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Bartleby lo scrivano dello scrittore americano Hermann Melville è apparso nel 1853, poco tempo prima della pubblicazione del più noto Moby Dick. Fin da subito il misterioso racconto venne considerato un’opera “sulla soglia della letteratura americana”, e ha da sempre costituito per i critici un autentico grattacapo. A Bartleby doveva essere dedicata l’ultima delle Lezioni Americane di Italo Calvino, ma la morte dello scrittore ha impedito la stesura del capitolo, che senza dubbio si sarebbe rivelato illuminante. Al momento ci accontentiamo del lavoro di critica più significativo, il saggio del filosofo italiano Giorgio Agamben e dello psicanalista francese Gilles Deleuze, dal titolo Bartleby: la formula della creazione; alle loro idee ci ispireremo in questa analisi, mossi dalla volontà di portare a compimento l’intuizione che ebbero i due pensatori, e che si è estinta però in un discorso lambiccato e cerebrale, infarcito di riferimenti alla filosofia europea, da Leibniz ad Aristotele, fino a chiamare in causa Avicenna. Sforzandoci di non fare il passo più lungo della gamba, partiremo dal “dato di fatto”, come l’empiristica cultura anglosassone dovrebbe averci insegnato, e un passo per volta, fatte le dovute considerazioni in relazione al titolo e agli indizi sparsi nell’opera, si tenterà di arrivare a una conclusione che vuole essere il più esaustiva possibile, ma non perentoria. D’altronde, si sarebbe già da tempo cessato di leggere se ogni pagina di carta stampata non rivelasse ogni volta ad occhi sempre diversi sempre differenti interpretazioni.
La trama
Bartleby è lo scrivano che si presenta un giorno al narratore della breve vicenda, un ignoto avvocato con sede legale presso Wall Street. Quest’ultimo, uomo poco avvezzo ai rischi della professione forense, amante del compromesso e della tolleranza, mediocre nella vita –ignoriamo se ha una famiglia o qualunque tipo di vita privata - è però abilissimo nel reggere con eloquenza le trame della narrazione, e pare che in esse voglia nascondersi...
Subito l’ignoto avvocato apprezza di Bartleby la discrezione e la tranquillità d’animo, e la sua fisionomia marmorea e scialba, del tutto vitrea e anonima, lo conquista. L’avvocato assume Bartleby nel suo ufficio, dove già prestano servizio Turkey e Nippers, due irascibili scrivani che si alternano nel rendere difficile la vita dell’avvocato, rumoreggiando e istillando confusione l’uno di mattina - Turkey - l’altro di pomeriggio. La mitezza di Bartleby, pensa l’avvocato, non potrà che giovare all’ufficio. Ma si dovrà ricredere: un giorno, del tutto all’improvviso, Bartleby si rifiuta di scrivere. Di fronte alle insistenti domande dell’avvocato, d’altronde già abituato alle sue stranezze - prime fra tutte il rifiuto di rileggere le copie per verificare eventuali errori - Bartleby risponde la medesima frase: “I would (prefer) not to”: preferirei di no.
L’avvocato lo osserva negli occhi “grigi tranquilli e velati” e comprende. Forse una malattia agli occhi dovuta al troppo scrivere? In ogni caso gli concede di rimanere nell’ufficio fino alla guarigione. Ma Bartleby, nell’ufficio, è deciso a rimanerci pur essendo presumibilmente guarito, e lì soggiorna la notte e in ogni ora della giornata, senza mai uscirne. L’avvocato è come paralizzato dinanzi a quest’uomo laconico che occupa il suo seggio di lavoro, non lavorando e fissando il muro che si erge oltre la finestra come un eremita che dalla sua colonna contempli il deserto. A ogni domanda mormora soltanto una frase: “Preferirei di no”. Finché l’avvocato decide che se Bartleby non se ne andrà, sarà lui stesso a fare le valigie e trasferirsi all’altro lato di Wall Street. E così fa.
Ma Bartleby, scacciato dal condominio, si apposta sul pianerottolo e lì accovacciato, perennemente moribondo, risiede per intere settimane. Fino a quando, su segnalazione dell’amministratore di condominio, Bartleby viene condotto in prigione, dove si lascia morire di fame, e fra le quattro mura del cortile viene trovato disteso dall’avvocato venuto a fargli visita. Bartleby è morto. Il narratore riceve però, a distanza di tempo, un’informazione, o forse soltanto un pettegolezzo, sulla vita di Bartleby prima che lavorasse come scrivano: “La notizia è questa: Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno in un ufficio di lettere smarrite, a Washington. […] Lettere smarrite, lettere morte!”.
Il mistero di Bartleby
Il titolo originale del racconto è Bartleby the scrivener. A story from Wall Street. Scrivener e story rimandano entrambi al gesto della scrittura, ed è interessante notare che il nome di Bartleby si accompagna prima di tutto al suo titolo professionale. Egli, prima ancora di essere un uomo folle votato all’annientamento di sé, prima ancora di essere l’importuno persecutore del narratore, è “lo scrivano”, nonostante cessi fin da subito di essere tale. Si noti poi che Bartleby è “lo scrivano”, non “uno scrivano di nome Bartleby”. L’autore vuole forse suggerirci che il suo personaggio abbia un valore archetipico, che rappresenti qualcosa.
Agamben ha giustamente affermato che questo qualcosa è la scelta del non essere a discapito dell’essere, il rifiuto dell’atto a vantaggio della potenzialità. Eppure Bartleby, benché affermi che “è preferibile che le cose rimangano così” e si atteggi a zimbello delle scelte altrui, un gesto - in tutta l’opera - lo compie. Alza gli occhi dai suoi fogli e non scrive più. Bartleby, che è lo scrivano, non scrive più, e se parla con quelle poche frasi apodittiche che sembrano non dire nulla è perché non ha nulla da dire. Cos’è questo se non il blocco dello scrittore? Cos’è il muro contemplato da Bartleby, se non l’invalicabile pagina bianca? Chi è Bartleby, se non l’ospite sgradito che pungola ogni attività creativa, prospettando l’irrimediabilità della fine e la rinuncia a lottare? Sbaglia Deleuze a inserire Bartleby fra i “personaggi folli” di Melville. La sua arrendevolezza ha la saggia razionalità di chi ha gli argomenti dalla sua parte, e l’avvocato non riesce ad allontanarlo perché la sua presenza è totalmente razionale, non certo - come vuole farci credere - per cristiana pietà; e in più parti egli ammette di essere inquietato dallo scrivano, ma che trova del tutto normale che lui stia lì dove si trova.
Si è parlato di “arrendevolezza”: nel racconto si assiste a due abissali contrasti di atteggiamento e di linguaggio. Il primo fra la cedevolezza di Bartleby e l’irascibilità combattiva di Turkey e Nippers, il secondo fra il linguaggio scheletrico dello scrivano e la prosa sfarzosa e retorica dell’avvocato. Dinanzi alla prospettiva dell’irrimediabilità, da cui ha origine la tragicità dell’esistenza, due vie si aprono all’uomo: la rabbia irrequieta o l’egocentrismo dell’onesto avvocato. Potremmo chiederci quanto e se essi possano dar vita all’atto creativo, ma rischieremmo di impantanarci allontanandoci dal testo. Sappiamo soltanto che Bartleby è allegoria del blocco creativo, non cosa conduca alla creatività, sappiamo chi è Bartleby, ma non il vero dilemma del racconto: chi è l’avvocato?
La tragedia dell’esistenza
Di Bartleby sappiamo che non ha una vita familiare e persino abbiamo un’informazione, o un pettegolezzo, sul suo passato. Ma chi è il narratore? Di lui non conosciamo davvero nulla, benché la sua retorica involuta e ciceroniana muova tutto il racconto. In essa pare che l’avvocato si rifugi; con il suo egocentrismo mediocre tenta di disfarsi della presenza sgradevole dello scrivano. Inoltre Bartleby non scrive, ma l’unico a scrivere, a narrare la “story from Wall Street”, è l’avvocato. Lui è l’unico che narrando crea, a differenza di Bartleby, ma la sua letteratura è una fuga dalla prospettiva della fine personificata da Bartleby, allo stesso modo in cui scansa le responsabilità di una vita professionale - e personale? - troppo impegnativa. Egli, in ultima analisi, fugge dalla tragicità dell’esistenza, che dovrebbe essere il motore di qualsiasi slancio etico ed emotivo, e rimane una figura mediocre. Ragionando sul testo, al di là del cosa, ci potremmo chiedere - e ne abbiamo tutto il diritto -se l’opera di Melville non risenta della mediocrità di questi personaggi, così rachitici nei loro blocchi e nei loro rifugi. Bartleby lo scrivano rimane invece un capolavoro non certo in virtù dell’apparente mistero del suo personaggio, come certa critica ha voluto farci credere, ma grazie alla sua capacità di far riflettere sulla scelta da imprimere alla propria vita. Il racconto di Melville parla a tutti, e non è un caso che termini così:
“Ah Bartleby, ah umanità”
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