzionali alla ricostruzione della sua identità. Il “forse” introduce il sospetto che la vita sia solo un momento aurorale, quando il desiderio desidera senza rinchiudersi in un contenuto specifico e limitante. Alla notizia - e non sappiamo nulla del come sia pervenuta - che il suo oggetto d’amore è in un doloroso smarrimento, nell’autunno del ’33 è la poesia di Antonia a “fare morale”:

-oh non fermiamoci qui, dove il vento
 svelse un albero sulla nostra strada
che stramazzò
in forma di croce.
Oh, non pensiamo che basti il pianto
Ad accender la lampada dei morti.
Olio vuole la lampada
e legno il fuoco:
……..
Ma immensa foresta è la vita
con alberi e sentieri
infiniti. Bisogna
guardare a fondo, troncare
i rami morti con la nostra scure

Da dove venga questo irrompere della vita con “infiniti sentieri” è difficile da individuare, potrebbe essere un’eco letteraria riconducibile, secondo Maria Corti, a Borgese e il suono della stessa parola per descrivere paesaggi di montagna che Antonia aveva davanti a sé. La splendida metafora della foresta non ha un humus letterario, scaturisce dalla contemplazione e dalla costante vicinanza di Antonia alle sue montagne.
“Riconciliazione” del 3 novembre del ’33 è tutta giocata sui tempi della vita, dalla precedente chiusura senza scampo di sé in se stessa con una nullificazione del mondo, e, al contrario, una nuova collocazione nel teatro di un mondo più vasto dove non siano gli umori saturnini, per così dire, a gravare sull’anima e dare il colore delle cose.

Già troppo soffersero
del mio rancore
le cose: e vivere non si può
a lungo
se silenziosamente piangono
le cose, su di noi
…………
Io troverò me stessa
nel vecchio mondo
e profondo
sarà l’abbraccio
delle cose con me.

“Soffersero” e “troverò” sono i due tempi, e tra il passato e il futuro si colloca ora la fragile certezza che Antonia cerca ragionevolmente per se stessa, un equilibrio molto difficile quando per un lungo periodo, almeno due anni, si riconosce la propria identità in una difettività del proprio esistere. Del resto in altre occasioni il ricordo si spinge lontano sino al tempo innocente, felice di sé, il tempo della poesia sulla cinghia dei libri, quando la storia d’amore non invadeva lo spazio essenziale della sua vita. Una esilissima continuità corre tra la prima adolescenza e il desiderio di una liberazione da una se stessa che difficilmente riesce ad allontanare i fantasmi che sono il suo teatro di vita, la parte che assegna, non sempre con la necessaria forza, a se stessa.

...
Perché non portare
laggiù, nelle strade, la mia
nostalgia dei monti perduti,
tradurla in amore
pel mondo
che amai?

Un desiderio di accettare se stessa, quasi in un nuovo inizio, che poteva avere il suo segno, almeno esteriore, nella felicità nella vacanza al Breuil dell’estate del 1933:

Gioia di cantare come te, torrente
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d’esser nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d’aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.

La gioia è tutta nell’armonia dell’ “esser qui”, simile al rinascere con il tempo precipitoso del torrente. Qui è un lasciarsi andare privo della malattia del ricordo che ora tace.

 

Bibliografia:

Poesia che mi guardi, film di Marina Spada

Antonia, film di Ferdinando Cito Filomarino

Feminism Without Women, di Modleski

Une vie irrémédiable. Poèmes écrits, di Matteo Vecchio

L’uomo senza contenuto, di Agamben

L’Infinita speranza di un ritorno, sentieri di Antonia Pozzi di Fulvio Papi

 

Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.

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