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Immaginiamo che Italo Calvino non sia morto in quella lontana estate del 1985, che dopo un breve ricovero, guarito, sia tornato a Castiglion della Pescaia e abbia completato anche l’ultima delle sue Lezioni americane, poi lette con successo ad Harvard.
E siccome immaginare non costa niente fingiamo che abbia avuto ancora lunghi anni davanti a sé, come quelli toccati al suo compagno di liceo Eugenio Scalfari. Dunque ecco questo Calvino, ormai ultra-ottuagenario, che alla fine del primo ventennio del nuovo secolo rivede e aggiorna le sue Lezioni: e che cosa scopre? Che nel canone circolante primeggia una letteratura ‘pesante’, scrittori-corazzata, romanzi-Everest da migliaia e migliaia di pagine, come 2666 di Roberto Bolaño o Europe Central di William Vollmann: in essi le catastrofi della Storia, l’ossessione della violenza.
Se questo Calvino ‘che non c’è’ si fosse guardato intorno alla ricerca di qualche autore in sintonia con la sua leggerezza (la prima e la più famosa delle Lezioni), a lui, gran frequentatore delle cose di Francia, forse non sarebbe sfuggito uno scrittore che alle smanie colossali di molti suoi colleghi preferisce cose leggere e vaganti – ma certo non fatue: Christian Bobin.
“Bobin, chi è costui?” si sarebbe forse detto con ironia Calvino, scorrendo pagine sull’atto del leggere degne di un suo celebre incipit (quello di Se una notte d’inverno un viaggiatore):
I lettori. Cominciano la loro carriera all’età in cui gli altri la abbandonano: verso otto, nove anni. Si lanciano nella lettura e presto non smettono più, scoprono con gioia che è senza fine. Con gioia e spavento… Leggeranno fino alla sera della loro vita, restando sempre là, al bordo della prima scoperta, quella della solitudine, solitudine delle lingue, solitudine delle anime. Rapiti lasciano il mondo per andare verso questa solitudine.
Indagando, Calvino avrebbe scoperto che Bobin è un autore francese quasi settantenne, pubblicato oltralpe da Gallimard ma praticamente ignoto in Italia. Le sue sono opere brevi e indefinibili (poemi in prosa, moralità, racconti, aforismi, frammenti, fiabe…): un mondo poetico difficile da etichettare ma che sembra scaturire da un unico testo, il Cantico delle creature di san Francesco, a cui non a caso Bobin ha dedicato una vertiginosa ‘biografia’, Francesco e l’infinitamente piccolo.
Meraviglioso inesausto metaforista - eppure non barocco perché disinteressato al virtuosismo fine a se stesso - creatore di stupende similitudini che nascono da una sorta di panteismo cristiano, Bobin non si compiace nel mostrare al lettore l’uomo dominato dal Male, che pure ben conosce (lo fanno già con abbondanza di particolari i suoi più titolati colleghi di cui sopra), piuttosto getta una luce sulle cose di una tale ingenuità e purezza che avrebbe stupito Zvanin Pascoli, a cui d’altronde non somiglia affatto, e che davvero sorprende e incanta di parola in parola, di periodo in periodo, di pagina in pagina. Viene in mente ancora una volta Saba e la sua ricerca dell’infinito nell’umiltà.
Nato in una famiglia di modeste origini nella cittadina industriale di Le Creusot, in Borgogna, da cui non si è mai mosso e dove tuttora risiede, Bobin ha raccontato spesso nelle interviste di essere approdato alla scrittura, e prima ancora la lettura, nel momento in cui si è accorto della sua inadeguatezza rispetto alla vita: eppure questa emarginazione non lo ha trasformato nell’ennesimo maudit ma ha come potenziato i suoi organi di senso, la capacità di sentire in profondità le cose come – francescanamente – sorelle degli uomini:
Avrei da sempre voluto essere il guardiano di un filo d’erba. Mi sarebbe piaciuto essere pagato per vegliare su di lui: nessun mestiere mi appariva più necessario e più giusto.
Le opere di Bobin in italiano sono disperse in tante brevi pubblicazioni, tessere di un vasto mosaico: per un primo accostamento si può partire dal suo unico romanzo, Louise Amour, storia dell’amore tra un giovane teologo e una bellissima distillatrice di profumi, raccontata attraverso un susseguirsi di illuminazioni (Rimbaud è, insieme a Emily Dickinson, uno dei suoi autori prediletti), con un linguaggio lirico e misticheggiante. Eccone un passo di sapore quasi wertheriano:
Con quel bacio lei aveva fatto entrare in me il suo soffio, la sua anima, lo spirito del suo spirito – come se, uscendo dalle sue labbra tonde, un velo di leggere particelle d’oro in sospensione nell’aria fosse penetrato nella mia bocca, tappezzando il mio palato e, poco a poco, ora dopo ora, l’interno della mia gola, dei miei polmoni, delle mie vene fino alle loro più sottili estremità. Così in una settimana io fui tagliato fuori dal mondo in modo radicale: per raggiungermi – ma era impossibile – sarebbe stato necessario attraversare quel sarcofago interiore dipinto a foglia d’oro nel quale io riposavo, le mie mani giunte attorno al nome e all’immagine ardente di Louise Amour.
Come un antico trovatore o uno stilnovista il narratore segue adorante la sua madonna per luoghi trasfigurati (un prato con migliaia di ranuncoli e farfalle dalle ali bianche, un labirinto in forma di roseto, un misterioso castello…), ma il poeta-francescano sa che per le creature, anche le più angelicate, giunge l’ora di sora nostra morte corporale.
E Louise Amour muore d’improvviso, come nella vita vera era morta Ghislaine, amica venerata di Bobin (a lei, fuori da ogni finzione romanzesca, è dedicato il commovente epicedio La più che viva):
La morte, tanto diffamata, quando esplode così da vicino (come possono esplodere i boccioli di magnolia) ci fa uscire dai ranghi, forza il nostro cuore e ne espelle tutto ciò che lo ingombrava. Eccoci calmi, ringiovaniti come dopo un temporale, in piedi sul bordo di una tomba aperta, a guardare il mondo seguire il suo corso, senza di noi. La notte in cui mi sprofondai dopo la morte di Louise Amour era una notte più chiara del giorno. Vi intravedevo il nulla delle nostre volontà, delle nostre opinioni e dei nostri pensieri. Per un anno non fui che occupato da questa visione e assistevo, affascinato, alla caduta giorno e notte di miliardi di fiocchi di neve nera.
Leggerezza pensosa, umiltà sapienziale nell’arte di Bobin: il protagonista del romanzo, perduto nella contemplazione della neve nera, troverà una sorta di redenzione nell’incontro con un pavone, ammirando le sue ali sontuose e istoriate di occhi dal chiaro simbolismo trascendente:
Le piume nelle loro estremità di ciglia si curvavano intorno alla piccola testa di piombo indifferente dell’uccello, poi si drizzavano e si curvavano nuovamente, così senza fine. Gli ocelli si allontanavano e si avvicinavano gli uni agli altri. Era come se Dio mi tendesse, ripiegato in forma di ventaglio, un gioco di carte più fiammeggiante di tutte le vetrate della cattedrale di Chartres, dove si stagliavano angeli i cui grandi occhi blu, verdi e oro mi fissavano.
Ahimè non c’è stato un Calvino che abbia scoperto Bobin, nessun grande editore italiano ha trovato lo spazio per una sua opera tra cataloghi pur affollatissimi, e questo dice qualcosa sulla pigrizia, o forse sull’ottusità, delle major letterarie nostrane. Ma bisogna anche lodare vivamente piccoli editori come Camelozampa o Animamundi che invece hanno avuto occhi e cuore per diffondere con le loro esigue forze la voce di Bobin tra noi.
Dunque libri per pochi fortunati, quelli di Bobin, che data la loro difficile classificazione e il comune denominatore della poesia viene voglia di descrivere facendo maldestramente il verso all’autore: libri-scrigno, luminosi come pietre preziose, libri-carillon che squillano come una serenata notturna mozartiana, libri-giardino che ad aprirli profumano di violette e gigli, e infine libri-farmaco, che donano al lettore consolazione e felicità.
*Le citazioni sono tratte da Christian Bobin, Une petite robe de fête, Gallimard; Louise Amour, Camelozampa
https://www.youtube.com/watch?v=nRx52WvtKGo&t=139s
Maurizio Tempestini è nato e vive a Prato, dove insegna lettere in un liceo. Ha pubblicato due romanzi: Filato Blues (come Lanciotto Bruna), Montag 2017 e Perché la ruota giri, Porto Seguro, 2019.
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