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del testo pubblicitario > La rappresentazione del testo pubblicitario La rappresentazione del testo televisivo Punti di vista e focalizzazione Pertinenza e isotopia |
II. La rappresentazione del testo pubblicitario
Se l'intento è quello di individuare i percorsi
della significazione che il testo pubblicitario mette in atto,
occorre prestare attenzione, oltre al livello del linguaggio utilizzato
e a quello delle forme argomentative, ad un ulteriore livello tramite
il quale si esprimono le strutture discorsive: appunto quello della rappresentazione.
Tale ambito d'indagine investe la forma assunta dal mondo costruito all'interno
del testo attorno agli assi dello spazio e del tempo. Il modo
di articolare e presentare la dimensione spaziale e temporale determina,
infatti, diversi tipi di strutture rappresentative.
Sottesa al concetto di rappresentazione vi è l'idea di far
presente qualcosa di assente, di sostituire, di dare raffigurazione
di un certo qualcosa. Insomma, quel che è chiamato in causa è
l'attivazione di una funzione vicaria: x sta per y, x assomiglia a y,
ne fa le veci.
A questo proposito si potrebbe sottolineare l'ambiguità
insita in ogni tipo di rappresentazione, per il fatto che questa
si presenta sempre in qualche modo come un percorso doppio e per certi
versi contraddittorio: da un lato ci si muove verso la rappresentazione
fedele e la ricostruzione meticolosa del mondo; dall'altro verso la costruzione
di un mondo a sé, comunque distante da quello di primo riferimento.
Il rappresentare, infatti, procede sia in direzione della presenza
della cosa (sulla base dell'evidenza e rassomiglianza), sia in direzione
della sua assenza (sulla base dell'illusorietà e del miraggio
dell'immagine). Nel primo caso si garantisce la recuperabilità
di ciò che è assente, al punto da farlo sembrare presente;
nel secondo si sottolinea la distanza che separa sostituente e sostituito,
dando una presenza che vale più per sé che per ciò
che deve rimpiazzare. Il mondo, insomma, pone un dilemma a chi
lo voglia rappresentare: tradurlo o tradirlo? Insistere sul sostituto,
il mondo reale, oppure sul sostituente, il mondo del testo che
ne riferisce? È chiaro che questo tipo di considerazioni sono più
facilmente avvicinabili ai testi audiovisivi, all'interno dei quali la
detta ambiguità delle procedure di rappresentazione si fa evidente.
Per provare a chiarirla con altre parole, ci si potrebbe appoggiare alle considerazioni mosse da uno dei massimi studiosi di cinema, Christian Metz, il quale, appunto analizzando la rappresentazione cinematografica, così veniva a scrivere:
"[...] da un lato si ha una vocazione "riproduttiva", che fa ricorso alla fedeltà mimetica e all'evidenza del materiale fotografico; dall'altro una vocazione per così dire "produttiva", caratterizzata da un legame del tutto accidentale con il dato oggettivo, e che trova il suo sbocco nella manipolazione dei dati di partenza, nella loro rielaborazione creativa, nella loro ristrutturazione sistematica, nel loro rimescolamento. La macchina da presa verrebbe nel primo caso a porsi come un dispositivo "neutro" sia in senso ideologico che tecnico, e cioè come un qualcosa in grado di restituire con oggettività e senza mediazioni il mondo rappresentato; mentre nel secondo caso si presenterebbe come meccanismo "prepotente", pronto a imporre la propria visione del mondo (in senso letterale: e cioè pronto a ridurre la realtà a un'immagine delimitata, piatta, legata alla prospettiva centrale ecc.), e per tali ragioni strutturalmente incapace di intrattenere un rapporto oggettivo con le cose".
Considerazioni del genere, ovviamente, sono quanto mai
appropriate anche per il tipo di rappresentazione messo in atto dalla
pubblicità.
Gli spot tendono a presentarsi ciascuno come "specchio della
realtà", come "finestra sul mondo".
Spesso potendo far leva sulla forza delle immagini, tendono a far passare
l'idea che ciò che appare sullo schermo o sul cartellone o sulla
pagina stampata sia la restituzione "fedele" della realtà,
è la realtà stessa, che ci si presenta "come se"
noi stessi vi ci muovessimo dentro... In verità, il fatto che si
tenda ad annullare la "mediazione" delle telecamere
o delle macchine fotografiche, non cambia le cose: questa mediazione rimane,
e rimane quel "come se", a dirci appunto che oggettivamente
non facciamo parte di nessuna realtà rappresentata sullo schermo;
tale realtà è frutto di una rielaborazione, di una
ri-produzione, dunque di un lavoro di selezione e di riorganizzazione.
Capita per la rappresentazione, in definitiva, ciò che può
essere visto anche all'interno della narrazione: il fatto di raccontare
un qualche evento della realtà, ci separa da quello stesso evento;
nel momento in cui io racconto una certa vicenda, magari anche che abbia
coinvolto direttamente me, la mia persona, di fatto vengo a pormene ad
una certa distanza.
Sempre con Metz, possiamo dire che:
"la realtà suppone la presenza, che è una situazione privilegiata rispetto a due parametri, lo spazio e il tempo; è pienamente reale soltanto l'hic et nunc. Ora, il racconto, con la sua stessa apparizione, provoca o la defezione del nunc (racconti di vita corrente) o quella dell'hic (servizi "in diretta" della televisione), e più spesso quella di entrambi (cinegiornali, narrazioni storiche ecc.). Un racconto non può mai essere percepito come tale se non fino a quando c'è un margine, anche infimo, che lo separa dalla pienezza dell'hic et nunc".
La stessa cosa vale, in fondo, per la rappresentazione,
con la differenza, forse, che se l'istanza irrealizzante, diciamo, del
racconto è evidente, nella rappresentazione operata all'interno
di un testo pubblicitario (specie se spot televisivo), tale istanza sembra
quasi nascondersi: il motivo va ricercato proprio nell'effetto
di realtà delle immagini. Ed è appunto su di esso
che si fonda l'ideologia di cui dicevamo, quella di "specchio della
realtà" o "finestra sulla realtà", in grado
di portare il "mondo" nelle case dei consumatori.
Il rapporto tra realtà e sua rappresentazione rimane dunque al
quanto complesso e a illustrare in qualche modo questo genere di problematica
ci viene alla mente un passo del racconto Favola delle cose ultime,
di Sergio Givone. La storia è quella del giovane
seminarista Ranabota che vede venire meno la propria vocazione, e l'episodio
che, appunto, accompagna la sua decisione di lasciare il seminario, ci
sembra significativo per il discorso che stiamo facendo: la situazione
è quella di una messa celebrata dal padre Anton Giulio Faloppa
e trasmessa dalla televisione. A seguirla, proprio attraverso il piccolo
schermo, Ranabota, il giocatore della Pro Vercelli Leone Perotti e le
tre sorelle di quest'ultimo.
In nomine patris et fili et spiritus sancti...
Tutti si segnano. Anche Ranabota, prende atto con un certo sollievo il
Perotti. Ma poi osserva che abbassa gli occhi e non li rialza. Come se
provasse un'infinita vergogna. "Quel benedetto ragazzo, - pensa,
- ma che cos'ha in mente?" Inutile dire che le tre sorelle invece
piangono e tripudiano. La Lina è visitata da un pensiero ardito:
"Se Gesù Cristo fosse arrivato a sessanta anni, avrebbe quella
faccia lì". Invece la Pina è portata a riflettere sul
numero di conversioni che in quel momento stanno avvenendo in ogni angolo
d'Italia. Da parte sua la Maria si contenta di dire a se stessa che il
padre "è ancora più bello". E vede giusto, la
buona Maria. Il fatto è che l'uomo dello schermo, visibilmente
soffre. Ma è un soffrire, il suo, singolare, ambivalente - e nessuno
saprebbe dire dove finisce il patimento e incomincia il piacere. Strano
piacere. Che si nutre del suo contrario, volgendolo in vanità ed
egotismo. Il risultato è uno strano balletto dei muscoli del viso
e del corpo tutt'intero. Per dire il quale non c'è forse termine
più felicemente equivoco che: trasfigurazione. No, non che l'uomo
reciti. È al di là di ciò. In una regione in cui
non è possibile distinguere la verità e la menzogna.
[...]
Hoc est enim corpus meum...
È l'elevazione. Inutilmente dissuasa dalle sorelle, che temono
per le successive operazioni di rialzo, la Maria si è inginocchiata
sul nudo pavimento. E dopo qualche secondo: "Guardate!", grida,
e mostra ai presenti un raggio di sole che timidamente ha bucato la nebbia.
Il pensiero delle tre sorelle è: "Eccolo il segno che aspettavamo".
Quello di Leone Perotti, invece: "Mi sa che oggi si gioca, non l'avrei
detto". Subito si guarda intorno smarrito. Come se si fosse lasciato
sorprendere a pensare quel che ha pensato. Ma che farci: gli è
venuto in mente così. Non fa a tempo a pentirsi, il Perotti, che
lo schermo si abbuia. Poi è attraversato da righe orizzontali.
Compare una tizia ad annunciare una breve interruzione per un guasto tecnico.
Sgomento. Ma prima che si trasformi in panico, Ranabota commenta: "Così
sapremo se è una messa vera o una messa finta". Nessuno capisce
che cosa abbia voluto dire. Tanto meno Perotti. Che anzi incomincia seriamente
a dubitare della salute mentale del ragazzo.
Hic est enim calix sanguinis mei...
La trasmissione (la messa?) riprende dopo una decina di minuti esattamente
dal punto in cui la messa (la trasmissione?) era stata interrotta e non,
come Ranabota nonostante tutto sperava, dal punto in cui sarebbe giunta
se fosse proseguita nella realtà indipendentemente dalle riprese
televisive. Ma non per questo ha trovato una risposta alla questione:
è vera o finta? Perché non è né vera né
finta. Semmai: è una messa vera ma vera solo dentro la finzione.
In compenso le sorelle esultano. Non solo nel raggio di sole che ha bucato
la nebbia hanno visto la mano di Dio, ma nel guasto che ha interrotto
lo spettacolo (spettacolo?) hanno visto la mano del demonio. Che però
nulla ha potuto contro il padre Faloppa.
Nelle domande di Ranabota, riguardo la "verità"
o la "finzione" della celebrazione trasmessa alla Tv, si possono
riconoscere i legittimi dubbi di chiunque assista ad una forma di rappresentazione
della realtà. Ma la cosa che può dare da riflettere è
che anche il fatto che la trasmissione riprenda dallo stesso punto in
cui s'era interrotta non lo porta ad una risposta definitiva, anzi, Ranabota
crede che: non è né vera né finta. Semmai è
una messa vera solo nella finzione. Troviamo qui un ottimo spunto di riflessione
perché il passo ci sembra dare un po' il senso, non solo del complesso
rapporto "realtà/sua rappresentazione", ma anche della
"verità", questa sì, della relativa fruizione,
infatti la messa di padre Anton Giulio Faloppa viene vissuta con una dimensione
estremamente "partecipativa": quando Ranabota vede nell'interruzione
la possibilità di capire, ora, se la celebrazione è vera
o finta, nessuno capisce che cosa abbia voluto dire. E forse l'immagine
più appropriata per definire la complessità della relazione
che si instaura tra realtà e rappresentazione che ne viene data
a mezzo delle immagini, è proprio quello strano stato in cui veniva
descritto il padre celebrante: "No, non che l'uomo reciti.
E' al di là di ciò. In una regione in cui non è possibile
distinguere la verità e la menzogna".
Se si accetta l'ambiguità di ogni forma di rappresentazione - si
è detto: un percorso doppio, contraddittorio, in direzione ora
verso la "presenza" della cosa reale, ora verso la sua "assenza"
- bisogna allora capire che la vera caratteristica della rappresentazione
non risiede né in questa né in quell'altra faccia, ma appunto
nella medaglia che si compone di entrambe.
(segue >>)
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