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Il dibattito sull’economia antica è stato a lungo dominato dalla polemica tra primitivismo e modernismo. La posizione primitivista trova il suo massimo esponente in M.I Finley che evidenzia i caratteri arcaici delle attività economiche greche. Egli propone l’idea di un’economia quasi esclusivamente agraria, di tipo domestico, chiusa agli scambi, fino a tutto il IV secolo a.C; sostiene la prevalenza degli interessi politici rispetto a quelli economici, di quelli pubblici su quelli privati.
La posizione modernista evidenzia invece l’evoluzione e il carattere non propriamente moderno, ma più evoluto dell’economia greca, in quanto sempre più ampio spazio è stato dato alle attività commerciali, anche se, come scrive Polanyi non è possibile applicare al mondo antico principi nati per l’analisi dell’economia di mercato: l’economia antica può essere studiata solo nel quadro delle istituzioni che le erano proprie e in cui essa era integrata. Fermo restando la prevalenza dell’economia agraria, compaiono comunque circolazione e scambio di prodotti agricoli e artigianali presenti fin dal VI secolo a. C, come testimonia l’analisi tucididea (Tucidide I, 2-19). Secondo Tucidide (I,2, 1-2), infatti, il presupposto dello sviluppo del mondo greco arcaico sono la stabilità e il possesso terriero, ma affiora con chiarezza anche la presenza di un fattore diverso, quello della mobilità legata agli scambi, che da scambi di rapina (I,5) diventano scambi di acquisizione (I,7), evolvendo dall’ἀρπάζειν al χρημᾶτίζειν . Assenza di stabilità negli insediamenti implica assenza di commercio e di reciproche relazioni; per contro, stabilità, sicurezza di comunicazioni e sviluppo degli scambi sono fattori collegati che determinano un aumento di ricchezza ( I, 8,2-3 ; 13,1).
Il mondo arcaico ci pone di fronte ad un’economia di scambio in naturale sviluppo, che Tucidide, solitamente indifferente al fattore economico, individua con chiarezza.
Non possiamo trascurare le considerazioni di uno storico come Tucidide, d’altro canto neppure non tener conto che, nell’ambito della cultura greca, la teoria economica non dispone di una bibliografia specifica, specialistica, né di un autonomo spazio linguistico e concettuale. Elementi tematici come lo scambio, la ricchezza, i commerci, risultano dislocati nell’indagine etico-politica, senza acquisire una propria autonomia.
L’assenza di una teoria economica autonoma rimanda ad un’assenza della dimensione economica della vita sociale non immediatamente integrata nelle strutture politiche? O comunque sta ad indicare un carattere marginale dell’economia rispetto alla politica e all’etica? O si tratta di una vera e propria censura di autori che non hanno voluto individuare e comprendere la realtà economica del tempo, oppure l’hanno cancellata perché interessati a porre in primo piano la dimensione politica?
Queste domande incalzanti e stimolanti che Vegetti presenta nel suo saggio “Il pensiero economico greco”, non consentono una risposta univoca. Un tentativo di risposta sta sia nella ricostruzione della scena sociale che condiziona le modalità e articolazioni della riflessione teorica, che nelle analisi di filosofi, quali quelle di Platone ed Aristotele che, però sembrano molto più coinvolti da problematiche etico-politiche, rispetto a quelle economiche.
La scena sociale: questa scena è costituita, in un arco di tempo che va dal VI al IV secolo a.C. da una struttura politica peculiare della Grecia antica, la πόλις.
Ci sono in Grecia naturalmente molti tipi di πόλεις, talora anche profondamente differenziate tra loro; per l’analisi qui proposta, tuttavia, il caso centrale è costituito dalla πόλις ateniese, sia perché è la maggiore e in qualche modo paradigmatica, sia, soprattutto, perché è praticamente solo in questo contesto culturale che viene elaborato l’insieme delle riflessioni sociali, politiche, etiche ed economiche di cui ci occupiamo. La città si fonda su un peculiare patto sociale: ne sono membri (πολίται ) tutti e soltanto coloro che possiedono una proprietà fondiaria nel territorio ateniese : proprietari privati di terra, i figli di genitori ateniesi ed infine i teti; i cittadini divengono simultaneamente comproprietari della πόλις e delle sue risorse pubbliche: in primo luogo quelle demaniali (miniere, schiavi pubblici), in secondo luogo quelle politico-militari (tributi, dazi, bottini di guerra). Le modalità di acquisizione e di distribuzione si esplicano secondo le regole della politica: cioè rispettando quelle leggi costituzionali (la πολιτεία), lentamente modificate da Solone a Pericle, e demandando la soluzione dei conflitti sociali alle forme istituzionali della politica, sempre più democratizzate. Si verifica una polarità di fondo tra produzione privata e produzione pubblica, a vantaggio della seconda. La produzione privata (in gran parte agricola, in parte minore artigianale) è strutturalmente insufficiente a soddisfare i crescenti consumi della città.
Pertanto questi devono venire alimentati, per gran parte con le importazioni (grano, metalli, legname per la flotta, schiavi). Lo sviluppo della città, dei suoi consumi, delle sue importazioni deve essere finanziato in misura crescente con le risorse prodotte dall’attività politica, economica e militare condotta dalla πόλις in quanto tale. La miniera d’argento del Laurio consente ad Atene, al principio del V secolo, di dotarsi di ingenti risorse finanziarie: non distribuite come d’uso ai cittadini comproprietari, ma investite nella costruzione di una flotta, esse sono alla base della talassocrazia esercitata dalla πόλις nei decenni seguenti. Questo comporta uno sfruttamento della città su un’ampia zona marittima tra le coste dell’Asia minore e quelle della penisola greca.
Per poter garantire una democrazia all’interno della πόλις si attua una forma di imperialismo: gli alleati-sudditi dell’area geografica sopracitata devono versare tributi, dazi sui commerci, (anche sulle merci importate ad Atene per soddisfare le sue esigenze di consumo), costo dei servizi politico-culturali (l’amministrazione della giustizia e le rappresentazioni teatrali). Nella stessa area confluisce, a causa dell’aumento demografico, quella popolazione che non può trovare forme di sussistenza nella πόλις, secondo la formula della clerurchia (guarnigioni permanenti i cui uomini non operano da coloni, bensì vivono sui proventi delle terre loro assegnate che, tuttavia, continuano a venir lavorate dai proprietari d’origine). Queste risorse vengono poi in parte reinvestite nel potenziamento politico-militare della πόλις, in parte distribuite tra i cittadini comproprietari secondo tutta una serie di meccanismi: dalla grande politica di lavori pubblici di prestigio voluta da Pericle, alla retribuzione dei sempre più numerosi cittadini impegnati nelle diverse funzioni pubbliche (marinai della flotta, funzionari, giudici), fino alla pura e semplice retribuzione di cittadini in quanto partecipanti alle funzioni comuni, come l’assemblea e le rappresentazioni teatrali. Tale meccanismo andrà crescendo in modo consistente nel IV secolo. Questa situazione produce conseguenze importanti: la prima enunciata da Weber è che la città antica costituisce assai più un centro di importazione e di consumo che di produzione ed esportazione; la produzione da parte dei cittadini è addirittura scoraggiata, con il trasferimento di una buona parte delle energie sociali disponibili alle attività politico-militari. Lo stesso imperialismo non mira all’apertura di mercati e all’approvvigionamento di materie prime, quanto all’estensione dell’area di sfruttamento da cui estrarre risorse per il finanziamento dei consumi della città. La seconda conseguenza, che assume importanza strategica per questa analisi, è che l’economia si presenta sempre, come afferma Polanyi, come “canalizzata nel sociale”: le dinamiche economiche sia di produzione che di circolazione esistenti non assumono perciò una loro effettiva autonomia, in quanto l’aspetto politico appare sempre predominante.
E’ opportuno, in proposito, brevemente anticipare alcuni concetti, che saranno successivamente sviluppati, sulla nozione aristotelica di oikonomia per sottolineare come, se in una prospettiva culturale moderna, essa ovviamente costituisce un fondamentale “punto di partenza”’, nell’ottica del dibattito filosofico, il ruolo dell’economia nella società greca rappresenta invece “un punto d’arrivo” attraverso cui, in particolare Aristotele, sulla base di una rilettura critica di precedenti letture filosofiche e di una pressoché totale rimozione della dimensione acquisitiva dell’azione umana (crematistica), ripropone il primato del politico nella polis, nonostante la presenza di un’economia in rapida evoluzione e sempre più incentrata sul mercato e sulla moneta.
Bisogna partire da una precisa conoscenza del mondo greco del IV a. C. per meglio penetrare le indagini aristoteliche in questo campo, e per evitare di incorrere in eccessive generalizzazioni, che rischiano di allontanare dalla vera comprensione dei testi presi in esame: il primo libro della Politica ed il quinto dell’Etica nicomachea di Aristotele.
Per questo motivo vanno chiariti alcuni elementi di base, che sono sottesi alla terminologia usata nel primo libro e nell’intera opera.
Nella Politica l’oikos è comunque l’unità base della polis.
I riferimenti più frequentemente presenti nella definizione dell’oikos e del suo rapporto con la polis sono due. Aristotele, all’inizio della Politica, poco dopo la definizione dell’uomo come animale politico (πολτικόν ζῷον), afferma: “ogni polis è composta di famiglie”, specificando che a loro volta, le famiglie sono costruite attorno a tre rapporti umani fondamentali : padrone /schiavo, marito/moglie, padre e figli Pol I 31253b2-8” καὶ ἐλάχστα μέρη οἰκιας δεσπότης καὶ δοῦλος, και πόσις καὶ ἄλοχος, καὶ πατὴρ καὶ τέκνα”.
La composizione di questa cellula costitutiva della polis appare coerentemente precisata: una residenza, un gruppo umano che vi gravita intorno, definito da precise relazioni reciproche, un insieme di proprietà. Non bisogna sottovalutare l’aspetto che, seppur l’oikos precede, nella formazione, la polis, è comunque la polis ad essere il fine di tutto ciò che rientra nell’oikos ed essa, in un certo senso, che ora preciserò, precede l’oikos stesso.
Per tale chiarimento è necessario introdurre la questione del metodo; potrebbe sembrare una digressione estrinseca quella di indirizzare l’analisi verso la concezione dell’unità politica come di un “composto”, ma così non è, in quanto il metodo fa parte dell’indagine filosofica.
Il metodo è quello proprio della filosofia e di ogni scienza: considerare l’ultimo come il primo e il primo come l’ultimo. L’esposizione deve cioè partire certo dagli elementi più semplici (la famiglia e il villaggio), giungendo a quello più comprensivo (la polis), la polis mantiene la priorità logico ontologica del composto organico rispetto alle sue componenti. Dunque la polis è certo ultima nell’esposizione, poiché è il fine (telos) e la natura essenziale dell’oikos e del villaggio, è la loro unità (oikos e villaggio) pienamente realizzata, solo entro la quale quelli possono vivere e riprodursi. E il fine o la natura di una cosa, afferma Aristotele, è anche la causa prima del proprio sviluppo. La causa di uno sviluppo portato al suo pieno compimento è il “meglio”, cioè è un valore etico che, secondo il filosofo, nell’ambito politico non può che identificarsi con il “viver bene”, cioè secondo giustizia. Dunque, come si può notare, tutta l’argomentazione aristotelica si presenta fortemente dialettica, cioè tesa ad individuare all’interno di uno sviluppo reale, quello della polis, la connessione intrinseca di quegli elementi che ne segnano le singole tappe evolutive.
La formazione della polis non deriva da un accordo o da una convenzione stipulata dai singoli; essi, al contrario, sussistono solo all’interno della polis, la quale si configura come la struttura sociale a cui tendono tutte le altre forme di convivenza (la famiglia e il villaggio).
L’oikos (casa, famiglia) è la comunità originaria, nella quale l’uomo greco, libero “per natura”, si riproduce e conserva, nel rapporto di “genere”maschio-femmina, nel rapporto di dominio padrone-schiavo e padre-figlio la physis, cioè il fondamento naturale di questi rapporti originari. E’ l’etica umana e non solo la politica a fondare la costituzione della polis. L’insieme di più famiglie è il villaggio (kome) e più villaggi sono la cosiddetta polis. L’autosufficienza è la capacità autonoma di riprodursi dell’insieme sociale (sia esso familiare o politico), è il fine etico verso cui la natura umana è spinta immediatamente. Mi sembra a tal proposito, nell’approfondimento del rapporto tra oikos e polis, stimolante introdurre quanto ha scritto in “Vita activa” Hannah Arendt: la polis greca rappresenta per lei la realizzazione dell’ideale di libertà in un contesto pubblico, dove la libertà del singolo si manifesta se altri la vedono, e dove ci si incontra in quanto cittadini e non come persone private.
La vita privata ha il suo centro nella casa e nella famiglia. In questa dimensione l’essere umano è “naturalmente” assoggettato alle necessità della vita produttiva e riproduttiva: necessità di procurarsi il cibo, di curare il corpo, di conservarsi attraverso la generazione di altri individui.
I vincoli delle necessità e dei bisogni che dominano la sfera naturale dell’oikos vengono sciolti attraverso un atto di forza e di subordinazione, che costringe gli schiavi e le donne a svolgere i compiti determinati dalla vita biologica o naturale. La vita pubblica è il dominio dell’esistenza separata dalla vita domestica. Nella vita pubblica, ovvero nella polis, gli uomini sono liberi dalle pratiche di costrizione e dell’imposizione, non hanno bisogno di utilizzare forza e violenza, poiché si sono affrancati, nell’oikos, dalle necessità biologiche. La polis è una forma di costituzione di relazioni tra esseri umani liberi e uguali. In “Vita activa” Hannah Arendt teorizza la separazione tra pubblico e privato come presupposto della organizzazione politica. La distinzione tra oikos e polis che caratterizza la città greca è vista dalla scrittrice come fondamento della politica in quanto luogo dell’esercizio della libertà. Questa posizione può certamente essere criticabile, in quanto la dinamica della polis sta nella separazione tra pubblico e privato, centro della sua teoria politica, anche se il testo aristotelico, pur individuando caratteristiche diverse tra oikos e polis non separa queste realtà, anzi le unifica secondo una essenza ontologica e politica.
La relazione tra oikos e polis assume una rilevanza particolare proprio ad Atene, nel quadro della democrazia, che ridefinisce le due sfere e il rapporto tra di esse in maniera originale, rispondendo da un lato alle nuove condizioni sociali ed economiche createsi già all’alba dell’epoca classica, dall’altro ad un’esigenza di riconoscere principi che vanno affermandosi nel clima della nuova società.
La stessa esistenza materiale della città, e gli scopi sociali per i quali essa si è formata, impongono un’ulteriore trasformazione, dal semplice agglomerato urbano alla comunità politica sovrana, quindi lo sviluppo di una attrezzatura ideologica, morale, giuridica, capace di rendere pensabile, riconoscibile, dunque anche fruibile, l’esito dei processi profondi che hanno ristrutturato la società arcaica.
Più complesso e, in ultima analisi, sensibile alle esigenze della realtà storica della Grecia del IV secolo a C. appare la disamina aristotelica riguardo al problema politico.
Nel I libro della Politica, Aristotele sostiene che la polis rappresenta la comunità “più importante di tutte e comprende in sé tutte le altre”. La città infatti, essendo l’unico livello politico che può aspirare all’autosufficienza autarchica, ha la responsabilità di garantire il benessere dei cittadini portando a compimento quegli obbiettivi che non possono essere raggiunti efficacemente dai livelli sociali inferiori. In virtù della miglior capacità di intervento, spetta dunque al potere politico cittadino l’espletamento di funzioni essenziali quali difesa, ordine pubblico, giustizia, finanza pubblica e culto. Tuttavia, il riconoscimento della polis quale massimo livello di governo non avviene a discapito del ruolo delle collettività minori. Innanzitutto Aristotele riconosce la legittimità dell’oikos per i bisogni legati “alla vita di tutti i giorni” e del villaggio(inteso come unione di più oikos) per” i bisogni non strettamente giornalieri”. All’autorità politica cittadina spettano funzioni essenziali per il benessere dei cittadini, ma ciò non deve avvenire a discapito
“dell’autonomia costituzionale” di oikos e villaggi. Il sistema politico aristotelico, pur presentandosi rispettoso delle autonomie sociali, non si spinge sino a riconoscere la piena autonomia dell’individuo. Non che nella Politica manchino i riferimenti all’individuo ma essi, per quanto significativi, non possono essere sopravalutati. La società greca di Aristotele è una società fortemente olistica e preoccupata principalmente della realizzazione del bene comune.
Nella visione antropologica del filosofo l’uomo coincide con il cittadino e tra le due identità vi è piena corrispondenza. In un momento storico in cui il tramonto delle aristocrazie e la nascita degli agglomerati urbani impongono un’urgente e profonda revisione delle istituzioni politiche ad Aristotele appare come unica soluzione non un potere centralizzato, bensì la presenza degli oikos autonomi, per quanto possibile, e contemporaneamente prevedere un principio di sussidiarietà.
Senza pregiudicare l’aspirazione all’autorità del potere politico, egli riserva uno spazio di operatività a tutte le istituzioni espressive del pluralismo sociale e all’oikos in particolare.
Credo necessario, nell’ambito delle forme di potere politico introdotte da Aristotele, proporre una disamina sulle varie forme di governo analizzate nel secondo libro, onde individuare quella che consente una migliore realizzazione di coloro che sono la guida degli oikoi, i capifamiglia, cittadini liberi ed uguali.
Va fatta una premessa: per lo Stagirita la bontà di un qualsiasi governo non è data dal sistema, ma dal suo grado di degenerazione. Il regno ha la sua degenerazione nella tirannide, l’aristocrazia decade nell’oligarchia e la politeia nella democrazia, sinonimo di demagogia.
Col termine politeia Aristotele intende la “costituzione” ideale per le città più sviluppate, dunque la più adatta a città come Atene “società di liberi e uguali”.
La politeia è di fatto la città nella quale tutti i capifamiglia possono partecipare al governo della città stessa,
mediante l’elezione e il sorteggio delle cariche e delle magistrature e deliberano nelle assemblee.
In sostanza, secondo Aristotele, la politeia esprime gli interessi della classe media, dei capifamiglia degli oikoi e questa è una garanzia di moderazione e tendenzialmente di buon governo, di giustizia distributiva. Aristotele per giustizia distributiva non intende la distribuzione delle ricchezze, ma la distribuzione delle cariche e degli oneri fiscali. C’è giustizia distributiva quando tutti gli uomini liberi possono accedere alle cariche pubbliche e pagare le tasse in egual misura nell’interesse della polis. Secondo Aristotele, la politeia rappresenta in assoluto la costituzione più stabile, perché è la meno esposta ai cambiamenti rivoluzionari.
Le rivoluzioni si rendono inevitabili quando il popolo è oppresso da gravi ingiustizie ed i “buon” capifamiglia sono esclusi dalle cariche e dagli oneri della città, è questa una grave offesa all’onore e alla dignità dell’individuo, che può provocare reazioni ancora più violente di quelle originate dalla penuria e dall’indigenza.
Occorre quindi avere chiara consapevolezza del fatto che la parola democrazia è in se stessa una parola di rottura, in quanto esprime la prevalenza di una parte e non, invece, la partecipazione di tutti coloro che sono dotati di cittadinanza alla gestione della polis (concetto che è viceversa espresso con il termine greco isonomia).
Aristotele non esplicita nel rilevare che la democrazia antica non può nemmeno essere legittimata da un eventuale principio secondo cui il governo spetta alla maggioranza dei cittadini: democrazia è essenzialmente governo del demos, cioè dei poveri, indipendentemente dalla loro prevalenza numerica o meno sui ricchi. Del resto il filosofo osserva che raramente i poveri sono in minoranza all’interno di una società. Non stupisce allora che Aristotele consideri la democrazia, alla stregua di quel che fa per oligarchia e tirannide, una forma deteriorata di costituzione, il cui corrispondente positivo è la politeia, che potremmo definire: governo dei migliori.
C’è un solo modo per garantire la stabilità, quella del “buon governo”, cioè un modo di
comandare che sia finalizzato alla felicità dei cittadini.
In sostanza tale è il fine del governo e tale dovrebbe essere sempre. Secondo il filosofo, la città più felice è quella armoniosa e pacifica che realizza l’ideale del tempo libero a disposizione dei capifamiglia, i quali potranno così dedicarsi alle attività teoretiche che sono le sole che realizzano l’uomo nella sua integrità. Ciò non significa che dedicarsi alla politica sia disdicevole tutt’altro,
essa è l’attività più nobile dopo quella teoretica, ma deve essere svolta in modo disinteressato, rivolta al bene di tutti. Talvolta, però, si ha la sensazione che il filosofo consideri l’attività politica,
cioè il partecipare alle assemblee e svolgere le cariche e le magistrature più come un dovere che un diritto e piacere. Per questo egli applaude alla “turnificazione” ateniese, dove il servizio politico, non diversamente da quello militare, è svolto solo per periodi limitati.
Si tratta, come si può facilmente intuire, di una concezione che muove dalle persuasioni etiche di Aristotele, più che da considerazioni oggettive sulle tensioni e conflitti della società reale.
Secondo il filosofo, l’educazione è fondamentale nella preparazione del cittadino alle virtù etiche e dianoetiche. Pertanto è bene che il legislatore abbia a cuore questo problema, perché solo un uomo virtuoso potrà essere un governante nel tempo che verrà, od anche solo un buon governato, cioè un buon cittadino. L’educazione deve preparare sia a comandare che ad essere comandati, dato che, nella costituzione migliore e più conforme alla natura della città come società di uomini liberi ed uguali, tutti i cittadini devono avvicendarsi a turno, nel comando. L’educazione al comando è, ovviamente, l’educazione all’attività politica, mentre vi è un’educazione da svolgere nel tempo libero: le attività teoretiche nelle quali consiste la felicità.
Luoghi, cose, e persone sono definite in base all’appartenenza all’oikos.
L’elemento umano è quello dal quale conviene partire. Aristotele come si sa distingue tre rapporti fondamentali: quello padronale, quello matrimoniale e quello paterno, rapporti segnati da una chiara gerarchia, che non investe solo la dicotomia liberi/schiavi, ma segna ogni relazione interna alla famiglia: marito, padrone e padre, al vertice della gerarchia.
In realtà indicano tre funzioni diverse della stessa persona, il capofamiglia che assume in sé poteri e responsabilità rispetto agli altri componenti. In greco, egli è il kyrios, letteralmente il “signore, nel senso che esercita la propria signoria”, da intendersi come pieno e legittimo controllo ma anche responsabilità e rappresentanza di fronte alla polis, su tutte le componenti dell’oikos. Le sue prerogative variano nei tre rapporti, sopra citati, ferma restando, appunto, la costante responsabilità e privilegio in relazione ai soggetti a lui legalmente subordinati. La sua posizione interessa direttamente anche la collettività cui appartiene: sono infatti i titolari di oikoi a costituire la cittadinanza. Le prerogative assegnate al kyrios sono esclusive, ad Atene, è il polites ad avere la proprietà di terra e di case, ad unirsi in legittime nozze con una donna ateniese e procreare figli che presentino i requisiti per accedere alla cittadinanza. La figura del titolare dell’oikos rappresenta il tramite tra la sfera pubblica e politica e quella privata e domestica; le vicende interne alla sua famiglia sono sotto la sua diretta e quasi insindacabile giurisdizione, a patto di rispettare i ruoli previsti, nell’organizzazione complessiva dell’oikos. La polis vigila ed eventualmente interviene a sanare violazioni del giusto ordine familiare, tutelando gli elementi più deboli, senza mai mettere in discussione i rapporti di forza interni.
Un’importante conseguenza ne deriva sul piano della definizione di appartenenza civica e politica alla polis: il cittadino è tale solo se proveniente da un oikos; d’altra parte solo il cittadino può a pieno titolo esercitare il suo potere su cose e persone del suo oikos. Probabilmente esistevano strutture familiari anche al di fuori della cerchia dei cittadini, in particolare in una società composita come quella ateniese, popolata di meteci, stranieri o a volte anche schiavi, almeno parzialmente svincolatesi dalla residenza padronale.
Questa analisi dell’oikos e delle sue componenti fondamentali è una premessa utile per comprendere l’approccio economico aristotelico nell’ambito della società del tempo.
Comunità, autosufficienza e giustizia sono i concetti fondamentali. Il gruppo, in quanto società funzionante forma una comunità (koinonia), i cui membri sono legati da philia. C’è un tipo specifico di philia per ogni koinonia, sia oikos, sia polis, senza la quale il gruppo non potrebbe durare.
La philia si esprime in un rapporto di reciprocità, cioè di disponibilità ad assumersi a turno oneri e a ripartirne i vantaggi. Tutto ciò di cui la comunità ha bisogno per durare, compresa la sua autosufficienza, è “naturale”. L’autarchia può essere detta la capacità di sussistere senza dipendere da risorse esterne, come afferma nel suo saggio Polanyi.
Prima di affrontare un argomento importante del primo libro della Politica: la crematistica, per comprenderne le varie forme, vanno introdotti due concetti principali: quelli di valore d’uso e valore di scambio “ἐκάστου γὰρ κτήματος διττὴ ἡ χρῆσίς ἐστιν, ἀμφότεραι δὲ καθ᾽ αὑτὀ῍ μὲν ἀλλ᾽ οὐχ ὁμοίως καθ᾽ αυτὸ, μὲν ἀλλ ᾽ἡ οἰκεία ἡ δ’ ᾽οὐκ οἰκεία τοῦ πράγματος, οἶον ὑποδήματος ἥ τε ὐπόδεσις καὶ ἡ μεταβλητική “Pol I, 9 1257° 7-12 (Di ogni proprietà è possibile un doppio uso, l’uno e l’altro inerente dell’oggetto di per sé, ma non allo stesso modo, in quanto l’uno è proprio e l’altro improprio rispetto alla cosa usata, per esempio una calzatura può essere calzata o scambiata con altri prodotti). Il primo indica l’utilità di un bene o servizio; il secondo il prezzo di quel bene o servizio. Il primo è centrale in una economia tipicamente naturale; il secondo è centrale nella crematistica o meglio, come vedremo, in una sua certa forma. Aristotele distingue una crematistica ancora accettabile, in quanto basata sulla soddisfazione dei bisogni “naturali”. D’altro canto se spostiamo la nostra prospettiva sul valore di scambio, essa è per così dire, l’imput di una degenerazione che potrebbe essere progressiva.
Lo sviluppo degli scambi inevitabilmente determina un aumento della quantità dei beni scambiati e delle distanze. Questa situazione esige l’uso di un bene equivalente, dotato di valore esso stesso e facilmente permutabile, solitamente un metallo, ferro o oro che poi viene coniato: nasce così la moneta. Per Aristotele la situazione in parte si complica: nell’Etica nicomachea afferma “perciò occorre che tutte le cose siano in qualche modo comparabili, e di queste allora esiste una permuta”(En ,V,5, 1133 a 19).
La moneta, pertanto, è sorta per convenzione come strumento di commutazione del bisogno, e per questo essa in greco è detta “cosa legale”( νόμισμα ), perché sorge non per natura ma per legge, e sta in nostro potere il mutarla o il metterla in fuori corso. Come si afferma nell’Etica nicomachea, V 5. vi è un uso utile della moneta e in tal senso si può parlare di una crematistica naturale che assume allora la configurazione: M-D-M.
Per meglio ripercorrere storicamente l’introduzione della moneta, può essere utile sapere che questo termine ha un’origine solonica, come sosteneva Jaeger. Esso comporta connotazioni “giuridiche” e “ sociologiche” che sono evidenziate da alcuni studiosi. La parola νόμος non è nota ad Omero e comparirà non prima della fine del VI secolo, assumendo il significato di organizzazione sancita dalle leggi.
Dalla lettura dell’Etica nicomachea (V, 5.1133b1-3) la moneta svolge la funzione di garante ed indica il tipo di permuta da effettuarsi: relativo al fatto del possesso dei prodotti e non alla condizione di mercato, dove la contrattazione potrebbe porre uno dei contraenti in situazione di inferiorità. La moneta potrebbe non avere aspetti immediatamente economici nella polis: il denaro potrebbe invece rivestire un ruolo, potremmo definire, indispensabile nei meccanismi socio-politici. La moneta ricopre una particolare funzione istituzionale che consiste nel prelevare il denaro dai ricchi per procedere poi alla redistribuzione attraverso il sistema delle indennità politiche, denaro per i militari o salari pubblici. Così la polis contribuisce a far circolare il denaro tra possidenti e non, quindi la moneta finisce per avere uno sbocco economico nel consumo.
Tutti i beni possono venire alienati (Pol,I, 1257, 5-15)” ἕστι γὰρ ἡ μεταβλητικὴ πάντων”: è l’intuizione che permette ad Aristotele di proseguire la ricerca su basi nuove, più idonee alla comprensione dei meccanismi economici. Prima di Aristotele nessuno aveva individuato questa chiave di volta del pensiero economico, come afferma Polanyi, Aristotele ha scoperto, in tal senso, l’economia.
Questa maturazione è il frutto di un lungo studio che ha portato il filosofo a comprendere un fenomeno: il trasferimento ad altri di proprietà e diritti su beni per mezzo di vendita, con il conseguente risultato economico come effetto giuridico della cessione di un diritto (il possesso di un bene) ad altro soggetto, dà il via ad un meccanismo che può essere incontrollabile (questo passo aristotelico è citato da K. Marx nel Capitale , Vol I, sez I,cap II). La prima origine di questo fenomeno (che si svilupperà come μεταβολή, ”scambio”) è naturale (Pol, .I, 91257 13-14): quella permuta necessaria e utile a garantire le eque distribuzioni all’interno della comunità : ἄλλο πρὸς ἄλλο (EN, V, 5.1132b31-33).
Il significato di μεταβλητική risulta dalla lettura di Aristotele: è impiegato per la prima volta nella Politica in I, 9. 1257 9, a proposito del duplice uso della calzatura, nel passo che ha stimolato la riflessione marxiana. L’uso “metabletico” non è solo della calzatura: si estende, come già evidenziato, a tutti i beni.
Ci sono due forme di μεταβλητική: 1) naturale, che serve al compimento dell’autarchia (Pol.1257 28); 2) innaturale, ἀπ ᾽ἀλλήλων e riprovevole. Nasce così, per l’effetto di questa proprietà della moneta nell’ambito dello scambio, congiunto con il parallelo stravolgimento etico e psicologico che confonde mezzi e fini, la “crematistica innaturale”, espressa nella formula D-M-D’: “la crematistica innaturale si fonda sul commercio ed è produttrice di ricchezze non in senso assoluto, ma solo attraverso lo scambio dei valori, dal momento che pare presupporre il denaro, che è l’elemento e il fine dello scambio” (Pol.I , 9). Questa crematistica è innaturale perché la dinamica dell’arricchimento monetario che essa attiva non trova il proprio limite nel soddisfacimento di alcun fabbisogno familiare o cittadino; e ciò che è illimitato è anche contro natura.
Appare evidente ad Aristotele che la moneta è un elemento in grado di sconvolgere l’ordine delle cose.
Essa ha origine con l’esportazione all’esterno dei prodotti eccedenti e con l’importazione del fabbisogno: in tal senso può essere considerata necessaria (Pol.I,1257 a 33).
Ma “una volta escogitata la moneta, dalla permuta necessaria sorge l’altra forma di crematistica, quella commerciale, che, in un primo tempo, si esercita con semplicità; dopo con l’esperienza diventa una ricerca con la finalità di individuare da dove e in che modo praticare gli scambi in vista del guadagno. Perciò la crematistica sembra occuparsi soprattutto del denaro, e suo compito è l’essere capace di studiare da dove ricavare una grande quantità di beni; infatti può creare ricchezza e beni, la ricchezza come abbondanza di denaro (nozione economica la cui autonomia si afferma pienamente con la generalizzazione della moneta). Su ciò verte la crematistica commerciale (Pol.I, 1257 41-b10) “πορισθέντος οὕν ἤδη νομίσματος ἐκ τῆς ἀναγκαίας ἀλλαγῆς θάτερον ἔιδος τῆς χρηματιστικῆς ἐγένετο, τὸ καπηλικόν, τὸ μὲν πρῶτον ἁπλῶς ἴσως γινόμενον, εἴτα δι᾽ ἐμπειρίας ἤδη τεχνικῶτερον, πόθεν καὶ πῶς μεταβαλλόμενον πλεῖστον ποιήσει κέρδος”.
(A Venturi l’uso delle accezioni commercio “al minuto”e “all’ingrosso” sembra abbastanza arbitrario. E’ senz’altro errata l’interpretazione della καπηλική aristotelica come commercio al minuto; καπηλική indica una forma avanzata di crematistica: non si parla di una forma specifica e rudimentale di commercio, ma del commercio nella sua accezione generale).
In quest’ambito economico di tipo commerciale è interessante una analisi linguistica sulla terminologia greca riguardo gli operatori commerciali, una terminologia abbastanza varia ed articolata. Ai termini principali -έμπορος, o commerciante all’ingrosso, κάπελος, o commerciante al dettaglio ( anche se, a tal proposito, va tenuta presente l’interpretazione di Venturi che assegna al kapelos la possibilità di un commercio all’ingrosso) ναύκληρος, mercante dotato di nave propria, se ne affiancano altri più rari (αυτόπολης, colui che vende i propri prodotti; παλινκάπηλος, colui che compera dall’ἔμπορος, il mercante all’ingrosso, e rivende in loco; μεταβολεύς, il piccolo dettagliante; φορτηγός, mercante che si fa carico del trasporto delle merci); l’uso linguistico, tuttavia, non osserva rigidamente le distinzioni. Del resto l’unica discussione terminologica offerta dalle fonti (Platone, Sofista 223c-d; Aristotele, Politica I, 11, 1258 b) appare alquanto confusa: Aristotele chiama ἐμπορία l’attività di trarre profitti dallo scambio, e considera la ναυκληρία, che comporta il viaggio per mare, una sua suddivisione; in genere ἔμπορος indica il commerciante all’ingrosso, κάπηλος il dettagliante, ( anche se volendo conferire attendibilità all’analisi linguistica di Venturi il kapelos non è necessariamente il commerciante al dettaglio), ναύκληρος il mercante che opera su nave propria. Ma l’analisi delle fonti rivela che, per esempio, la distinzione fondamentale tra κάπηλος ed ἔμπορος sembra riguardare non tanto il rapporto dettaglio/ingrosso, quanto piuttosto il raggio d’azione, internazionale o locale.
Finley ha analizzato in modo sistematico questa terminologia per concludere che ἐμπορία indica commercio in senso generale; che ἔμπορος designa di solito il commerciante marittimo che usa navi altrui; che ναύκληρος è l’unico termine non ambiguo ed indica chi possiede una nave e con essa si impegna direttamente nel commercio; che, infine, κάπηλος vale commerciante locale, dettagliante; ἔμποροι e ναύκλεροι vendono di solito merce altrui; raramente sono anche produttori. Si può constatare che le analisi linguistiche ed i relativi significati variano ad esempio da Venturi a Finley, ciò sta ad indicare che le fonti non consentono l’attribuzione di significati univoci per gli stessi termini e pertanto ci troviamo di fronte ad una semantica ambigua da attribuirsi probabilmente alla scelta delle fonti stesse, ed anche ad una loro diversa interpretazione.
Le nostre fonti ci consentono anche qualche rilievo di carattere sociale. E’ stato sottolineato come il commercio greco arcaico fosse legato notevolmente all’aristocrazia, produttrice di derrate e fornitrice di capitali (si pensi all’attività di Solone in Atene); in seguito, la pratica del commercio sarebbe stata affidata a figure socialmente meno rilevanti.
In Omero, il commercio è in effetti attività di alto livello economico-sociale, esso accosta produzione, navigazione e commercio che si basano su relazioni di ospitalità, che scambiano schiavi, olio, vino, e grano con metalli. Va comunque tenuto presente che questa visione del commercio arcaico è parsa ad alcuni difficilmente compatibile con quanto emerge da Esiodo, la cui opera costituisce la più significativa testimonianza in proposito. In Esiodo il commercio è gestito da un commerciante/agricoltore, che partecipa direttamente al viaggio ed è proprietario della nave (ναύκληρος), secondo un modello individualistico e autarchico che ripropone l’esperienza del padre di Esiodo, un aristocratico proveniente da Cuma eolica; il commercio tende ad evolvere verso una ἐμπορία di natura specializzata, basata sulle importazioni granarie e sulle esportazioni di ceramica, in cui il livello economico sociale degli operatori commerciali è certamente più basso rispetto alla fonte omerica.
Nell’ἐμπορία esiodea sono ormai attive forze economiche che cercano di affiancare all’agricoltura attività integrative. Già nell’Odissea comunque, compare il concetto di κέρδος nel senso di profitto commerciale, quel “di più”, cioè, che proviene dal processo di circolazione e di scambio delle merci e che il mercante persegue a buon diritto, come l’agricoltore persegue il frutto.
In età classica gli ἔμποροι, che acquistano e vendono all’ingrosso su scala internazionale, e gli armatori ναύκληροι, che affittano le navi o imbarcano merci proprie, sono spesso meteci o stranieri. L’esigenza di investire capitali nel commercio spiega la presenza, tra questi operatori, di banchieri di professione, o talora (ma questo considerazione può essere facilmente contestata), di grandi proprietari (dunque in questo caso di cittadini) che intendono diversificare il patrimonio. Chi non dispone di capitale proprio viene in contatto con prestatori e banchieri che offrono prestiti per acquistare merci e pagare il trasporto sulla nave; il sistema del prestito marittimo è ben attestato in Atene.
I kapeloi sono anch’essi talvolta cittadini, sono descritti come avidi e disonesti; meglio sarebbe, secondo Aristotele, riservare questo lavoro, indegno del cittadino libero, agli stranieri ( Aristotele Politica VII, 6 1327-b).
Anche per gli ἔμποροι le fonti riportano valutazioni di scarsa correttezza ed onestà; viaggiando, l’ἔμπορος si sottrae infatti, meglio del κάπηλος, al controllo della polis.
Le descrizioni degli ἔμποροι, in viaggio alla ricerca del κέρδος, appaiono così sostanzialmente negative, in quanto è ritenuto etico solo lo scambio di equivalenze fra produttori, che lascia inalterati l’autarchia e gli equilibri sociali, mentre lo scambio che porta al κέρδος puramente monetario appare distruttivo di tali equilibri.
Aristotele, non a caso, critica l’acquisizione per scambio o “crematistica” nella misura in cui essa, invece di limitarsi ad eliminare le eccedenze e acquisire il mancante, ristabilendo l’autosufficienza, determina uno sviluppo degli scambi e quindi la moneta non è un mezzo, bensì un fine (Politica I, 9, 1257a).
Nonostante queste critiche, nelle realtà artigianato e commercio sono praticati non solo da stranieri e meteci, ma anche da cittadini: l’ideale autarchico convive dunque con la coscienza che l’evoluzione della società impone la necessità degli scambi, dei commerci, della moneta.
Sono i meccanismi di accumulazione della moneta che interessano Aristotele, egli ha intuito il meccanismo introdotto dalla circolazione dei beni ed inizia a trarre le sue conclusioni enunciando la sua opinione:
Perciò, alcuni cercano un altro tipo di ricchezza e di crematistica che sembra aver per oggetto la moneta che, in tal senso, è elemento e fine della permuta. La ricchezza che deriva da questo tipo di crematistica non ha limite (Politica1257b17-24).
L’uso di μεταβολή (in senso di scambio) per designare appunto lo scambio avvenuto tramite l’uso della moneta non solo come mezzo ma anche come fine, deve indurre ad una riflessione. Le parole usate da Aristotele sono rivelatrici della consapevolezza di un mutamento che ha trasformato radicalmente la vita degli uomini; μεταβολή, vocabolo chiave della dottrina aristotelica, va collocato nel suo particolare contesto tenendo conto del significato descritto nel V libro della Politica.
Inoltre la crematistica in generale non ha quel limite (πέρας), che invece distingue l’economia. E’ necessario che ci sia un limite ad ogni tipo di ricchezza, cosa che non avviene nella realtà perché tutti coloro che trafficano in denaro vogliono arricchirsi all’infinito.
Come avviene che il limite venga così facilmente superato dagli uomini in generale?
La preoccupazione principale degli uomini è quella di vivere, e non di vivere bene (Pol. I 1257b40-1258°1)” αἴτιον δὲ ταύτης τῆς διαθέσεως τὸ σπουδάζειν περὶ τὸ ζῆν, ἀλλὰ μὴ τὸ ἐυ ζῆν; “. La polis ha il suo limite nell’autarchia completa (Pol.I 1252b29). Ciò è la conferma che l’aristotelico vivere bene ha un significato politico. La polis ha il πέρας nell’autarchia, superato quel limite ci troviamo di fronte ad una μεταβολή con notevoli conseguenze strutturali. Sembra che i mezzi per soddisfarli stiano nel possesso, tutta la attività è rivolta al guadagno. Da una forma di crematistica che rientra nell’ambito naturale si perviene ad una crematistica il cui telos non è il vivere bene, bensì la ricerca di un sempre maggiore arricchimento che giustamente viene biasimata (Pol.I1258 1), non più praticata in funzione della comunità.
Per approfondire questo passaggio da una crematistica, ancora collocabile in un ambito naturale, ad una crematistica decisamente innaturale, mi sembra ineludibile fare ricorso all’analisi di Polanyi, figura tra le più suggestive nell’approfondimento del pensiero economico della filosofia di Aristotele. Egli sottolinea innanzitutto che tre sono le “forme di integrazione” tra economia e società che la storia ha conosciuto e che possono riproporsi e mescolarsi: reciprocità, redistribuzione e scambio. In tale distinzione che posto assume la lettura di Aristotele?
Polanyi introduce il concetto di produzione per uso proprio, la cui struttura è il gruppo chiuso e il fine è l’autarchia, il soddisfacimento delle necessità del gruppo.
Secondo Polanyi, Aristotele tenta di stabilire come norma la condizione dell’economia familiare autosufficiente, cioè l’essenza dell’economia familiare consiste nella produzione per l’uso, e la produzione accessoria per il mercato non deve distruggere necessariamente l’autosufficienza. Il punto è centrale: Aristotele malgrado il suo silenzio sulla dipendenza dell’economia greca dal commercio all’ingrosso e dai prestiti di capitale, ha, per Polanyi, ragione nel sostenere che il guadagno è funzionale alla produzione per il mercato. I mercati e il denaro sono semplici accessori di una famiglia altrimenti autosufficiente. Il passo cui Polanyi si riferisce è quello in cui Aristotele tratta la differenza tra oikonomia e crematistica (Pol I, 1256° -1258b).
Un passo di non semplice interpretazione, in cui il filosofo si lancia in sottili distinzioni, cercando di esprimere concetti normativi abbastanza nuovi, con parole che hanno una complessità semantica legata all’uso. Polanyi non esita a vedere in questo passo la prova che il filosofo greco espone una critica esemplare all’economia di mercato e alla produzione per “il guadagno come non naturale all’uomo”.
Per Aristotele, scrive Polanyi, l’uomo è un essere sociale non economico.
Più che salvaguardare il suo interesse individuale per l’acquisizione di possessi materiali, egli mira al consenso sociale, allo status sociale, ai vantaggi sociali.
I beni posseduti sono solo un mezzo per raggiungere il fine dell’approvazione sociale.
Scrive Polanyi: “L’economia dell’uomo, di regola, è sommersa nei suoi rapporti sociali”.
Il passaggio ad una società che è invece sommersa nel sistema economico costituisce un’evoluzione assolutamente nuova.
Per trovare una più completa rielaborazione dell’interpretazione di Aristotele bisogna attendere che il pensiero del filosofo, questa volta considerato nel binario Politica Etica, venga esaminato come colui che ricostruisce le tracce della crisi di valori che necessariamente accompagna la comparsa delle pratiche commerciali che Polanyi attribuisce proprio alla fine dell’epoca di Aristotele. Secondo Polanyi bisogna, nonostante tutto, squarciare il velo di “scarsa considerazione,
di rifiuto” che i maggiori economisti moderni hanno gettato sul pensiero economico di Aristotele.
Diversa è la posizione di Polanyi, che tende invece ad accentuare una grande rilevanza all’ “economia” aristotelica, non come strumento per l’analisi dell’economia di mercato (un sistema che il filosofo greco non poteva conoscere nel suo pieno sviluppo) bensì come critica nell’approccio del riduzionismo in esso presente: “Aristotele pone in tutta la sua ampiezza il problema del posto che l’economia occupa nella società”. Il carattere vago e a tratti oscuro delle sue formulazioni non è dovuto a scarsa comprensione delle pratiche a lui contemporanee, ma alla difficoltà di esprimere ciò che sta nascendo. Lo sguardo acuto di Polanyi che attribuisce al filosofo è dovuto alla particolare congiuntura storica in cui è vissuto: ha due mondi, verrebbe da commentare, di fronte a sé, il momento in cui il mercato, come lo conoscono i moderni, comincia lentamente a farsi strada in mezzo ad istituzioni che non lo contemplano ed un mondo dove il commercio tende ancora ad essere funzionale all’autosufficienza.
E’ questa la “scoperta dell’economia”, ma questa scoperta ha per Polanyi delle implicazioni storiche ed etiche che vanno oltre la comprensione dei testi aristotelici e dell’economia della Grecia classica.
L’economia di mercato, quando è stata intravista per la prima volta da Aristotele, “racchiudeva già da sé il destino che si sarebbe compiuto più tardi”, “ intravede nell’embrione la forma pienamente sviluppata”. Proprio vivendo in un’epoca di transizione tra due tipologie economiche, Aristotele può comprendere il reale funzionamento dell’economia mercantile “al suo stato nascente”, dimostrando un “vigoroso realismo”. L’approccio di Aristotele viene definito in termini moderni come “sociologico” e il quadro di riferimento è la comunità “in quanto tale” (koinonia), ovvero il gruppo umano organizzato, i cui membri sono uniti da legami di reciproca benevolenza, senza i quali il gruppo stesso non potrebbe mantenersi. Questi legami, traduzione del termine philia, si esprimono in un “comportamento di reciprocità ossia in una disposizione ad assumersi a turno gli oneri e a ripartirsi mutuamente i frutti” (Etica nicomachea V,1132b-35).
L’argomentazione di Polanyi prosegue, ma gli aspetti più significativi sembrano i seguenti:
In Aristotele, sia detto una volta per tutte, i bisogni umani si fondano sulle istituzioni e sui costumi sociali.
Agli occhi di Polanyi, Aristotele insegna che senza vincoli di reciprocità tra i membri di una determinata associazione umana, quest’ultima non può sussistere. Senza philia non si dà koinonia e la società entra in crisi. In questo contesto lo scambio dei beni è essenzialmente uno scambio di servizi e non comporta guadagno.
Le implicazioni morali nel desiderio del “far soldi” sono presenti nell’Etica nicomachea ( V, 1133 3-6 ) e la critica aristotelica è rivolta all’arte del kapelos, in quanto verso la metà del IV ha fatto arricchire molti cittadini. Per Aristotele, commenta Polanyi, tutto questo è innaturale e quasi scandaloso. E’, scrive, soltanto vendita in grande, una forma innaturale che deriva dal bisogno di far denaro, allontanando coloro che la praticano dalla “buona vita” verso una brama di beni materiali. Queste istanze etiche messe più volte in luce accanto a quelle politiche, propongono un rapporto tra le due opere: Politica ed Etica, che formano “una singola unità”, perché l’etica è una parte della politica: la scrittura dell’Etica precede la scrittura della Politica.
La μεταβλητική ha in sé tre forme: 1) ἐμποριά ; 2) τοκισμός ;3) μισθαρνία .
Secondo Vegetti, quando si tratta di spiegare perché nello scambio crematistico si passi da D a D’- il discorso aristotelico non ha risorse analitiche per poterlo adeguatamente spiegare.
Aristotele, riguardo alla fenomenologia dello scambio, afferma solo che il guadagno nello scambio crematistico si produce “operando gli uni a spese degli altri” (Politica, 1258b1).
Allora individua il più odioso prototipo dello scambio, l’usura, dove il denaro si valorizza senza la mediazione della merce scambiata: la crematistica è ridotta alla semplice forma D-D’ (l’attività creditizia, essenziale agli scambi, viene quindi compressa nella figura del prestito a interesse, comunque esoso, e ne condivide l’esecrabilità). A questo aspetto economico certamente biasimevole ne segue un altro: il lavoro salariato, cioè la cessione di tempo lavorativo in cambio di denaro viene riportato tra le forme della crematistica (Pol I, 10), benché esso sia descrivibile con la forma: L-D e non comporti quindi nessuna valorizzazione di denaro. Ma qui certamente è il punto di vista etico-politico a connotare il discorso aristotelico, con l’effetto di colpire qualsiasi forma di attività economica che comporti l’intervento del denaro al di fuori della cessione delle eccedenze agricole in vista della soddisfazione delle esigenze di consumo della famiglia e della città; questa condanna coinvolge poi qualsiasi figura sociale che non coincida con l’ οικονομικός, il capofamiglia cittadino che resta il punto cardinale dell’orizzonte antropologico di Aristotele. Il guadagno nello scambio è la conseguenza di un raggiro; la ricchezza che ne può scaturire è in grado di provocare il sovvertimento dei valori etici e dei valori naturali della πόλις .
Commercio e lavoro salariato sono assimilati perché segno di una vocazione servile, che spetta moralmente ad altri operatori, anche se la loro posizione giuridica può essere, nel contingente, quella dei liberi.
Interessante ed esaustivo, al fine di approfondire il pensiero economico aristotelico, è il riferimento analitico al trattato di Venturi che richiama l’attenzione, in questa argomentazione, sulla importanza di due principi: la reciprocità e la giustizia. I capitoli V-VI del V libro dell’Etica nicomachea contengono un cospicuo contenuto che Aristotele dà alla “giustizia nei rapporti di scambio”: la διακοσύνη viene posta in una nuova sfera d’indagine che viene a completare quella della Politica; viene inoltre affermato il concetto di reciprocità.
La reciprocità proporzionale è un tipo di diritto naturale anteriore e necessario alla costituzione della polis, indispensabile anche per l’esercizio stesso della giustizia. Nell’Etica nicomachea, come alcuni studiosi affermano, la vita umana è ordinata da un certo numero di necessità e di scambi fra individui; ma questi scambi sarebbero impossibili se non ci si attenesse ad una regola fondamentale, la reciprocità proporzionale.
Bisogno, scambi, reciprocità sono nozioni base della comunità: in seguito permetteranno ad un diritto più elaborato di sbocciare e di svilupparsi. I rapporti sociali hanno due tipi di relazioni: volontarie ed involontarie. Vediamo le relazioni volontarie: si chiamano così perché il principio di tali rapporti è volontario (EN,V, 2. 1131° 1-5). Dalla permuta volontaria derivano la perdita ed il profitto (EN,V,4,1132 a12-14), Aristotele afferma che la permuta è giusta se vi è stato un giusto contraccambio. La polis rimane salda in proporzione a questo contraccambiare (EN, 5, 1132b33-34). Egli presenta uno schema: la reciprocità deve essere ben realizzata, diversamente non c’è contraccambio, e non c’è quella distribuzione (μετάδοσις) sulla quale si basa l’unione civile.
In tal senso è noto l’esempio dell’architetto e del calzolaio. Non a caso: le loro due prestazioni (la casa e la calzatura) sono difficilmente comparabili per ovvie ragioni: l’architetto riceve dal calzolaio il prodotto del suo specifico lavoro, la calzatura, e, per una corretta e giusta proporzione, deve dare una parte della propria opera, cioè una parte del suo prodotto: la casa.
Il problema è la sostanziale differenza dell’opera di ciascun individuo e di ogni singola tecnica. La comunità non è formata da due medici, ma da un contadino e da un medico, cioè da individui completamente differenti (ENV,5,1133 a 17-18). Stabilita la diversità di prestazioni dei membri della comunità appare evidente la necessità di una comparazione:
perciò occorre che tutte le cose siano in qualche modo comparabili, e di queste allora esiste una permuta almeno una possibile permuta (EN,V,51133 a19).
Aristotele, a questo punto, coglie l’utilità della moneta; essa misura tutte le cose ed anche l’eccesso e il difetto; inoltre per quanto riguarda il rapporto tra l’architetto e il calzolaio, saprà stimare il numero di calzature che equivalgono ad una casa o ad una certa quantità di cibo, cosicchè anche i rapporti più complessi potranno essere misurati.
Altrimenti se non si riesce a misurare equamente il rapporto, non esisterà né permuta né equità (EN,V,5.1133 a 20-24).
Ci sarà quindi reciprocità ogni volta che si è ottenuto l’equilibrio; come l’agricoltore sta al calzolaio così l’opera del calzolaio sta a quella dell’agricoltore. Ma si faccia attenzione ad una nuova situazione molto importante: per quanto riguarda la forma dell’analogia non bisogna riferirsi al momento in cui gli interessati praticano la permuta, ma al fatto di essere in possesso dei prodotti (EN,5,1133 b1-3). Solo così i contraenti sono uguali e soci di una comunità; se non vi fosse uguaglianza non vi sarebbe reciprocità e neppure alcuna comunità (EN, V5.1133b6).
Credo che, dopo questa disamina, si possa giungere ad una conclusione: la separazione tra ceti economici e ceti politici, addetti al governo della città, deve essere per Aristotele ancor più drastica: la crematistica nelle sue forme decisamente innaturali può comportare una pericolosa degenerazione etico politica della polis stessa.
Come conclude Vegetti, la supremazia del punto di vista etico-politico viene in questo modo a chiudere quegli spazi che pure l’analisi aristotelica dei processi dello scambio aveva aperto: troppo rischioso allontanarsi da una visione naturale dell’uomo da qualsiasi punto di vista, antropologico, psicologico ed etico.
Testi
Politica di Aristotele, a cura di Carlo Viano
Etica nicomachea, traduzione di Carlo Viano
Guida alla lettura della Repubblica, di Mario Vegetti
Biblografia
Il pensiero economico greco, di Mario Vegetti
Aristotele scopre l’economia, di Karl Polanyi
Aristotele e la crematistica. La storia di un problema e le sue fonti, di Massimo Venturi Ferriolo
L’Etica degli Antichi, di Mario Vegetti
L’economia degli antichi e dei moderni, di Moses I.Finley
Leggi anche: Aristotele e l'Etica
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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