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Il testo e la sua rappresentazione: pubblicità e spot televisivi

di Giovanni Greppi

Nella categoria: HOME | Strumenti di critica

Gli articoli sull'argomento:

I.
II.
III.
IV.
V.
Introduzione alla critica del testo pubblicitario
> La rappresentazione del testo pubblicitario
La rappresentazione del testo televisivo
Punti di vista e focalizzazione
Pertinenza e isotopia

II. La rappresentazione del testo pubblicitario

Se l'intento è quello di individuare i percorsi della significazione che il testo pubblicitario mette in atto, occorre prestare attenzione, oltre al livello del linguaggio utilizzato e a quello delle forme argomentative, ad un ulteriore livello tramite il quale si esprimono le strutture discorsive: appunto quello della rappresentazione.
Tale ambito d'indagine investe la forma assunta dal mondo costruito all'interno del testo attorno agli assi dello spazio e del tempo. Il modo di articolare e presentare la dimensione spaziale e temporale determina, infatti, diversi tipi di strutture rappresentative.
Sottesa al concetto di rappresentazione vi è l'idea di far presente qualcosa di assente, di sostituire, di dare raffigurazione di un certo qualcosa. Insomma, quel che è chiamato in causa è l'attivazione di una funzione vicaria: x sta per y, x assomiglia a y, ne fa le veci.

A questo proposito si potrebbe sottolineare l'ambiguità insita in ogni tipo di rappresentazione, per il fatto che questa si presenta sempre in qualche modo come un percorso doppio e per certi versi contraddittorio: da un lato ci si muove verso la rappresentazione fedele e la ricostruzione meticolosa del mondo; dall'altro verso la costruzione di un mondo a sé, comunque distante da quello di primo riferimento.
Il rappresentare, infatti, procede sia in direzione della presenza della cosa (sulla base dell'evidenza e rassomiglianza), sia in direzione della sua assenza (sulla base dell'illusorietà e del miraggio dell'immagine). Nel primo caso si garantisce la recuperabilità di ciò che è assente, al punto da farlo sembrare presente; nel secondo si sottolinea la distanza che separa sostituente e sostituito, dando una presenza che vale più per sé che per ciò che deve rimpiazzare. Il mondo, insomma, pone un dilemma a chi lo voglia rappresentare: tradurlo o tradirlo? Insistere sul sostituto, il mondo reale, oppure sul sostituente, il mondo del testo che ne riferisce? È chiaro che questo tipo di considerazioni sono più facilmente avvicinabili ai testi audiovisivi, all'interno dei quali la detta ambiguità delle procedure di rappresentazione si fa evidente.

Per provare a chiarirla con altre parole, ci si potrebbe appoggiare alle considerazioni mosse da uno dei massimi studiosi di cinema, Christian Metz, il quale, appunto analizzando la rappresentazione cinematografica, così veniva a scrivere:

"[...] da un lato si ha una vocazione "riproduttiva", che fa ricorso alla fedeltà mimetica e all'evidenza del materiale fotografico; dall'altro una vocazione per così dire "produttiva", caratterizzata da un legame del tutto accidentale con il dato oggettivo, e che trova il suo sbocco nella manipolazione dei dati di partenza, nella loro rielaborazione creativa, nella loro ristrutturazione sistematica, nel loro rimescolamento. La macchina da presa verrebbe nel primo caso a porsi come un dispositivo "neutro" sia in senso ideologico che tecnico, e cioè come un qualcosa in grado di restituire con oggettività e senza mediazioni il mondo rappresentato; mentre nel secondo caso si presenterebbe come meccanismo "prepotente", pronto a imporre la propria visione del mondo (in senso letterale: e cioè pronto a ridurre la realtà a un'immagine delimitata, piatta, legata alla prospettiva centrale ecc.), e per tali ragioni strutturalmente incapace di intrattenere un rapporto oggettivo con le cose".

Considerazioni del genere, ovviamente, sono quanto mai appropriate anche per il tipo di rappresentazione messo in atto dalla pubblicità.
Gli spot tendono a presentarsi ciascuno come "specchio della realtà", come "finestra sul mondo". Spesso potendo far leva sulla forza delle immagini, tendono a far passare l'idea che ciò che appare sullo schermo o sul cartellone o sulla pagina stampata sia la restituzione "fedele" della realtà, è la realtà stessa, che ci si presenta "come se" noi stessi vi ci muovessimo dentro... In verità, il fatto che si tenda ad annullare la "mediazione" delle telecamere o delle macchine fotografiche, non cambia le cose: questa mediazione rimane, e rimane quel "come se", a dirci appunto che oggettivamente non facciamo parte di nessuna realtà rappresentata sullo schermo; tale realtà è frutto di una rielaborazione, di una ri-produzione, dunque di un lavoro di selezione e di riorganizzazione. Capita per la rappresentazione, in definitiva, ciò che può essere visto anche all'interno della narrazione: il fatto di raccontare un qualche evento della realtà, ci separa da quello stesso evento; nel momento in cui io racconto una certa vicenda, magari anche che abbia coinvolto direttamente me, la mia persona, di fatto vengo a pormene ad una certa distanza.

Sempre con Metz, possiamo dire che:

"la realtà suppone la presenza, che è una situazione privilegiata rispetto a due parametri, lo spazio e il tempo; è pienamente reale soltanto l'hic et nunc. Ora, il racconto, con la sua stessa apparizione, provoca o la defezione del nunc (racconti di vita corrente) o quella dell'hic (servizi "in diretta" della televisione), e più spesso quella di entrambi (cinegiornali, narrazioni storiche ecc.). Un racconto non può mai essere percepito come tale se non fino a quando c'è un margine, anche infimo, che lo separa dalla pienezza dell'hic et nunc".

La stessa cosa vale, in fondo, per la rappresentazione, con la differenza, forse, che se l'istanza irrealizzante, diciamo, del racconto è evidente, nella rappresentazione operata all'interno di un testo pubblicitario (specie se spot televisivo), tale istanza sembra quasi nascondersi: il motivo va ricercato proprio nell'effetto di realtà delle immagini. Ed è appunto su di esso che si fonda l'ideologia di cui dicevamo, quella di "specchio della realtà" o "finestra sulla realtà", in grado di portare il "mondo" nelle case dei consumatori.
Il rapporto tra realtà e sua rappresentazione rimane dunque al quanto complesso e a illustrare in qualche modo questo genere di problematica ci viene alla mente un passo del racconto Favola delle cose ultime, di Sergio Givone. La storia è quella del giovane seminarista Ranabota che vede venire meno la propria vocazione, e l'episodio che, appunto, accompagna la sua decisione di lasciare il seminario, ci sembra significativo per il discorso che stiamo facendo: la situazione è quella di una messa celebrata dal padre Anton Giulio Faloppa e trasmessa dalla televisione. A seguirla, proprio attraverso il piccolo schermo, Ranabota, il giocatore della Pro Vercelli Leone Perotti e le tre sorelle di quest'ultimo.

In nomine patris et fili et spiritus sancti...
Tutti si segnano. Anche Ranabota, prende atto con un certo sollievo il Perotti. Ma poi osserva che abbassa gli occhi e non li rialza. Come se provasse un'infinita vergogna. "Quel benedetto ragazzo, - pensa, - ma che cos'ha in mente?" Inutile dire che le tre sorelle invece piangono e tripudiano. La Lina è visitata da un pensiero ardito: "Se Gesù Cristo fosse arrivato a sessanta anni, avrebbe quella faccia lì". Invece la Pina è portata a riflettere sul numero di conversioni che in quel momento stanno avvenendo in ogni angolo d'Italia. Da parte sua la Maria si contenta di dire a se stessa che il padre "è ancora più bello". E vede giusto, la buona Maria. Il fatto è che l'uomo dello schermo, visibilmente soffre. Ma è un soffrire, il suo, singolare, ambivalente - e nessuno saprebbe dire dove finisce il patimento e incomincia il piacere. Strano piacere. Che si nutre del suo contrario, volgendolo in vanità ed egotismo. Il risultato è uno strano balletto dei muscoli del viso e del corpo tutt'intero. Per dire il quale non c'è forse termine più felicemente equivoco che: trasfigurazione. No, non che l'uomo reciti. È al di là di ciò. In una regione in cui non è possibile distinguere la verità e la menzogna.
[...]
Hoc est enim corpus meum...
È l'elevazione. Inutilmente dissuasa dalle sorelle, che temono per le successive operazioni di rialzo, la Maria si è inginocchiata sul nudo pavimento. E dopo qualche secondo: "Guardate!", grida, e mostra ai presenti un raggio di sole che timidamente ha bucato la nebbia. Il pensiero delle tre sorelle è: "Eccolo il segno che aspettavamo". Quello di Leone Perotti, invece: "Mi sa che oggi si gioca, non l'avrei detto". Subito si guarda intorno smarrito. Come se si fosse lasciato sorprendere a pensare quel che ha pensato. Ma che farci: gli è venuto in mente così. Non fa a tempo a pentirsi, il Perotti, che lo schermo si abbuia. Poi è attraversato da righe orizzontali. Compare una tizia ad annunciare una breve interruzione per un guasto tecnico. Sgomento. Ma prima che si trasformi in panico, Ranabota commenta: "Così sapremo se è una messa vera o una messa finta". Nessuno capisce che cosa abbia voluto dire. Tanto meno Perotti. Che anzi incomincia seriamente a dubitare della salute mentale del ragazzo.
Hic est enim calix sanguinis mei...
La trasmissione (la messa?) riprende dopo una decina di minuti esattamente dal punto in cui la messa (la trasmissione?) era stata interrotta e non, come Ranabota nonostante tutto sperava, dal punto in cui sarebbe giunta se fosse proseguita nella realtà indipendentemente dalle riprese televisive. Ma non per questo ha trovato una risposta alla questione: è vera o finta? Perché non è né vera né finta. Semmai: è una messa vera ma vera solo dentro la finzione. In compenso le sorelle esultano. Non solo nel raggio di sole che ha bucato la nebbia hanno visto la mano di Dio, ma nel guasto che ha interrotto lo spettacolo (spettacolo?) hanno visto la mano del demonio. Che però nulla ha potuto contro il padre Faloppa.

Nelle domande di Ranabota, riguardo la "verità" o la "finzione" della celebrazione trasmessa alla Tv, si possono riconoscere i legittimi dubbi di chiunque assista ad una forma di rappresentazione della realtà. Ma la cosa che può dare da riflettere è che anche il fatto che la trasmissione riprenda dallo stesso punto in cui s'era interrotta non lo porta ad una risposta definitiva, anzi, Ranabota crede che: non è né vera né finta. Semmai è una messa vera solo nella finzione. Troviamo qui un ottimo spunto di riflessione perché il passo ci sembra dare un po' il senso, non solo del complesso rapporto "realtà/sua rappresentazione", ma anche della "verità", questa sì, della relativa fruizione, infatti la messa di padre Anton Giulio Faloppa viene vissuta con una dimensione estremamente "partecipativa": quando Ranabota vede nell'interruzione la possibilità di capire, ora, se la celebrazione è vera o finta, nessuno capisce che cosa abbia voluto dire. E forse l'immagine più appropriata per definire la complessità della relazione che si instaura tra realtà e rappresentazione che ne viene data a mezzo delle immagini, è proprio quello strano stato in cui veniva descritto il padre celebrante: "No, non che l'uomo reciti. E' al di là di ciò. In una regione in cui non è possibile distinguere la verità e la menzogna".
Se si accetta l'ambiguità di ogni forma di rappresentazione - si è detto: un percorso doppio, contraddittorio, in direzione ora verso la "presenza" della cosa reale, ora verso la sua "assenza" - bisogna allora capire che la vera caratteristica della rappresentazione non risiede né in questa né in quell'altra faccia, ma appunto nella medaglia che si compone di entrambe.

(segue >>)

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