di Reno Bromuro
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5. RITORNO A CAPODIMONTE
Improvvisamente fra di loro si è insinuato un silenzio
pesante che non ha scopo.
L'autostoppista beve un altro sorso di vino, Lei lo guarda con ammirazione
e compassione nello stesso tempo; lui se n'accorge:
- Perché mi guardi e non favelli? Non dirmi che è per i
miei occhi belli…
- Lascia in pace Giocosa. Che cosa ti è accaduto?
- Non è la prima volta che mi accade: sono avvolto da un velo che
stringe, stringe sempre di più alla gola…
- E' la nostalgia, ma fra meno di un'ora saremo a Napoli e tutto ti passerà.
- Ce l'hai ancora presente il Ponte della Sanità?
-
Certo. E' qui dinanzi ai miei occhi e guardo il Rione dal ponte di Via
Santa Teresa, un poco prima della salita di Capodimonte… Perché?
- Mi è venuto in mente un aneddoto raccontato da Giovanni
De Caro, nel libro "Napoli racconta".
Ti ricordo che don Ferdinando Russo era "'nu
sciupafemmene"…
- Come hai detto? Sciupa… che?
- Sciupafemmene. Significa donnaiolo, troppo bello perché
una donna se lo lasciasse scappare, la stessa cosa che accadde anche ad
Anna Vivante l'amante di Carducci, te
lo ricordi? Ebbene, 'nu juorne scenneva pe' capemonte, se fermaje
'n'attimo 'ncopp''o ponte pe guardà 'a gente che passava p''o Rione.
A 'nu certo mumento gli s'avvicina 'na zingara: giovane, bellissima, 'a
pelle bruna, bruna; il corpo avvolto in un vestitino multicolore, accussì
stritte che se vedene tutt''e forme comme si stesse annuda!
- Cavaliere bello, 'nce ddaje nu pare 'e sorde a zencarella toja?
- Russo la guarda n'attimo sultanto e già la figura della zingara
è impressa nella mente e nell'anima: l'ha fotografata e stampata,
sulo cu' n'occhiata! Conoscendosi,vorrebbe allontanarsi subito
dalla fanciulla, ma questa lo afferra per un braccio e ripete:
- Cavaliere bello, dalle 'na lira 'a zencarella toia! - E aggiunge
accaldata, come se fosse spinta da una forza occulta. - Ch'uocchie
'e fuoco che tiene e che capille 'e seta!… Si' bello comm''o principe
'e nu cunte d''e fate!
Finalmente don Ferdinando si ferma, la ri-squadra dalla testa ai piedi;
lei subito ne approfitta per afferrargli la mano, e prima che lui possa
ritrarla, la dice:
- Quanta figliole e quanta signore te vonno! Quante ne veco 'int''a
vita toia, cavaliere bello! Quante ne faie spasemà! A bona fortuna
te dà 'a zencarella toia!
- Il poeta compiaciuto,perché teneva molto al fascino irresistibile
che emanavano i suoi occhi di saraceno, mise in mano alla zingara una
moneta di due lire d'argento.
- Come stai, adesso?
- Ah! Come prima… Va' mentre aspettiamo il tuo caffè che
non arriva, ti racconto un altro aneddoto, questa volta dedicato a don
Salvatore Di Giacomo. Ti
premetto che don Salvatore era l'opposto di don Ferdinando, erano come
due facce della stessa medaglia: uno cosciente del suo fascino, le donne
una ne lasciava e l'altra la prendeva; giocatore incallito, smargiasso
e non temeva di passeggiare con "guappi"
famosi, tanto che a Napoli si cominciò a vociferare che fosse anche
lui un "guappo". Don Salvatore era timido, si vergognava finanche
della sua ombra; quando andava al Gambrinus
il celeberrimo caffè degli artisti… Come posso farti capire,
conosci il Caffè Greco di via Condotti a Roma?
Il Gambrinus era l'originale. Dicevo, quando Di Giacomo andava al Gambrinus,
si sedeva sempre al solito tavolo dietro una colonna portante del locale,
in modo che chi entrava non lo vedesse; ma gli amici che lo sapevano,
facevano "capuccella, 'a reto 'a colonna e lo salutavano rispettosamente".
Un giorno mentre usciva dal Gambrinus, era stato avvicinato da una bella
donna avvenente, "cull'uocchie mariuoli" ed era scappato;
mentre usciva ti dicevo, s'incontra col giornalista Carlo Nazzaro
all'angolo del Vico Rotto San Carlo (cinquanta metri più avanti
del caffè), dove, allora, esisteva la redazione del "II
Mattino" di Carlo Scarfoglio. Si salutano
e s'incamminano lentamente verso la vicina piazza San Ferdinando. Entrano
nel Gambrinus; don Salvatore che ne era uscito sono cinque minuti prima
non ha il coraggio di dire che non ne ha voglia; siedono al tavolo abituale
del Poeta, che, prima diventa "russo, russo comme 'nu peperone
'e Nucera, po' jancho janco comm''o muro 'e n'ospedale" e infine
parla e ordina due tazze di caffè. Di Giacomo, che ne aveva già
bevute due o tre, si sorseggia anche quest'altra tazzina, e non parla.
Nazzaro, invece, parla con enfasi del giornale, la sua passione. Me sa
che era diventato logorroico "cumm'a mme, doppo bevuto chist'atu
bicchiere 'e vino".
Il Poeta non sembra dargli ascolto:pensa intensamente.
- Maestro, - dice ad un tratto Nazzaro, - a che pensate?
- Mi devo sposare fra giorni, - risponde il Poeta; - ho comperato tutti
i mobili: mi manca solo... il letto.
- E perché non lo comprate?
Di Giacomo lo guarda fisso. Vuol dire qualcosa, ma esita. Poi si decide.
- Sentite, Nazzà, ho... vergogna. Mi volete accompagnare dal mobiliere?…
I due seduti al tavolo, ridono come due idioti. La donna ha una risata
argentina e musicale, somiglia al gorgoglio dell'acqua che scende dalla
sorgente verso la valle; l'autostoppista ride, un po' contagiato dalla
risata della donna e un po' per i fumi del vino che comincia a fare effetto.
- Com'è che hai detto?… - Chiede la donna e le parole si
confondono col suono argentino della risata - "Russo, russo come
un peperone 'e Nucera? Che cosa è questa nucera?
- Nocera Inferiore, un paesino in provincia di Salerno…
- Come mai, solo a Nocera coltivano i peperoni rossi?
- 'E puparuoli 'e Nucera songo di un rosso particolare: so' comm''o
fuoco che arde 'npetto ai napuletani, e so' belli piccanti e mangerecci.
- Allora mi conviene andare a Nocera per vedere la coltivazione di questi
"puparuole"? Dai, incitò la ragazza, raccontami un altro
aneddoto.
- Di Russo o di Di Di Giacomo?
- Allora ascolta questo e nota quanto era fino Di Giacomo: "muscio,
muscio, cacchio, cacchio era capace 'e piglià pe' fesso, con un'ironia
sottile che gli altri accorgendosene lo guadavano stralunati.
Un giorno scendevano per via Santa Lucia, Di
Giacomo, Russo e il pittore Eduardo Dalbono, la strada
che da un lato era delimitata, come ora, dalle alture del Pallonetto
di Monte di Dio e di Pizzofalcone, e dall'altro lato, dalla
spiaggia con barche a secco, bancarelle di "Ostricari",
cumuli di nasse, reti, biancheria al sole, velieri dondolanti, banche
di "acque zurfegna" del Chiatamone….
- Alt, azzittate un poco. Zurfegna? Che significa?… Non
è questa parola l'avete rubata ai romani? Aggiungendovi il suffisso?…
- 'O vino è ghiuto 'ncapo pure a te figlia, mia! Zurfegna,
significa "sulfurea", che prendono dalle fonti del Chiatamone,
un quartiere vicinissimo ai quartieri nobili… che l'acquaiuole
mettono dint''e mummarelle di terracotta per falla mantené sempe
fresca…
- Mummarelle? Va bene dopo me le spieghi, vai avanti col racconto. Stavi
dicendo che stava sul lungomare…
-
Oltre all'acquaiole cu' 'e "mummarelle", 'nce stevene
nu sacco 'e guagliuncelli scuri come mori, e giovani pescatori. Di
Giacomo, camminava mollo come quello che "piove o non piove questo
è il mio passo", senza parlare, quasi trasognato; Russo e
Dalbono si scambiavano frasi scherzose e improvvisavano delle "ingarrighiane"
(comporre a braccio endecasillabi a rime alternate), nelle quali erano
maestri, e si divertivano come ragazzi.
Una loro schietta risata fu interrotta da don Salvatore che, col dito
indice alzato, diceva, pudicamente:"Permettete?...vado un momentino...",
e mostrava un maleodorante "tempietto" poco lontano.
Mentre vi si dirigeva a piccoli passi per soddisfare l'impellente bisogno
Russo, rivolto a Dalbono, disse, ridendo:
- Don Eduà, 'o vedite a Salvatore? Pure quanno va a ..... pare
che va a cogliere na rosa!
Poi si resero conto che senza parlare, soltanto camminando stava facendo
la caricatura a Dalbono. Ad esempio una volta scrisse un articolo su Paisiello,
il grande musicista.
Per vivere, Russo dirigeva il Museo Archeologico
e lui scriveva cronaca rosa su "Il Mattino".
Fu così che in un articolo intitolato "PASSEGGIATE NAPOLITANE"
(vecchie ville e vecchi musicisti), apparso su "La Lettura",
del maggio 1920, Salvatore Di Giacomo racconta un aneddoto su Paisiello,
il quale un giorno, conducendo a passeggio il giovane musicista Ferrari
di Rovereto, timido e sconosciuto, nella Villa Reale, davanti alla cui
poetica entrata Paisiello era sceso da un calessetto che faceva rodere
d'invidia il suo competitore Guglielmi, l'autore di Nina pazza per
amore, aveva tastato il giovanotto roveretano per sentire da lui
se davvero l'amore della musica fosse quello che l'avviava agl'incanti
di Napoli. N'era seguita piacevole conversazione:
- Tu dunque sei deciso, caro il mio Tirolese, a divenire compositore?
- Volesse il cielo!
- E va buono, va buono, lassa fa a me!
- Sono molto sensibile al disturbo che Ella si vuol pigliare per me, e
non mi scorderò giammai della di Lei bontà!
- Ma tu che diavolo dice?
- Signore, Ella...
- Ella, Lei, Signore! Ma, figlio mio, sti tiermene ricercate e ridicole,
a Napole non s'ausano! Ccà nun se da il Signore a nisciuno. Si
da del voi a pochi, e del tu a tuttequante.
- "Come ti piace imponi".
- Uh, mmalora, tu aie letto Metastasio?
- E con che diletto!
- Bravo! Chillo è 'o mosto dei poeti per i maestri di cappella
drammatici! E Metastasio ti sarà più utile dell'ignorante
Paisiello.
- L'ignorante Paisiello! Ma voi scherzate! Io vi ho sempre
considerato come il primo compositore del mondo!
- Mannaggia màmmeta! Fosse overo, almeno!... Embe, vuo' sapé
'a verità? In musica io so' nu ciuccio!
Il giorno successivo, i commenti si ripetevano di bocca in bocca e l'ignoranza
di Paisiello diventò un manifesto, che si faceva sempre più
grande e sempre meno riverente. Di Giacomo, per non sentire mormorii al
suo passaggio, per almeno mezzora, si diresse verso i vecchi quartieri
di Napoli, entrò in una chiesa di stile barocco. La chiesa era
in penombra; solamente davanti ad un Cristo scolpito in legno, in una
cappella, vi era un lumino acceso.
Quel
Cristo crocifisso, magro, la corona di spine gocciolante stille di sangue
rappreso, il volto emaciato, la ferita al costato, era d'una potenza espressiva
che lasciava meravigliati.
Di Giacomo, che aveva cominciato a leggere le epigrafi,
nei dipinti, nell'architettura del tempio, negli ori stinti e nelle sculture,
la storia di quella chiesa antica, più che nei libri, s'era fermato
proprio davanti alla figura dell'Uomo che, nell'esalare l'ultimo respiro
sui Golgota, aveva fatto tremare la terra, lampeggiare e tuonare il cielo
e sbigottire i giudei.
Il Poeta, per osservare la statua anche dalla parte opposta, entrò
nella cappella quasi buia; il lumino sfrigolò, si spense. In quel
momento il Poeta ode la voce lamentosa di una donna appena entrata che,
rivolta confidenzialmente al Cristo, dice:
- Giesucrì, guardarne 'nfaccia. I' so' turnata n'ata vota.
Tu 'o ssaie 'e ppene meie: te l'aggio già cuntate. Giesucrì,
i' sto ancora mmiez 'e guaie. Nun me ne fido cchiù!... Miettece
'a mona toia. Tu sulamente può fa ca 'torna 'a pace dint' 'a casa
miai Giesucrì, t' 'o cerco pe' carità: famme 'a ràzia!
Che dice: m' 'a foie?
Di Giacomo, per confortare la povera plorante, pronunzia con voce grave,
profonda, che pare esca da sottoterra:
- Tutto s'aggiusta, buona donna. Vattenne 'a casa ed abbi fede.
La donna rimane un istante interdetta; poi esclama, esaltata:
- Giesucrì, te ringrazio. I' 'o ssapevo ca m'ha faciva 'a razzia!
Grazie, Giesucrì, grazie!... Me ne pozz'i'?...
- Vai, buona donna: vai tranquilla a casa.
La vecchia donna trema tutta; le gambe le si piegano per la grande emozione;
indugia... Poi, piangendo, s'abbraccia alla Croce e bacia i piedi del
Redentore; si stacca, si butta ginocchioni e tocca con la fronte il marmo
gelido della cappella. Resta così qualche minuto; poi s'alza, s'avvolge
nello scialle di lana grezza; guarda ancora il Martire, mormora in un
soffio:
- I' me ne vaco...; e, biascicando una preghiera, arretra, esce
dalla chiesa.
Il Poeta esce dall'ombra, si pone davanti a Gesù col capo chino,
e, con voce venata di commozione, dice: Perdonami...
E, con l'animo lieve per aver confortato, con quel trucco irriverente,
ma umano, la povera donna, esce anch'egli dalla chiesa e s'inoltra pei
vicoli oscuri di quella parte della vecchia Napoli.
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