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Passeggiando per Napoli

di Reno Bromuro

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4. DA VIA FORIA A CAPODIMONTE

Così quando don Ferdinando gliela chiese in prestito per fare delle foto, 'nu poco accigliato, nun redeva maje don Salvatore! Chi sa pecché? Lle rispunnette: tu mme dici quale vuò e j t'he scatto!
Salvatore Di Giacomo, quella macchina fotografica più che comprarla, l'aveva adottata: un tic, una mania. Macchinetta fotografica a tracolla, passava dal sole alla penombra dei vicoli dei panni stillanti miseria. Catturava immagini cupe da rischiarare con una magia che mutava in oro sonante persino le frittelle di donn'Amalia, leggere come l'aria fritta:
"Donn'Amalia 'a Speranzella
quanno frie paste crisciute
mena l'oro 'int' 'a tiella..."

Quei labirinti erano il luogo prediletto di Ferdinando Russo, da cui prendeva ispirazione per i suoi personaggi "spacconi" l'altro gigante della poesia e della canzone napoletana di fine secolo. Russo aveva stabilito un rapporto immediato con i guappi, le donne cianciose dei bassi, con il popolo minuto. Li raccontava adoperando una lingua che, ben dentro i limiti dell'arte, rassomigliava quanto più possibile alla loro. Russo non fotografava: viveva; e non piacque a Benedetto Croce, che lo bollò: "Quelle sue composizioni erano fotografie...", aggiungendo: "... parodie, lazzi, buffonerie, vivaci, ma anche di solito sciatte, scorrette, grossolane, perché l'imitazione della parlata napoletana dava buon pretesto al freno dell'arte. Rarissimo vi si incontra qualche movimento poetico". - Ahò! E' proprio vero che è il critico che fa l'artista! - La condanna di Croce ha pesato a lungo sul destino letterario di Ferdinando Russo, nonostante il giudizio favorevole di Giosué Carducci. Ancora di più ha influito il paragone ossessivo con il monumento-Di Giacomo: per innalzare giustamente l'uno, molti hanno svalutato l'altro. Più recentemente Pier Paolo Pasolini ha sostenuto l'urgenza di una rivalutazione e sono venuti saggi più attenti, gli acuti studi di Giovanni Amedeo, la voluminosa antologia curata da Carlo Bernari. Lentamente Russo sta uscendo dal ghetto provincialistico in cui era stato relegato. La stessa vicenda umana di una personalità ricca e generosa ha provocato una fioritura d'aneddoti che hanno ricoperto come una crosta di colore - di folclore - la sua arte: Russo guappo, guascone, smargiasso, che sa essere nobile tra i nobili, artista tra gli artisti, malandrino tra i malandrini, dalla cui bocca escono con uguali grazie il madrigale e la bestemmia: così lo racconta Libero Bovio. Russo borbonico. Russo frequentatore della camorra consacrato guappetiello, Russo giovane soprannominato 'O sturente e 'O milordino. Verità intrecciate a forzature e leggende. Ovviamente egli non fu camorrista ma, protetto dal potente Teofilo Sperino, agli "uomini d'onore" si mescolò per penetrarne la mentalità e le abitudini più nascoste. Così lo raccontano Gargano e Cesarini. Dilatata ma meno inventata è la fama di nostalgico dei Borboni, derivatagli dall'arresto, sedicenne, durante una manifestazione di piazza e dalla popolarità di una "macchietta" finita in tribunale. Musicata da Vincenzo Valente, la macchietta "'O pezziente 'e San Gennaro" è l'invettiva di un ex possidente dissanguato dal fisco italiano e finito all'ospizio:
"'O cuverno 'e Taliane?
Nce ha arredutto pelle e ossa!
Quant'e uuie, eh' 'e guante 'mmane,
se cannassero cu me?
Ah mannaggia Calibarde!
Francischiello, Francischié!"

Un testamento sentimentale. Per focalizzare l'attenzione sulla poesia d'ambiente molti critici hanno minimizzato quella amorosa di Ferdinando Russo, cogliendovi addirittura un predominio di stereotipi e vaghezze psicologiche.
Nato il 25 novembre 1866 da Gennaro, ufficiale del Dazio, e da Cecilia De Blasio, sorella di mia nonna, penso; dopo studi incompleti il giovanissimo Ferdinando Russo s'attesta alle soglie del giornalismo come correttore di bozze della "Gazzetta di Napoli". Un anticipo di fama gli deriva nel 1885 dai versi di "Gano 'e Ma ganza"; aggiunti a quelli di "Linardo" formeranno "'O cantastorie" che gli darà la consacrazione definitiva.
Conosce Mario Costa, il musicista caro a Di Giacomo, ed insieme hanno confezionato il duettino 'A sartulella. Il loro capolavoro arriva due anni dopo, Scetate, e la canta a piena voce:
"Si duorme o cchiù nun duorme, bella mia.
Siente pe nu mumento chesta noce,
chi tè vo' bene assai sta mmiezo 'a via
pe tè canta na canzuncella doce!
Ma stai durmenno e nun te si' scetata!
'Sta fenestella io nun veco arapì...
E' nu ricamo, 'sta mandulinata!
Scetate, bella mia, nun cchiù durmì!"

- Sai che hai una bella voce? Calda intonata: incanti.
- Forse se avessi fatto il cantante! - Lui sospira.
Russo offre con galanteria alla scrittrice Annie Vivanti, compagna del Carducci: una dedica particolarmente calorosa, se il poeta maremmano si ombra. Incantevole serenata, fusione di melodia vagamente orientaleggiante e notturna poesia, che però brillano anche ciascuna di luce propria, Scetate reca il segno di una libertà musicale assoluta che non si ritrova nelle composizioni di Costa sui versi di Di Giacomo.
Con Russo, invece, Costa realizza un rapporto tra pari, che avrebbe potuto dare altri frutti felici. Ma Costa non volle mai tradire, oltre le regolari licenze, il sodalizio con Salvatore Di Giacomo. Talvolta preferì far tutto da solo, parole e note, come per 'A frangesa.
Silenzioso si avvicina un poliziotto con la mano alla visiera, domanda cortesemente se hanno bisogno di aiuto, rispondono con garbo che stanno parlando di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo, ecco il motivo per cui sono fermi. Il poliziotto li guarda, poi ammicca e chiama il collega per fare ascoltare anche a lui quanto avrebbe detto.
- Io non so per chi parteggiate, ma se preferite Di Giacomo a Russo, vorrà dire che pure voi vi siete lasciati irretire dalle calde parole di don Benedetto Croce, che solo pecché teneva 'nu debole pe' don Salvatore, nun puteva vedè don Ferdinando.
- Voi parlate per parte presa, non obiettivamente...
- E allora, pecché, secondo voi, Di Giacomo scrivette "Lassammo fa a Dio", 'na decina d'anni doppo che Russo aveva pubblicato "'Mparaviso"? A mio avviso pecché esaltato da non 'nce puteva stà che Russo aveva scritto quasi n'ata Divina commedia e isso no; per questo Croce 'o passaje in secondo ordine, pure se protetto dalla colonna abruzzese. Ma voi lo sapete che Russo ha inventato la "Macchietta" e Di Giacomo se facette venì l'itterizia, pecché nun fuje capace di scriverne una?...
Il poliziotto si appoggiò allo sportello col vetro abbassato e iniziò un comizio che sembrava non avere più fine.
- Tutto cominciò una sera del 1891 quando Russo va ad ascoltare Nicola Maldacea, attrazione del Salone Margherita; lo arringa nel camerino con affettuosa brutalità: "Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi". E gli spiegò che aveva in mente: "Una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata, che, serbando tutto il carattere napoletano, deve delineare tipi, non sospirare d'amore; e questi tipi, curiosi, comici o grotteschi, debbono essere scrupolosamente interpretati". Chella sera nascette 'a macchietta. Fu un successo immediato per L'elegante, musicata da Vincenzo Valente; e comincia a cantare a pieni polmoni: che bella voce! Non era Caruso ma cantava veramente bene:
"La sera vado al circolo,
il giorno a via Caracciolo,
sono il conte Mammocciolo y de Cavaturacciolo;
non bado, sa, allo spicciolo:
mille, duemila, che!
Sono sciocchezze, inezie!
Oh, ciao, addio, marchè..."

- Michè, 'a radio… n'incidente al 26° chilometro, avimma scappà.
E senza dire nemmeno arrivederci, ma ancora cantando la macchietta s'infilò nell'auto e partirono a razzo.
- Nello stesso anno - riprese l'autostoppista, dopo le risate, per la cantata del poliziotto - Gambardella nato a Napoli, il 17 novembre 1871 ha composto per Di Giacomo: 'E trozze 'e Carulina. Non conosce un rigo di musica, ma è un portento. Fattorino nel negozio di ferramenta gestito da Vincenzo Di Chiara è contagiato dalla passione del suo principale, apprezzato autore piedigrottesco. Diciannovenne, nel 1893, ha improvvisato fischiettando la celebre 'O marenariello: che Pietro Mascagni considera degna di Beethoven l'introduzione, un andante incantevole.
L'editore Bideri gli assegna uno "schiavo" di lusso, il maestro Achille Longo, che trascrive e armonizza le melodie fischiettate o accennate al mandolino. Ormai la canzone è un affare, anche De Leva dopo Tosti e Costa ha ottenuto da Ricordi un contratto per cinque romanze l'anno con l'obbligo di una canzone napoletana.
La scala cromatica discendente di Furturella del 1904, su versi di Pasquale Cinquegrana a Giacomo Puccini piace tanto che manda in dono un pianoforte a quel geniale analfabeta.
Gambardella comincia a studiare. Con Ferdinando Russo divide nel 1905, il breve successo di Nun me guardate cchiù, cantata da Fernando De Lucia:
"Uocchie, ca senza lacreme m'avite acciso 'o core,
faciteme 'na grazia: nun me guardate cchiù".

Il pessimismo e un filo sottile di misoginia percorrono spesso le canzoni di Russo. Quando scrive Nun me guardate cchiù il suo matrimonio con la matura sciantosa Rosa Saxe, celebrato a Bologna il 15 novembre 1902, è già corroso dalla consuetudine e dalla differenza d'età. Si separano. Rosa si chiamava Elisa, come l'unica donna vera di Di Giacomo.

* * *

La donna, senza parlare, come trasognata, mette in moto e dopo circa cinquecento metri svolta per l'autogrill. Sempre senza parlare, lui la segue come un cagnolino il padrone; fu lei a cercare un tavolo, dove sarebbero stati come soli: aveva voglia di parlare. Fu sempre lei a scegliere il pranzo. L'uomo, con gli occhi bassi come chi si sente bastonato perché non è a proprio agio: avrebbe voluto, mai come in quel momento, avere i soldi per pagare il pranzo, e questo lo faceva star male. Sembra diventato improvvisamente afasico. Ella tenta di farlo parlare, ma egli rimane sempre più muto e chiuso in se stesso. Gusta con avidità gli gnocchi alla napoletana, con il ragù, quello vero; ma quando si giunge al secondo piatto, il pesce (non c'era altro), davanti si raffreddava ma lui non si decide a mangiare. La donna come avesse intuito il motivo, prese il piatto con il pesce e lo spina; lui guarda quelle mani capaci con uno sguardo tra l'ammirato e il grato: con quanto amore quelle mani diafane e affusolate riuscivano a cavare le lische, anche le più piccole. Subito dinanzi ai suoi occhi apparvero altre mani: "com'erano somiglianti a quelle altre che quarant'anni prima sapevano accarezzarlo, allo stesso modo che accarezzavano i tasti del pianoforte. Che sia anche lei pianista? - si domanda e sente forte il desiderio di sentirsele sul corpo per sapere con certezza se la loro carezza era leggera, come quella delle altre. Si scuote e si accinge a mangiare il pesce. Dopo il primo boccone dice semplicemente:
- Grazie. - Mentre un turbinio di ricordi gli fa fumare il cervello.
- Ah, ti è ritornata la parola! - Esclama lei con un sorriso luminoso. Guardandolo fisso nelle pupille come per leggergli nell'anima, aggiunge - Mancano ancora cento chilometri a Napoli, hai intenzione di farli in silenzio come sei stato in questa ora, o mi parlerai ancora delle opere d'arte della tua città.

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